Durante la Seconda Guerra, Simone Weil e Rachel Bespaloff seguono, senza
conoscersi, lo stesso destino di paura e letterario. Nascono così due libri
sullo stesso tema. Che oggi, per caso, tornano in libreria. Di tutto questo
parla Matteo Nucci nell’articolo seguente, pubblicato qualche settimana fa sul Venerdì di La Repubblica:
Matteo Nucci - L’Iliade e le vite
parallele di due donne in fuga dall’orrore
Settant’anni fa, in questi giorni, due
intellettuali ebree che hanno molto in comune si dividono per sempre. Hanno
rispettivamente quarantasette e trentatré anni: Rachel Bespaloff, è nata a
Kiev, è cresciuta a Ginevra studiando musica, infine si è trasferita in Francia
dove sono emersi i suoi interessi filosofici; Simone Weil, è nata a Parigi e ha
già scritto la massima parte di un’opera destinata a grande posterità.
Schiacciate dall’Europa in fiamme,
entrambe sono sbarcate nell’estate a New York con due navi attese per mesi a
Marsiglia. La Weil però riparte subito: ha deciso di raggiungere la resistenza
francese in Inghilterra e si è imbarcata di nuovo. Se non ha avuto parole di
saluto per Rachel Bespaloff la ragione è semplice: non la conosce. Non si sono
mai incontrate, finora, e non si incontreranno mai. Un destino che a noi oggi
appare beffardo. Perché rarissimi sono i casi di due percorsi così casualmente
paralleli. Mentre, infatti, a inizio 1942 cominciano a aspettare una nave che
possa portarle lontane dalla Francia occupata, Simone Weil e Rachel Bespaloff,
benché si ignorino, hanno alle spalle un lavoro parallelo che a riguardarlo con
il senno del poi sembra manovrato da un abile burattinaio. Entrambe hanno speso
mesi a rileggere e studiare il poema che è all’origine della letteratura
occidentale, l’Iliade, per poi scrivere su di esso saggi zeppi di
riferimenti al tempo che stanno vivendo.
Ne sono usciti due studi convergenti e
divergenti che, per un’altra svolta del caso, tornano ora contemporaneamente
nelle librerie italiane: L’Iliade o il poema della forza di Simone Weil (Asterios Editore, trad. F. Rubini, cura di
A. Di Grazia, pp. 109, euro 9) e Iliade di
Rachel Bespaloff (Castelvecchi, trad. V. Bernacchi, introduzione di J. Wahl,
pp. 95, euro 9).
È difficile, per chi oggi legga i due
volumetti, credere che Weil e Bespaloff non si conobbero, non discussero, non
collaborarono e non lessero i rispettivi lavori. Ma così stanno le cose. Il
saggio della Weil uscì nel 1941 sotto uno pseudonimo anagramma: Emile Novis.
Quello della Bespaloff fu pubblicato invece nel 1943. In realtà, se lo spirito
dei lavori è lo stesso, molto diversa è la risposta che le due filosofe offrono
ai dilemmi posti dal poema omerico. Quanto allo spirito, dobbiamo
considerare un’altra sconcertante casualità. Entrambe le studiose visitano la
straordinaria esibizione dei dipinti di Goya, spostati dal Prado al Museo delle
Arti di Ginevra per sottrarli ai pericoli della guerra civile spagnola. Di
fronte al genio di Goya, Weil e Bespaloff restano a bocca aperta. A colpirle
non sono tanto le torture e le mutilazioni che il pittore ritrae raccontando le
nefandezze di cui si sono macchiate le truppe napoleoniche durante
l’occupazione della Spagna tra il 1808 e il 1814. Piuttosto è l’assoluta
assenza di spirito narrativo: niente nomi, nessun volto riconoscibile, nessun
prima e dopo; solo immagini catturate nel momento in cui l’evento ha luogo, in
un presente quasi metastorico.
È così che le due filosofe raccontano
l’Iliade. Come una serie di atrocità prive di vera e propria connessione. Come
se a prevalere, in ciascun momento del dramma, fosse ogni volta
l’espressione pura dell’umanità, nei suoi eccessi di odio e di amore.
Entro questo spirito che rende l’Iliade un punto di riferimento eterno, le due
studiose finiscono però per divergere. Per Weil esso è il poema della forza.
Per Bespaloff invece è il poema della resistenza. «La forza è ciò che rende
chiunque le sia sottomesso una cosa» scrive Weil. Nulla è più cosa di un cadavere,
di un morto. Ma morti sono anche coloro che restano in vita e tuttavia sono a
tal punto sottomessi che nessun’anima può più abitarli. Gli schiavi, in massimo
grado, ma anche coloro che inermi chiedono salvezza. Ossia tutti gli esseri
umani. Perché chi in un momento prevale, sconterà presto il suo successo sotto
la forza altrui. Tanta cupezza sarebbe però insopportabile se nel poema, non
vivesse ovunque un «accento di amarezza inguaribile», un tono che non cessa mai
e rende «questo poema una cosa miracolosa».
Il miracolo per Rachel Bespaloff s’incarna
invece in un eroe ben preciso: Ettore. «La sofferenza e la perdita hanno
lasciato Ettore nudo; egli non ha nulla se non se stesso». Così si apre il
saggio. Con l’esaltazione della resistenza di cui l’eroe troiano si fa
portatore ben oltre Achille, disprezzato come eroe del risentimento. In questo
senso, per Bespaloff «quel che Omero esalta, santifica, non è il trionfo della
forza vittoriosa, ma l’energia umana nella sventura». Per capire di che
energia si tratti però bisogna aspettare la chiave di volta dello scritto: «A
quella vita che divora, la guerra restituisce un’importanza suprema. Poiché ci
toglie ogni cosa, diventa inestimabile il Tutto, la cui presenza, d’improvviso,
ci viene imposta dalla tragica vulnerabilità delle esistenze particolari». La
vita acquista il suo valore più alto proprio quando è in pericolo. Quando tutto
è perso, il Tutto comincia a valere davvero. Per questo chi difende quel Tutto,
quella vita che tutti ci lega, chi dunque resiste, mettendo in gioco la propria
vita particolare, è il vero e unico eroe. Anche per Bespaloff, dunque, il
senso del poema sta nell’amarezza, come contraltare però di qualsiasi speranza
di resistere.
Del resto, mentre perdevano
definitivamente la possibilità di un incontro, le due filosofe ebree non
smisero di seguire un destino comune. Simone Weil, contratta la tubercolosi, si
spense il 24 agosto del 1943 nel Kent. Sulla sua morte il dibattito non si è
mai chiuso: secondo alcuni fu l’epilogo più scontato per un corpo già fragile e
minato dagli stenti.
Secondo altri fu una sorta di suicidio: si
sarebbe lasciata morire, negandosi il cibo pur di evitare qualsiasi privilegio
rispetto a chi combatteva per la libertà. Quanto a Rachel Bespaloff, invece,
nessun mistero. Nel 1943 cominciò a insegnare francese a Mount Holyoke,
Massachusetts. Lontana dalle cerchie di intellettuali, oppressa dalla
solitudine, continuò a insegnare per sei anni, poi scrisse un saggio sull’opera
di Camus intitolato II mondo dell’Uomo condannato alla morte. Infine, il
6 aprile del 1949, chiuse le porte e le finestre della sua cucina, sigillandole
con gli asciugamani, aprì il gas e attese.
queste due donne hanno lasciato il segno nella storia.
RispondiEliminaBertania Olga