08 gennaio 2013

ANCORA SUL POLITICO GESUITA MONTI. 1 e 2














Sul gesuita Monti abbiamo già detto quello che pensiamo. Oggi, comunque, vogliamo offrire ai nostri lettori un articolo di

Mauro Piras, pubblicato sul sito http://www.leparoleelecose.it

che aiuta a comprendere meglio il senso dell'operazione politica  che sta compiendo il Professore:



Mauro Piras - Monti politico, il centro e l’eversione democratica

Da più di un secolo, forse già dalla crisi di fine Ottocento, due sono i mali politici dell’Italia: una classe dirigente sempre incline, in momenti di tensione sociale, a percorrere vie che sfuggono alla legittimazione democratica, a cercare compromessi o soluzioni di vertice che salvino equilibri sociali conservatori, portando al governo minoranze elettoralmente poco radicate, ma molto radicate in termini di dominio sociale; la demagogia e il populismo, la via breve per costruire il consenso popolare e risolvere i conflitti sociali, ovviamente a favore delle classi dominanti, con l’eversione dello stato di diritto, con l’identificazione diretta tra il capo e il popolo, con la mobilitazione delle masse. Il tutto se possibile condito da una sapiente tutela degli interessi corporativi e clientelari, delle rendite di posizione, dei piccoli e grandi privilegi, tutti riuniti sotto il cappello del demagogo di turno, o anche, in alcuni casi, della ristretta élite autonominatasi salvatrice della nazione.
E così, come niente, passiamo adesso dalla ubriacatura del ventennio berlusconiano alla minoranza che cerca di governare senza avere la maggioranza in Parlamento. E il grande maestro cerimoniere di questa operazione è l’ineffabile Casini, il tatticista, nostalgico del centro democristiano che almeno la maggioranza relativa la aveva, determinato a portare al governo a ogni costo il centro di minoranza relativa. Questa è la spinta di fondo, appoggiata sull’onda lunga della cattiva politica italiana, che spiega buona parte delle manovre in atto. E spiega perché il quadro, in una logica un minimo democratica, è fuori controllo.
In una democrazia senza queste tare storiche, il programma di Monti (l’“agenda”, come la si chiama) sarebbe semplicemente il programma di un centrodestra con inclinazioni liberiste moderate e addentellati cattolici. Una cosa come quello che fa la Merkel in Germania, per intenderci. Da noi, niente di così banale. Il problema è che il nostro centrodestra è invece populista, clientelare e corporativo, tutto il contrario della destra liberale, e lontanissimo da un centro liberale riformista e moderato, come quello che propone Monti. Quindi, inevitabilmente, la presentazione della sua iniziativa politica ha comportato una rottura netta con Berlusconi e tutti i suoi seguaci. Il centrodestra non ha il coraggio di fare il suo lavoro, di cui si fa carico quindi il centro.
Ma questo mette in forse il funzionamento della democrazia. Infatti, se è chiaro che il referente naturale di Monti è il centro, questo però non ha abbastanza forza elettorale da poter assumere il governo del paese, o almeno la guida di una coalizione; non ha tale forza proprio perché la destra è occupata da un populismo corporativo (Berlusconi e sodali) e identitario (la Lega). Allo stesso tempo, questo centro senza maggioranza elettorale pensa di poter incarnare una sorta di egemonia culturale sulla società italiana, di rappresentarla direttamente, proprio grazie alla sua “centralità”; riesumando inconsapevolmente il modello giacobino della rappresentanza virtuale (che poi è lo stesso del populismo: la persona o il partito rappresentano direttamente il popolo, senza aver bisogno della legittimazione tramite le procedure democratiche). Insomma, questo centro vuole comunque determinare i giochi, senza averne la forza elettorale. E così ci propina il cosiddetto modello della “grande coalizione”, in cui la sinistra è costretta ad allearsi al centro e, alla fine, anche a dargli la guida del governo. Vedremo poi perché “cosiddetto”, cioè perché la grande coalizione non è questa cosa qui. La verità è che, nella nostra situazione, per realizzare questo obbiettivo il centro mira a forzare i meccanismi della legittimazione democratica. Si appoggia su manovre delle classi dirigenti che, pur di non avere un governo di sinistra e un’apertura verso spinte democratiche, sarebbero disposte a non rispettare del tutto le procedure.
