Mi sembra
particolarmente interessante il saggio di Francesco
Ghelli, ripreso dal blog http://www.leparoleelecose.it
, presentato al convegno «Figure del desiderio» svoltosi
a Pisa dal 13 al 15 dicembre 2012.
Francesco Ghelli - Letteratura, pubblicità e ritorno del represso
Fin da quando ho avuto a che fare con l’ipotesi
elaborata da Francesco Orlando secondo la quale la letteratura è sede di un
ritorno del represso mi sono chiesto che cosa nella nostra epoca di
deregulation, di caduta di censure e tabù, potesse occupare il posto del
represso. Quali comportamenti, valori, convinzioni possono suscitare un
tale scandalo da richiedere oggi nelle opere di fiction il baluardo di
formazioni di compromesso, negazioni freudiane e ambivalenze? La letteratura
dei giorni nostri, rispetto alla tradizione delineata da Francesco Orlando,
sembra situarsi in una condizione postuma, al di là di una frattura che ha
posto fine idealmente a una lunga storia di repressione, di morali coercitive e
limitanti. Dopo tutto uno dei sociologi più influenti ai giorni nostri, Zygmunt
Bauman, ha delineato il passaggio epocale da disagio della civiltà freudiano
all’odierno disagio della libertà. Il problema del desiderio ai giorni nostri
non sarebbe tanto lo scontro con un limite, un divieto, quanto invece una
libertà indeterminata che rischia di tramutarsi in smarrimento, perdita di intensità
e significato.
Credo tuttavia che anche in queste mutate condizioni,
la funzione della letteratura sia quella di dar vita a un controdiscorso, ossia
al rovesciamento di quei discorsi, che in mezzo all’odierna cacofonia,
pretendono di esercitare un ruolo normativo. Eppure la letteratura postmoderna
è accusata spesso, soprattutto in Italia, di superficialità, di disimpegno, di
un’eccessiva accondiscendenza verso l’industria culturale. Il suo vizio
d’origine sarebbe l’aver abdicato a quella funzione critica dell’esistente che
fin dalle avanguardie primo novecentesche appariva la missione di scrittori,
artisti e intellettuali. E una letteratura che troppo spesso esibisce una
“coscienza felice” come potrebbe essere la sede di un ritorno del represso?
La mia risposta – che potrà sembrare paradossale – è
che proprio qui risiede il ritorno del represso della letteratura postmoderna:
nella sua assenza di critica, nella condiscendenza, o nell’attrazione con cui
guarda alla cultura di massa e all’odierno debordante universo dei consumi. Un
ritorno del represso conformista, mi si passi l’ossimoro, nel quale la sintonia
con l’odierno spirito del tempo è giocata in modo provocatorio contro il super
ego ideologico, le ragioni dell’etica, dell’estetica e della politica che
prescrivono allo scrittore e all’intellettuale una distanza critica dai facili
piaceri delle masse. La letteratura postmoderna insomma darebbe spazio a un
represso edonista e populista che sarebbe trasgressivo rispetto al supercilioso
elitarismo high modern, in primis, e in seguito rispetto alle vedute
introiettate dal pubblico letterario. Quel pubblico generalmente colto,
critico, permeato da valori postmaterialisti; il pubblico di “lettori forti”
che in Italia è costituito soprattutto da quello che lo storico Paul Ginsborg
ha chiamato il “ceto medio riflessivo”.
Sempre Francesco Orlando ci ha insegnato a distinguere
il discorso letterario dal discorso ideologico. La letteratura dà sempre spazio
a elementi eterodossi rispetto alla coerenza dell’ideologia. Basti pensare
all’esempio classico di Balzac, autore conservatore e legittimista che scrive
una colossale rappresentazione delle storture della società borghese: la Comédie
humaine come un «unico, colossale, irripetibile lapsus – di classe»[1].
La distinzione fra giudizio di valore estetico e giudizio di valore ideologico
è confortante quando ci permette di recuperare il momento progressivo di autori
reazionari. Possiamo leggere Balzac, Pound, Céline, e goderceli senza sensi di
colpa: l’opera è infinitamente più ricca e aperta di un’ideologia retriva.
Nella nostra epoca tuttavia si dà esattamente il caso opposto: autori
dall’ideologia progressista, pronti in pubblico a ogni sorta di impegni
politicamente condivisibili, che nelle ambivalenze dei loro testi danno spazio
a voci e inclinazioni di natura diametralmente opposta. Un ritorno del represso
volgarmente superficiale, di gretto materialismo commerciale, che si impone
sulle ragioni dell’impegno o della politically correctedness.
