20 gennaio 2013

L' ILIADE RACCONTATA DA DUE GRANDI DONNE

Iliade, Libro VIII, versi 245-253 - da un manoscritto greco di fine V secolo o inizio VI secolo



Durante la Seconda Guerra, Simone Weil e Rachel Bespaloff seguono, senza conoscersi, lo stesso destino di paura e letterario. Nascono così due libri sullo stesso tema. Che oggi, per caso, tornano in libreria. Di tutto questo parla Matteo Nucci nell’articolo seguente, pubblicato  qualche settimana fa sul Venerdì di La Repubblica:

Matteo Nucci - L’Iliade e le vite parallele di due donne in fuga dall’orrore



  Settant’anni fa, in questi giorni, due intellettuali ebree che hanno molto in comune si dividono per sempre. Hanno rispettivamente quarantasette e trentatré anni: Rachel Bespaloff, è nata a Kiev, è cresciuta a Ginevra studiando musica, infine si è trasferita in Francia dove sono emersi i suoi interessi filosofici; Simone Weil, è nata a Parigi e ha già scritto la massima parte di un’opera destinata a grande posterità.
Schiacciate dall’Europa in fiamme, entrambe sono sbarcate nell’estate a New York con due navi attese per mesi a Marsiglia. La Weil però riparte subito: ha deciso di raggiungere la resistenza francese in Inghilterra e si è imbarcata di nuovo. Se non ha avuto parole di saluto per Rachel Bespaloff la ragione è semplice: non la conosce. Non si sono mai incontrate, finora, e non si incontreranno mai. Un destino che a noi oggi appare beffardo. Perché rarissimi sono i casi di due percorsi così casualmente paralleli. Mentre, infatti, a inizio 1942 cominciano a aspettare una nave che possa portarle lontane dalla Francia occupata, Simone Weil e Rachel Bespaloff, benché si ignorino, hanno alle spalle un lavoro parallelo che a riguardarlo con il senno del poi sembra manovrato da un abile burattinaio. Entrambe hanno speso mesi a rileggere e studiare il poema che è all’origine della letteratura occidentale, l’Iliade, per poi scrivere su di esso saggi zeppi di riferimenti al tempo che stanno vivendo.
 Ne sono usciti due studi convergenti e divergenti che, per un’altra svolta del caso, tornano ora contemporaneamente nelle librerie italiane: L’Iliade o il poema della forza di Simone Weil (Asterios Editore, trad. F. Rubini, cura di A. Di Grazia, pp. 109, euro 9) e Iliade di Rachel Bespaloff (Castelvecchi, trad. V. Bernacchi, introduzione di J. Wahl, pp. 95, euro 9).




 
È difficile, per chi oggi legga i due volumetti, credere che Weil e Bespaloff non si conobbero, non discussero, non collaborarono e non lessero i rispettivi lavori. Ma così stanno le cose. Il saggio della Weil uscì nel 1941 sotto uno pseudonimo anagramma: Emile Novis. Quello della Bespaloff fu pubblicato invece nel 1943. In realtà, se lo spirito dei lavori è lo stesso, molto diversa è la risposta che le due filosofe offrono ai dilemmi posti dal poema omerico. Quanto allo spirito, dobbiamo considerare un’altra sconcertante casualità. Entrambe le studiose visitano la straordinaria esibizione dei dipinti di Goya, spostati dal Prado al Museo delle Arti di Ginevra per sottrarli ai pericoli della guerra civile spagnola. Di fronte al genio di Goya, Weil e Bespaloff restano a bocca aperta. A colpirle non sono tanto le torture e le mutilazioni che il pittore ritrae raccontando le nefandezze di cui si sono macchiate le truppe napoleoniche durante l’occupazione della Spagna tra il 1808 e il 1814. Piuttosto è l’assoluta assenza di spirito narrativo: niente nomi, nessun volto riconoscibile, nessun prima e dopo; solo immagini catturate nel momento in cui l’evento ha luogo, in un presente quasi metastorico.
È così che le due filosofe raccontano l’Iliade. Come una serie di atrocità prive di vera e propria connessione. Come se a prevalere, in ciascun momento del dramma, fosse ogni volta l’espressione pura dell’umanità, nei suoi eccessi di odio e di amore. Entro questo spirito che rende l’Iliade un punto di riferimento eterno, le due studiose finiscono però per divergere. Per Weil esso è il poema della forza. Per Bespaloff invece è il poema della resistenza. «La forza è ciò che rende chiunque le sia sottomesso una cosa» scrive Weil. Nulla è più cosa di un cadavere, di un morto. Ma morti sono anche coloro che restano in vita e tuttavia sono a tal punto sottomessi che nessun’anima può più abitarli. Gli schiavi, in massimo grado, ma anche coloro che inermi chiedono salvezza. Ossia tutti gli esseri umani. Perché chi in un momento prevale, sconterà presto il suo successo sotto la forza altrui. Tanta cupezza sarebbe però insopportabile se nel poema, non vivesse ovunque un «accento di amarezza inguaribile», un tono che non cessa mai e rende «questo poema una cosa miracolosa».
Il miracolo per Rachel Bespaloff s’incarna invece in un eroe ben preciso: Ettore. «La sofferenza e la perdita hanno lasciato Ettore nudo; egli non ha nulla se non se stesso». Così si apre il saggio. Con l’esaltazione della resistenza di cui l’eroe troiano si fa portatore ben oltre Achille, disprezzato come eroe del risentimento. In questo senso, per Bespaloff «quel che Omero esalta, santifica, non è il trionfo della forza vittoriosa, ma l’energia umana nella sventura». Per capire di che energia si tratti però bisogna aspettare la chiave di volta dello scritto: «A quella vita che divora, la guerra restituisce un’importanza suprema. Poiché ci toglie ogni cosa, diventa inestimabile il Tutto, la cui presenza, d’improvviso, ci viene imposta dalla tragica vulnerabilità delle esistenze particolari». La vita acquista il suo valore più alto proprio quando è in pericolo. Quando tutto è perso, il Tutto comincia a valere davvero. Per questo chi difende quel Tutto, quella vita che tutti ci lega, chi dunque resiste, mettendo in gioco la propria vita particolare, è il vero e unico eroe. Anche per Bespaloff, dunque, il senso del poema sta nell’amarezza, come contraltare però di qualsiasi speranza di resistere.
Del resto, mentre perdevano definitivamente la possibilità di un incontro, le due filosofe ebree non smisero di seguire un destino comune. Simone Weil, contratta la tubercolosi, si spense il 24 agosto del 1943 nel Kent. Sulla sua morte il dibattito non si è mai chiuso: secondo alcuni fu l’epilogo più scontato per un corpo già fragile e minato dagli stenti.
Secondo altri fu una sorta di suicidio: si sarebbe lasciata morire, negandosi il cibo pur di evitare qualsiasi privilegio rispetto a chi combatteva per la libertà. Quanto a Rachel Bespaloff, invece, nessun mistero. Nel 1943 cominciò a insegnare francese a Mount Holyoke, Massachusetts. Lontana dalle cerchie di intellettuali, oppressa dalla solitudine, continuò a insegnare per sei anni, poi scrisse un saggio sull’opera di Camus intitolato II mondo dell’Uomo condannato alla morte. Infine, il 6 aprile del 1949, chiuse le porte e le finestre della sua cucina, sigillandole con gli asciugamani, aprì il gas e attese. 

1 commento:

  1. queste due donne hanno lasciato il segno nella storia.
    Bertania Olga

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