Era molto edificante leggere certi giornali di establishment in queste ultime settimane, diciamo a partire da quando si è cominciato a parlare seriamente dell’ingresso di Monti in politica. Si profilavano chiaramente, con dovizia di analisi istituzionali e di precedenti storici, situazioni di questo genere: dopo le elezioni, il Parlamento non ha una maggioranza definita, perché il centrosinistra non ottiene la maggioranza assoluta, magari in una sola delle due Camere; a questo punto, il Presidente della Repubblica dà l’incarico al leader della forza di centro (cioè Monti, ça va de soi), che forma intorno a sé una coalizione di unità nazionale, di “volenterosi”, diciamo così, per garantire la continuità del risanamento finanziario, la gestione della crisi economica, la realizzazione delle riforme istituzionali.
Un bel quadretto. Ai lati, premono la sfiducia radicale dei cittadini per la politica, i discorsi demagogici della destra, la protesta sociale di una sinistra che non trova forma né collocazione, il sanculottismo virtuale e verticistico (che comincia anch’esso a imballarsi nei suoi riti) del Movimento 5 Stelle. Proprio l’operazione ideale, in questo contesto, per rafforzare la legittimità democratica in Italia.
Questo è il modo di vedere le cose di una parte della classe dirigente, e certamente di una parte del centro politico stesso. Casini, per esempio, non si stanca di ripetere che se il partito di maggioranza relativa non ha la maggioranza assoluta in una delle due Camere, non potrà avere la guida del governo. Curioso modo di ragionare. L’Italia, per il momento, è una repubblica parlamentare. Tradotto: il governo è responsabile di fronte al Parlamento, e governa con la sua fiducia. Tradotto ancora: in un regime politico del genere, da quando esiste la tradizione parlamentare, il partito che esce dalle urne con la maggioranza prende la guida del governo. Poi, se ha la maggioranza assoluta, tutto bene; se ha la maggioranza relativa, si mette alla guida di una coalizione in cui raccoglie in Parlamento anche i voti di altre forze politiche. Questa è la logica naturale della costituzione parlamentare. A mia memoria, le uniche eccezioni a questo modo di procedere si trovano nella Repubblica di Weimar e nell’Italia del secondo dopoguerra (la cosiddetta “Prima Repubblica”, espressione altamente imprecisa come tutte quelle simili, “Seconda”, “Terza”, quando applicate all’Italia Repubblicana). Nel primo caso, la cosa era in parte giustificata dallo strano ibrido che era quel regime politico, con una forte componente presidenzialista non ben equilibrata con quella parlamentare; e in ogni caso il contesto politico e sociale non era proprio un paradigma di democrazia funzionante. Nel secondo caso, l’impossibilità di avere una dinamica politica corretta, cioè una vera alternanza tra destra e sinistra, unita al sistema proporzionale quasi puro, ha prodotto lo strapotere dei piccoli centri, delle piccole forze che alla fine sono riuscite a governare più volte senza avere la maggioranza relativa. Non mi sembrano modelli da riproporre.
Casini, Fini, i Montezemolo e Riccardi vari (i generali senza truppe, senza base elettorale consistente), sostenuti dal moderatismo antidemocratico delle classi dirigenti economiche, dei vertici dell’amministrazione e così via, vogliono però riproporre modelli del genere. Questa soluzione è inaccettabile, non solo per le ragioni generali già esposte sopra, ma anche per quelle specifiche del contesto politico attuale.