Ho provato a saggiare questa ipotesi seguendo le
odierne rappresentazioni letterarie della pubblicità e, più in generale, della
cultura dei consumi. Ora, la pubblicità è un discorso egemone e una componente
determinante dell’economia, nonché la finanziatrice più o meno diretta di gran
parte della produzione culturale di massa. Come ha scritto Ugo Volli essa «ha
sostituito nell’opinione pubblica l’etica, la religione, la politica, tutto ciò
che stabilisce ciò che è importante avere e fare ed essere nella vita»[2].
E tuttavia, la pubblicità svolge questa funzione senza avere l’autorevolezza
dei suoi predecessori, presentandosi ancora come un fenomeno ludico e semiserio
(e in questo modo il suo potere ha più i tratti seducenti del soft power
che quelli coercitivi del potere tradizionale). Nulla evidenzia meglio questo
deficit di legittimazione della pubblicità dei pregiudizi generalmente negativi
che essa suscita nella parte più istruita della popolazione. Secondo le
statistiche, in paesi come Francia e Italia, la maggioranza dei laureati ha
un’opinione fortemente critica nei confronti della pubblicità, al punto che le
critiche antipubblicitarie degli scrittori, frequenti fino a pochi anni fa e
tutt’altro che scomparse oggi, sembrano anche l’espressione di «una logica di
posizionamento sociale e di capitale culturale»[3].
Nell’esprimere un’attrazione o talvolta un sentimento di complicità per il
discorso pubblicitario, ovviamente mai in forma diretta, ma sempre in
formazione di compromesso con l’atteggiamento opposto e più ufficiale di
critica e condanna, la letteratura postmoderna sfida proprio le convinzioni
diffuse fra il suo pubblico. Il ritorno del represso filopubblicitario in
letteratura è tale allora, non rispetto all’egemonia generale della pubblicità
nell’odierna sfera culturale, quanto invece rispetto al sentimento antipubblicitario
diffuso all’interno delle fasce più o meno ristrette del ceto medio riflessivo.
Ma da quando la letteratura ha cominciato a mostrare
sempre di più questa ambivalenza? Uno dei primi esempi significativi è per
molti versi un incunabolo della sensibilità postmoderna: Lolita di
Vladimir Nabokov.
Il romanzo non racconta soltanto la passione morbosa di un
uomo di mezza età per una ragazzina, ma vi innesta anche la sua graduale
fascinazione di raffinato intellettuale europeo, per tutto ciò che inizialmente
disprezza: la cultura di massa americana, il consumismo, la pubblicità. Lolita
è un «miscuglio [...] di un’infantilità tenera e sognante e di una sorta di
raccapricciante volgarità, che discende dalle stucchevoli fotomodelle della
pubblicità e delle riviste»[4] ma proprio per questo affascina il protagonista.
Indifferente alla natura e all’arte, beatamente immersa nella cultura di massa
americana, Lolita è la «consumatrice ideale», la destinataria perfetta di ogni
annuncio pubblicitario: «se un cartello stradale diceva: VISITATE IL NOSTRO
NEGOZIO DI REGALI dovevamo visitarlo, dovevamo comperare le
curiosità indiane, le bambole, la bigiotteria di rame, le caramelle a forma di
cactus. Le parole “novità e souvenir” l’ipnotizzavano con la loro cadenza
anapestica. Se l’insegna di un caffè proclamava Bibite Ghiacciate,
automaticamente Lo si eccitava, anche se le bibite erano ghiacciate
dappertutto. Erano dedicate a lei tutte quelle réclame» (p. 187). La
pubblicità, nell’ottica di Humbert, è il regno del kitsch, dell’uso menzognero
delle parole, un facile bersaglio per l’ironia e il sarcasmo. Questo punto di
vista critico, tuttavia, non può resistere a lungo nel romanzo. L’attrazione per
Lolita, infatti, non può che tradursi in modo quasi transitivo in una
fascinazione contraddittoria anche per quella cultura in cui essa vive immersa.
