15 gennaio 2013

A CUDA DI SURCI...







I lettori di questo blog sanno quanto amiamo Leonardo Sciascia. Oggi ci piace ritornare a un suo libro, Occhio di capra, Einaudi 1984, che ci è tanto caro. In esso lo scrittore di Racalmuto (AG) dà una lezione ai tanti studiosi di folklore e storie locali che idolatrando il loro oggetto di studio non riescono  a porsi in modo dialettico nei confronti delle diverse espressioni della cultura popolare. 



Offriamo di seguito, a mò di esempio, alcuni brani del libro:




 
A cuda di surci. A coda di sorcio. Si dice che finiscono a coda di sorcio affari, promesse e sentimenti che apparvero grandi e certi e invece lentamente si riducono fino a svanire. Specialmente lo si dice di quegli amori che ardentemente superarono ogni difficoltà, ogni divieto: ed eccoli finire, a coda di sorcio, nella noia.
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Cattiva. Vedova. E cioè captiva, prigioniera: dei riti e dei comportamenti del dolore che era tenuta a osservare, del lutto. Prigioniere di sé e dell'occhio del mondo (gli altri, coloro che spietatamente osservano e giudicano) erano ancora negli anni della mia infanzia le vedove: nerovestite; chiuse in casa (e soltanto per altri lutti di parenti o di amici ne uscivano); le finestre mai spalancate nei primi tre anni, ma aperte a spiraglio, a "vaniddruzza" ("vaniddruzza"= piccolo vicolo: e si dice, oltre che per le imposte spiragliate, per gli occhi socchiusi). A meno che non si risposassero: fatto che riscuoteva sempre una più o meno aperta riprovazione e soltanto giustificato dalle condizioni economiche in cui la donna veniva a trovarsi dopo la morte del marito: la mancanza di ogni possibilità di sussistenza o il possesso di beni che da sola non era in grado di governare.
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Culuri di cani ca curri. Colore di cane che corre. Per dire di un colore indefinibile, strano e comunque non in tono, non elegante. Lo si dice quasi sempre per colori inconsueti o confusamente frammischiati di vestiti e, oggi, per certe tinte di chiome femminili: quando l'intenzione di farle nere o bionde è tradita dai risultati.
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E unni agghiorna agghiorna. E dove sarà giorno sarà giorno. Ma è un "dove" che vale anche "quando" e con una sfumatura di "se". Se, quando e dove sarà giorno, sarà giorno. Si dice nel prendere una decisione che comporta rischi: come di un cammino intrapreso nel buio della notte, con l'insicurezza di raggiungere una meta; e si vedrà al sorgere del giorno dove saremo arrivati, quale luogo e sorte ci sono stati assegnati. Frase che da almeno un secolo suggella - fingendo noncuranza, scherzosamente: ma con intimo strazio - le decisioni, a migliaia numerose, di emigrare. E si consideri che nella sola Hamilton, in Canada, si trovano cinquemila racalmutesi, emigrati dopo la seconda guerra mondiale.
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Lu curnutu a lu so paisi, lu sceccu unni va va. Il cornuto nel proprio paese, l'asino dovunque vada. Cioè: il cornuto è conosciuto come tale soltanto nel proprio paese, ma il cretino lo si conosce subito e ovunque. Vi è implicita l'esortazione a mutar paese per il cornuto, a restare nel proprio per il cretino. Detto quasi scomparso, ormai: poiché si può dare già per estinto, nonostante qualche sporadica - e generalmente disapprovata - sopravvivenza, il pregiudizio per cui il comportamento di una moglie, di una sorella, di una figlia dava patente di cornuto all'uomo cui più direttamente spettava la tutela dell'onore familiare (a meno che non se ne riscattasse uccidendo); e di estrema difficoltà il distinguere oggi i cretini, e per il numero e per la qualità. Moltissimi; e i più riescono a darsi vernice di intelligenza.
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Nun mi futtinu: dintra ci sù li cavaddri. Non mi fottono (non me la fanno): dentro ci sono i cavalli. Frase pronunciata da don Camillo Picataggi il 3 novembre del 1880. Al passaggio del primo treno dalla stazione di Racalmuto. Il vecchio galantuomo, che mai era uscito dal paese, si era sempre rifiutato di credere che "una pentola che bolle" potesse muovere altro che il coperchio, e figurarsi una teoria di carri grandi come case. Quel giorno alla stazione, finalmente di fronte a una locomotiva, tutti si aspettavano si arrendesse; ma don Camillo, dopo un momento di perplessità, pronunciò quella frase, rimasta nel parlare popolare a significare gratuita e testarda diffidenza, in genere; oscurità di mente nei riguardi del progresso, in particolare.
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Fonte: Leonardo Sciascia, Occhio di capra, Einaudi 1984.

3 commenti:

  1. Grazie Francesco: opera meritoria la tua!

    Bernardo Puleio

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  2. Caro Franco,
    grazie per questo articolo. In particolare mi ha colpito il detto :
    "finì comu a cuda di surci!".
    Ma dalle nostre parti c'è anche un altro detto che forse gli somiglia e che non ho mai capito. Cosa vuol dire "Finì comu a festa d'Agghiastru ?"
    L'Agghiastru so che era l'antico nome dell'odierna Bolognetta, ma riguardo alla festa cosa mi sai dire? Forse il prof. Lombino che è di Bolognetta ha già una risposta.
    Ecco mi piacerebbe avere delle delucidazioni su questo detto locale.
    Grazie
    Ezio

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  3. Caro Ezio,
    girerò la tua domanda a Santo che sta preparando una storia del suo paese.

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