In uno di quei grandi magazzini che hanno «un che di mitologico e di fiabesco»
Humbert compra ogni sorta di «cose belle per Lo. Dio mio che acquisti
dissennati scaturirono dall’acuta predilezione che Humbert aveva a quei tempi
per le stoffe a quadretti, il cotone colorato, le gale, le maniche corte a
palloncino, le morbide pieghettature, i corpetti aderenti e le gonne
generosamente ampie! Oh, Lolita, tu sei la mia ragazza, come Vee era quella di
Poe e Bea quella di Dante – e quale ragazzina non vorrebbe fare la giravolta
con una gonna piroettante e un paio di mutandine succinte?» (p. 137). Divenuto
consumista egli stesso, l’intellettuale finisce per tradurre nella lingua delle
riviste per teenagerperfino il suo background letterario di celebri amori
poetici. Se Humbert, compra il possesso fisico di Lolita riempiendola di regali
e assecondando ogni suo capriccio, non può tuttavia comprare i suoi sentimenti:
Lolita gli resterà sempre estranea e ostile, e fuggirà alla prima occasione. Il
desiderio frustrato di Humbert, finirà così, al di là di tutti i suoi
pregiudizi di esteta, per investire in pieno quel mondo pubblicitario e
consumista a cui Lolita tributa la sua adorazione. Le merci, allora, più che
gli strumenti della corruzione della ragazzina indifesa, divengono dei veri e
propri oggetti sostitutivi per l’amante perverso, quasi dei feticci sessuali (e
dopo la fuga di Lolita saranno investiti di un pathos elegiaco). In un romanzo
incentrato su uno dei pochi vizi – la pedofilia – che ancora possono
scandalizzare nella nostra società quasi priva di tabù, l’impressione è che il
vero ritorno del represso, il desiderio più trasgressivo, sia rappresentato
dalla seduzione della pubblicità. È questa che riesce a imporsi sul narratore,
al di là di tutte le sue resistenze, e per suo tramite sul lettore, rovesciando
una tradizione intellettuale ostile già ben consolidata. Con la sua
trasfigurazione poetica di una nuova versione storica dell’innocenza infantile
– la beata credulità consumista di Lolita –, Nabokov trasforma in oggetto del
desiderio quella stessa condizione demonizzata da un’intera generazione di
critici della pubblicità.
Se poi pensiamo alla singolare fortuna commerciale del
romanzo (complici anche due adattamenti cinematografici), è come se questa
ambivalenza fosse stata recepita, a prezzo però di un colossale malinteso. Come
ha dimostrato Graham Vickers in un libro interessante, è accaduto infatti che
Lolita, che nel romanzo è solo l’oggetto, tutt’altro che complice, della
perversa ossessione del protagonista, si è trasformata in un’icona erotica di
massa: l’adolescente precocemente sessualizzata, la «sensuale teenager
tentatrice»[5].
Tutto forse è cominciato con il servizio fotografico che nel 1962, a pochi mesi
dall’uscita del film di Kubrick, il fotografo Bert Stern, già autore di celebri
ritratti di Marilyn Monroe, dedicò alla protagonista del film: l’allora
sedicenne Sue Lyons.
Le invenzioni di Stern – gli occhiali a forma di cuore
e il lecca lecca dall’aperto significato erotico, nonché l’aggressivo
cromatismo pop – contribuiranno, ancora più del severo bianco e nero
kubrikiano, alla trasformazione di Lolita in un vero e proprio marchio
passpartout. Seguiranno innumerevoli incarnazioni commerciali: dalle bambole in
stile Barbie alle linee di moda adolescenziali, dalla mode bizzarre, come le Gothic
Lolitas giapponesi, fino agli innumerevoli sfruttamenti nel mercato del
porno, legale e illegale, finché gli allarmisti sociologi dei nostri giorni
conieranno una nuova espressione, «the Lolita effect», per denunciare
l’aggressiva sessualizzazione e la preoccupante precocità delle odierne
preadolescenti, traviate dai mass media.
Il secondo esempio che vi vorrei proporre è quello di
Pier Paolo Pasolini e delle sue riflessioni nel 1973 attorno a una campagna
pubblicitaria shock, quella realizzata dal fotografo Oliviero Toscani e dal
copywriter Emanuele Pirella per i jeans Jesus.
Mi si obietterà che se c’è uno scrittore non sospetto
di compromissioni con il consumismo questi è proprio Pasolini. Ben nota, è
l’interpretazione, totalmente negativa, che Pasolini dà dell’avvento della
civiltà dei consumi in Italia: «rivoluzione antropologica» che cancella le
tracce della millenaria civiltà contadina, «genocidio
culturale», «fascismo consumistico», un «totalitarismo» più efficace dei molti
totalitarismi nella storia del Novecento. Un’interpretazione di cui l’autore
stesso esplicita la natura apocalittica. Nel rivolgersi a Gennariello,
l’immaginario scugnizzo oggetto della sua pedagogia, scrive: «Ogni qualche
millennio succede la fine del mondo [...], allora il cambiamento è totale. Ed è
una fine del mondo che è accaduta tra me, cinquantenne, e te, quindicenne»[6].
Nel commentare la campagna, Pasolini sembra inizialmente ricalcare questa
falsariga. Il «folle slogan», la ripresa pubblicitaria del primo comandamento,
per Pasolini è la dimostrazione che «i nuovi tecnici e i nuovi industriali sono
completamente laici, ma di una laicità che non si misura più con la religione»
(p. 282). Esso segna forse la fine di quella censura e di quel perbenismo
clericali di cui lo stesso Pasolini era stato ripetutamente vittima fra anni
cinquanta e sessanta. La chiesa ha perduto una partita storica senza intuire
dove stava il nemico più insidioso: non certo gli scandalosi ma profondamente
religiosi film del nostro, piuttosto l’«edonismo perfettamente irreligioso»
della pubblicità, l’ethos mondano incoraggiato dalla civiltà dei consumi.
Invece di scagliarsi contro la Trilogia della vita, «[il Vaticano] doveva
censurare [...] Carosello» (p. 328). La posizione di Pasolini in questi suoi
articoli del ’73 e del ’74 è sicuramente ambivalente: da un lato, con
compiaciuto sarcasmo prende atto del tramonto del potere ecclesiastico,
dall’altro, auspica che la Chiesa si scagli «con furia paolina» (p. 355) contro
quella televisione e quel consumismo di cui non ha intuito la
pericolosità. Ma proprio di fronte allo slogan dei jeans Jesus, come
confessa lo scrittore, «questa visione apocalittica» (p. 279) vacilla. Lo
slogan ha i «caratteri ideologici e estetici dell’espressività», «si presta a
un’interpretazione, che non può che essere infinita» (p. 283); non si limita a
suggerire il consumo, ma lancia a suo modo un messaggio epocale. Esso dimostra,
quindi, che nel cuore del «linguaggio dell’azienda», che per Pasolini è freddo
scientismo, pragmatico e omologato, si annidano dei germi di espressività e di
ambiguità. Il futuro che lascia intuire, quindi, non è quella «fine di tutto»
tanto temuta da «religiosi e umanisti»: «sarà in modo nuovo, storia» (p. 283).
Dopo tutto quella campagna è uno dei primi e in fondo rari esempi in Italia di
una nuova tendenza pubblicitaria inaugurata oltre Oceano dalla rivoluzione
creativa di Bill Bernbach. La pubblicità americana degli anni sessanta è stata
abilissima a recepire valori e modalità espressive tipici della controcultura,
quel fenomeno battezzato da Thomas Frank, Hip Consumerism. Pasolini, che
per altri versi coglieva il risvolto repressivo dei nuovi stili di vita
giovanili e della rivoluzione sessuale, è fra i primi a intuire la natura
ambivalente del fenomeno: fra utopia imbastardita e commercializzazione
pseudo-rivoluzionaria.
Sempre in quegli anni, Pasolini lamenta i guasti
prodotti dal consumismo sulla spontaneità di quell’universo marginale – il
sottoproletariato romano – che aveva collocato al centro del suo mondo poetico.
L’elegia si cristallizza attorno a un’immagine esemplare:
Una volta il fornarino, o cascherino – come lo
chiamano qui a Roma – era sempre eternamente allegro: un’allegria vera, che gli
sprizzava dagli occhi. Se ne andava in giro per le strade fischiettando e
lanciando motti. La sua vitalità era irresistibile. Era vestito molto più
poveramente di adesso: i calzoni erano rattoppati, addirittura spesse volte la
camicetta uno straccio. Però tutto ciò faceva parte di un modello che nella sua
borgata aveva un valore, un senso. Ed egli ne era fiero. Al mondo della
ricchezza egli aveva da opporre un mondo altrettanto valido. Giungeva nella
casa del ricco con un riso naturaliter anarchico, che screditava tutto:
benché egli fosse magari rispettoso. Ma era il rispetto di una persona
profondamente estranea. E insomma, ciò che conta, questa persona, questo
ragazzo, era allegro. (pp. 330-331)
Con lo sviluppo economico il fornarino ha perduto la
sua coscienza di classe, è divenuto una copia triste degli hippie
piccolo-borghesi, ha introiettato dei valori – quelli del consumo e della
modernità – che lo condannano alla sudditanza e all’insoddisfazione. Gli
intellettuali di sinistra che, in nome del progresso, pensano «che sia meglio
la serietà quasi tragica con cui oggi il cascherino porta il suo pacco avvolto
nella plastica, che l’allegria “sciocca” di una volta [...] sono dei vampiri,
felici di veder diventare vampiri anche le loro vittime innocenti» (p. 331).
Quel che stupisce, però, è che in quegli stessi mesi
il fornarino pasoliniano compare in uno dei più fortunati caroselli televisivi,
quello dei crackers Saiwa, intitolato Le canzoni alla Gigetto.
Il filmato va in onda in varie versioni dal 1972 al
1976 e ha per protagonista un attore icona del cinema di Pasolini, il borgataro
Ninetto Davoli. Davoli in versione Gigetto, garzone di fornaio, ha un sorriso
smagliante, canta a squarciagola note canzoni degli ultimi anni e gira in
bicicletta per le vie deserte di Roma all’alba, con una cesta carica di
crackers Saiwa da consegnare. Il regista è Giulio Paradisi, collaboratore di
Pasolini e autore di un film tratto proprio da una sceneggiatura del maestro, Il
ragazzo di borgata. Lo stile, un bianco e nero elegantemente
documentaristico, ricorda i primi film di Pasolini come Accattone e Mamma
Roma. L’intero messaggio del resto era concepito per essere riconosciuto
come un riferimento al mondo poetico pasoliniano, ormai familiare al grande
pubblico dopo oltre quindici anni di film e polemiche. Addirittura circolò la
falsa voce che Pasolini stesso avesse collaborato alla realizzazione del
carosello; di sicuro Ninetto Davoli gli chiese il permesso di fare la
pubblicità e Pasolini lo autorizzò dicendo che sarebbe stata «un’esperienza
divertente»[7].
Insomma, si potrebbe quasi sospettare un accenno amaro alla pubblicità in quel
riferimento al «pacco avvolto nella plastica» presente nell’articolo di
Pasolini. Oppure si potrebbe considerare lo spot, di cui in ultima istanza è un
coautore putativo, una sorta di autoparodia. Quel che è certo è che la
pubblicità fa leva su un’immagine nostalgica, al cui pathos certo contribuiscono
le stesse considerazioni disperate di Pasolini, con intento invece del tutto
rassicurante. Dopo aver cavalcato per un paio di decenni l’ansia di
modernizzazione, la voglia di sbarazzarsi di tutte le tracce dell’Italietta
contadina e povera, i pubblicitari italiani si apprestano a sfruttare l’onda
lunga della nostalgia (le campagne del Mulino Bianco e quelle della pasta
Barilla sono di pochi anni successive). Mondi incompatibili nella visione
apocalittica di Pasolini, nel carosello a lui ispirato, convivono in una sorta
di pacifica formazione di compromesso. Anche se porta ormai prodotti
confezionati e con tanto di marchio registrato, anche se canta noti successi
sanremesi anziché vecchi stornelli o lazzi osceni, Gigetto conserva l’allegria
del tempo che fu.
Un terzo esempio che vi vorrei proporre è quello del
più fortunato romanzo antipubblicitario degli ultimi anni, quello pubblicato
nel 2000 da Frédéric Beigbeder che ha per titolo il prezzo di vendita: 99
franchi. In perfetta coincidenza fra testo e paratesto
biografico-promozionale, il romanzo è la confessione di Octave, un
pubblicitario pentito che scrive per farsi licenziare, cosa che accadrà di lì a
poco allo stesso autore. Copywriter affermato, Frédéric Beigbeder, dopo il
romanzo, lascerà la pubblicità per iniziare una fortunata carriera di scrittore
e personaggio mediatico. In apertura leggiamo questo proclama: «Sono un
pubblicitario e inquino l’universo. Io sono quello che vi vende tutta quella
merda. Quello che vi fa sognare cose che non avrete mai. [...] Io vi drogo di
novità, e il vantaggio della novità è che non resta mai nuova. [...] Credete di
possedere il libero arbitrio, ma un giorno o l’altro riconoscerete il mio
prodotto sugli scaffali di un supermercato e lo acquisterete, così, tanto per
assaggiarlo, credetemi, conosco il mio mestiere [...] Il vostro desiderio non
vi appartiene: io vi impongo il mio»[8].
Non siamo molto lontani dagli allarmismi degli anni sessanta sugli onnipotenti
persuasori occulti, con la loro capacità implacabile di condizionare le menti
umane, usando le più avanzate tecniche psicologiche. Di nuovo tuttavia c’è il
compiacimento narcisistico della voce narrante che rivolta contro la pubblicità
la sua stessa abilità di creatore di slogan. Nel romanzo, in effetti, al di là
dell’invettiva antipub in linea con il furore no logo di fine Millennio, ci
sono anche tutti i cliché glamour sul mondo pubblicitario fra party, moda,
festival internazionali, frenesia e cocaina. Ben presto, poi, si scopre che il
furore di Beigbeder più che contro la pubblicità agente del tardo capitalismo,
è diretto contro la bêtise delle aziende che soffocano la creatività. Un po’
come per i francesi colti, il sentimento antipubblicitario appare insomma
permeato da quella critica “artiste” – l’estetica prima di tutto – che sempre
più dagli anni Sessanta fa le veci dell’ideologia. La pubblicità è più
detestabile quando è stupida e volgare, quando è spiritosa e ben fatta la si
può tollerare. Non a caso, vocazione letteraria e mestiere pubblicitario sono
tutt’altro che in contrasto: «Non ho scelto questo mestiere solo per i soldi.
Mi piace inventare frasi. Nessun mestiere dà tanto potere alle parole. Un copy
è un autore di aforismi che si vendono. […] Non esistono altri mestieri in cui
sia possibile arrovellarsi tre settimane su un avverbio. Quando Cioran
scriveva: “Sogno un mondo dove si morirebbe per una virgola”, avrebbe mai
pensato di parlare del mondo dei copywriter?» La pubblicità sembra insomma
riscattare l’ineffettualità alla quale è di solito condannata la parola
letteraria, al punto che il protagonista ricorda il suo modesto apporto agli
slogan memorabili degli ultimi tempi: una sua campagna del 1995 per Eurostar:
«Perché andare da Roissy a Heathrow, quando puoi andare da Parigi a Londra?».
Per Beigbeder è un modo per riconquistare l’autorialità e il protagonismo di
solito negati agli anonimi copy. Lo scrittore in ogni caso, aggredendo la
pubblicità si ritaglia uno spazio pubblicitario sulla scena dei mass media,
diviene a suo modo testimonial dell’antipub (con tanto di fotografia ironica
sulla copertina delle successive edizioni del libro). L’esito sarà quanto mai
bizzarro: se da pubblicitario Beigbeder era un nascosto creatore di slogan,
come scrittore – ossia detentore di una parola firmata, verrebbe da dire
griffata – diventerà visibilissimo testimonial, come nella campagna, a suo
parere provocatoria, per le collezioni maschili delle Galeries Lafayette.
Per scusare di essersi venduto alla pubblicità lo
scrittore blandisce, in un’ennesima formazione di compromesso, o forse solo
come una foglia di fico della residua dignità intellettuale, uno dei libri
simbolo della critica intellettuale al consumismo moderno: La società dei
consumi di Jean Baudrillard. Trasformato in un feticcio, il saggio critico
è ridotto a uno status symbol, fa intellettuale contro.
Naturalmente gli esempi si potrebbero moltiplicare. Si
potrebbero fare i nomi di Houellebeq, di DeLillo, Martin Amis, Julian Barnes,
William Gibson, in Italia di Aldo Nove, Francesco Piccolo, Nicola Lagioia, e
molti altri. Vorrei citare invece come esemplare un testo di un altro scrittore
dell’ultima generazione, Antonio Scurati. Il breve testo autobiografico è stato
pubblicato nel 2006 con il titolo Recrudescenza nel catalogo della
mostra Dreams. I sogni degli italiani in 50 anni di pubblicità televisiva
tenutasi alla Triennale di Milano quello stesso anno. È stato poi ripreso nella
raccolta di pezzi giornalistici Gli anni che non stiamo vivendo col
titolo Il Mulino bianco e l’infelicità. Si tratta di una riflessione,
una sorta di autocritica, innescata dalla visione di uno spot ormai
classico della Barilla.
Lo spot innesca una «recrudescenza» che vanifica lo
sforzo dell’io narrante alla ricerca dell’autonomia di pensiero, intesa come
rifiuto del mito della felicità, anche consumista: «trascorri i primi dieci
anni di vita adulta a purgarti della velenosa idea della felicità»[9].
«Novanta secondi di pubblicità sono bastati a spazzare via dieci anni di duro
lavoro con te stesso». Invano il protagonista ha abbracciato un’etica stoica
aggiornata, voglioso di liberarsi dalle emozioni, puntando a una vita di
solitudine appartata, perché «tremila anni di storia dell’umanità» e
«venticinque di tua storia personale» dimostrano che non c’è spazio per la
felicità. Con lo spot «hai respirato il miasma»: «Ti stai sbagliando ancora una
volta, ti dice l’acefalo persuasore occulto [...] A te, cinica, incallita,
disperante macchia di sangue sviata dalla verità, abbiamo fatto dono del
ravvedimento. Ti abbiamo rimesso sulla retta via [...] Smetti la superbia,
l’orgoglio. Adesso sei pronto per la felicità ad ogni costo, per la felicità a
basso costo. [...] Dì pure addio alla nobiltà sdegnosa del contemptus mundi,
alla grandezza magniloquente dell’infelicità tragica, della solitudine
titanica. Guardati attorno. Solidarizza con la moltitudine dei clienti che
sciamano lungo i corridoi del supermarket». Le campagne Barilla fin dagli anni
Ottanta raccontano la stessa storia: un ritorno all’ordine, la rivincita di
valori tradizionali – famiglia e casa – sugli orizzonti libertari post anni
sessanta (in questo caso rappresentati dalla gioventù on the road della
coppia protagonista). E anche lo scrittore sembra subire un analogo ritorno
all’ordine, la sconfitta suo malgrado di un progetto di vita ascetico e scevro
da compromessi. Tuttavia, per una sorta di doppio salto mortale – una specie di
capovolgimento del ritorno del represso – si ha l’impressione che lo scrittore,
pur raccontando un’inevitabile sconfitta, il ritorno in seno al gregge
consumista, ribadisca per l’ennesima volta la sua superiorità ed eccezionalità
prospettica. Si tratta di un gesto tardivo, forse una posa in linea col passato
glorioso degli intellettuali engagé. Tanto più che, mai come in questi
ultimi anni, emergono chiaramente i limiti di quella modalità apocalittica e
disperata di rappresentazione della realtà che è l’antiutopia. Un po’ come
nell’ossessione tardo ottocentesca per la decadenza, la degenerazionae,
l’entropia, la profezia di una catastrofe imminente si trasforma in una sorta
di amplificazione estetica. Secondo Jameson, l’idea stessa della morte termica,
della fine del mondo per consunzione conferiva ai tramonti tardo di fine
ottocento una spettacolarità quasi visionaria. Ma si può pensare ai tramonti
postmoderni di Rumore bianco di DeLillo resi ancor più spettacolari da
un concentrato di sostanze tossiche. Così anche le denunce più radicali dello
strapotere della pubblicità finiscono per conferirle un pathos solenne, una
sorta di sublime terrifico aggiornato. Il senso della fine, o meglio il senso
dell’ormai, per sintetizzare con un avverbio la modalità apocalittica,
conferisce al presente una grandezza schiacciante e lo trasforma in oggetto di
contemplazione. Mi viene a mente una pagina particolarmente ispirata di Nicola
Lagioia, nella quale le grandi pubblicità di moda che ricoprono i palazzi
ottocenteschi in corso di restauro sono paragonati all’arte sacra di un tempo:
«Tutti avevano capito che la pubblicità mira al soprasensibile, e che quei
volti dagli zigomi sporgenti, quei corpi affusolati, non erano quantificabili
né raggiungibili su una carta geografica, ma somigliavano ai Trionfi che molto
tempo prima avevano riempito i soffitti delle chiese schiacciando i fedeli
verso il basso con la loro terrificante bellezza. Guardandoli, si riceveva una
sensazione di resa invincibile»[10].
La stessa sensazione di resa, una sorta di compiacimento masochistico la danno,
sempre secondo Fredric Jameson, alcune teorie critiche del presente, come
quella di Baudrillard, che presentano un sistema di potere talmente ramificato
e talmente perfetto, da non lasciare alcuna via di fuga, nessun spiraglio
all’imperfezione e alla sovversione.
Forse una delle ragioni della crisi del postmodernismo
in questo nuovo millennio risiede proprio nell’usura del discorso apocalittico.
Tanto più grave quando il moltiplicarsi di crisi economiche e allarmi ecologici
sembra rendere attuali gli scenari più pessimistici. Ma con l’apocalisse, dopo
decenni di fantascienza e di teoria critica antiutopica, abbiamo imparato a
convivere troppo bene. Forse è diventato un ennesimo décor per
esperienze stimolanti. Nulla meglio di una demenziale e provocatoria campagna
Diesel di alcuni anni fa testimonia questa usura. Global warming ready.
Un futuro in cui – après le déluge – lo sballo
consumistico continuerà come nulla fosse, anzi trovando nuove occasioni di
spasso. La cosa più divertente è che l’azienda, nota per la sua comunicazione
dissacrante, ha presentato la campagna come una sorta di pubblicità progresso,
destinata a sensibilizzare il suo target giovanile, notoriamente poco
coscienzioso e informato, sul riscaldamento globale e sul rischio ecologico. A
suo modo è un segnale della deriva estetizzante che incombe sugli allarmismi
dell’antiutopia. Se non bastasse, dovremmo solo tornare a riflettere sugli
ultimi vent’anni di storia italiana. Vent’anni di rappresentazioni
apocalittiche della degenerazione civile degli italiani, imbastarditi da un
gretto consumismo, non hanno impedito al massimo imprenditore pubblicitario di
dominare la scena politica. Nessuno meglio di noi italiani dovrebbe sapere che
il catastrofismo non ha mai impedito alle catastrofi di piombarci addosso.
[1]
F. Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura, Einaudi, Torino,
1987, p. 129
[2]
U. Volli, Schermo delle mie brame. Come la pubblicità ha cambiato il costume
degli italiani 1954-2004 (catalogo su Cdrom della mostra al Castello di
Rivoli, 5 luglio-12 settembre 2004).
[3]
V. Sacriste, Hommes de lettres et publicité: histoire sociale d’une
resistence culturelle, in Littérature et publicité. De Balzac à
Beigbeder, actes du colloque internationa des Arts décoratifs, 28-30 mars
2011, Gaussen, Marseille, 2012, p. 257.
[4]
V. Nabokov, Lolita, Adelphi, Milano, 1996, p. 61.
[5] G. Vickers, Chasing Lolita.How popular culture corrupted Nabokov’s
little girl all over again, Chicago Review Press, 2008, p. 7.
[6]
P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano,
2006, p. 575.
[7]
M. Giusti, Il grande libro di Carosello, Sperling & Kupfer, Milano,
1995, p. 478.
[8]
F. Beigbeder, 26.900 lire, Feltrinelli, Milano, 2001, pp. 17, 19.
[9]
A. Scurati, Recrudescenza, in Dreams. I sogni degli italiani in 50 anni di
pubblicità televisiva, catalogo della mostra alla Triennale di Milano 17
febbraio-30 maggio 2004, B. Mondadori, Milano, 2004, p. 158.
[10]
N. Lagioia, Occidente per principianti, Einaudi, Torino, 2004, pp.
23-24.
emanuele zinato
RispondiElimina7 gennaio 2013
Ero a Pisa e ho potuto ascoltare questo interessantissimo intervento di Ghelli. Anch’io fin da quando ho incontrato da studente l’ipotesi di Orlando secondo la quale la letteratura è sede di un ritorno del represso, mi sono sempre chiesto che cosa nella nostra epoca potesse occupare il posto del represso. E, di conseguenza, come “funzioni” nell’era ipermoderna la letteratura. Più che occuparmi della colonizzazione mediatica dell’inconscio mi sono rivolto agli oggetti della tecnologia e al ramo “funzionale” della biforcazione dell’albero semantico.
Questo intervento però problematizza in modo eccellente l’elaborazione formale più sofisticata, esperita ogni giorno da milioni di persone, e che al funzionamento della letteratura è più (pericolosamente?) prossima: la pubblicità. Innanzitutto bisogna dire che se fosse stato dato maggior spazio a questo tipo di studi, né “apocalittici” né “ingrati”, né euforici né disforici, né oppositivi né fiancheggiatori, ma schiettamente e profondamente conoscitivi su questo “tema”, forse non saremo al punto in cui siamo in campo psicosociale e politico. Ma questo è un altro discorso.
Il vero problema sollevato da Ghelli, a cui non so dare risposta, è a mio parere il seguente: così come nel saggio sul “folle” slogan del jeans Jesus Pasolini, contrariamente alla vulgata, non è solo “apocalittico” o regressivo ma prospetta sorprendentemente un tasso di espressività di un certo tipo di ricerca pubblicitaria (che prefigura una società a venire, che gli è preclusa ma di cui intuisce marxianamente la miscela di orrore e di splendore), analogamente nello spot dei crackers Saiwa del 1972 mi pare si mescolino in modo indistricabile due aspetti del “disagio della libertà”.
In questo atipico spot, il bianco e nero documentaristico, dissonante rispetto alla pubblicità seriale, il richiamo alla potenza auerbachiana dei primi film di Pasolini come Mamma Roma, il sorriso di Ninetto, morantiano e creaturale, “autentico” e non piccolo borghese, in che rapporto stanno con il disvelamento dei crackers implasticati nella cesta ? Vengono di colpo mercificati e risemantizzati ? Mantengono viceversa una loro dissonante carica di verità pur entro l’universo delle merci? Tramutano in parodia e in abiura la potenza della trilogia della vita? O viceversa ne inoculano in modo inatteso, come un benefico bacillo, la bellezza corporea nel modo mortifero dei ceti medi televisivi? E se (anziché porsi in secchi dualismi) dialetticamente coesistessero entrambe le soluzioni, in quale relazione starebbero tra di loro, di tensione, di complicità, come strutture di una stessa contraddizione? E’ un problema che mi piacerebbe venisse discusso perché, ovviamente, trascende il caso pur emblematico di Pasolini e implica una spassionata riconsiderazione della letteratura nella società del marketing, della finzione letteraria e artistica nell’epoca della fiction economy. Oltre le negazioni delle avanguardie, oltre le analisi francofortesi ma anche oltre le euforie postmoderniste. E non è un caso che Francesco Ghelli, cerchi e trovi risposte e strumenti proprio nell’originale modello freudiano di Francesco Orlando…
emanuele zinato
7 gennaio 2013