Il centrosinistra si è organizzato politicamente da tempo, ben prima di altre forze politiche. Pur con molte incertezze, è riuscito a mettere su una coalizione PD-SEL che è stata legittimata inoltre da due passaggi di elezioni primarie, per il candidato premier e per i candidati al Parlamento. Quindi non può prestarsi a un’operazione Monti come quella delineata fin qui, per diverse ragioni: di legittimazione democratica, di identità politica e di opportunità politica.
Di legittimazione democratica. Non solo gli impegni politici delle segreterie, ma soprattutto il voto dell’elettorato di centrosinistra nelle primarie vietano di sciogliere arbitrariamente l’alleanza, in nome dell’assunzione della cosiddetta “agenda Monti” e di una alliance sacrée al centro.
Di identità politica. Le politiche proposte da Monti, e dai suoi corifei, sono di destra (o di centrodestra, come volete), l’abbiamo già visto. Sono la ricetta tradizionale, à la Merkel, per affrontare la crisi, con qualche ritocco qua e là che permette di aprire verso la sinistra per una eventuale alleanza. La sinistra invece ha altre proposte. Che la distinzione tra destra e sinistra non esista più è la solita operazione retorica del centro e della destra che serve a evitare il governo della sinistra. La sinistra deve avere una politica sociale di redistribuzione dei redditi, con una tassazione patrimoniale consistente; deve modificare in termini di equità la riforma delle pensioni e del mercato del lavoro; deve promuovere i diritti civili; e deve avanzare proposte più coraggiose di quelle di Monti sulla riforma delle istituzioni europee. Solo per citare alcuni punti.
Di opportunità politica. Se il PD facesse un’operazione del genere perderebbe d’un colpo, oltre ai voti di SEL, anche un terzo del suo elettorato. La posizione di Bersani riassume in sé questo equilibrio politico: Bersani tiene insieme quel tipo di elettorato del PD, che se avesse vinto Renzi non avrebbe più votato il partito; inoltre, Bersani ha potuto vincere anche grazie all’alleanza con Vendola e SEL.
L’unica uscita sana, quindi, per il funzionamento della democrazia e per il centrosinistra, è che questo vada avanti per la propria strada, con il programma che si è dato, sulla base dell’alleanza PD-SEL. In una campagna elettorale, quindi, in cui Monti diventa un avversario politico, come gli altri. Si contino poi i voti, e questi decideranno. Se sarà necessaria un’alleanza con il centro, dovrà essere sulla base del peso elettorale reale delle forze in campo, e non sulla base di un primato del centro, delle “riforme” e della “salvezza della nazione”.
Fin qui, ho presentato la posizione del centro come unitaria, intorno a quello che per comodità chiamerò il “progetto Casini”: come governare senza avere la maggioranza, né tra gli elettori, né in Parlamento. Il progetto Casini si regge sul mito della “grande coalizione”: uniamoci tutti per salvare il paese, e quindi quello che conta è la convergenza al centro. Ora, come dicevo, la grande coalizione non è questa roba qui. La grande coalizione, in Germania, dove si pratica, nasce da una situazione elettorale di sostanziale parità: una delle due forze che si contendono il governo ha la maggioranza, ma di poco, mentre l’altra ha perso, ma di poco. Quindi le due forze più importanti hanno più o meno lo stesso peso politico ed elettorale, e questo rende difficile formare un governo stabile di maggioranza. Per questo si forma una coalizione trasversale, tra le due forze che si sono opposte in campagna elettorale. Non è affatto la situazione che si sta prospettando come esito delle prossime elezioni politiche. E soprattutto, nello schema della grande coalizione, si dà per scontato che il governo sarà guidato dal partito di maggioranza relativa, per quanto risicata sia la maggioranza. Il “progetto Casini” invece prevede che chi non ha la maggioranza assoluta in Parlamento (in entrambe le Camere) non può governare, e quindi potrebbe governare, curiosamente, un partito che non solo non ha la maggioranza assoluta, ma non ha neanche quella relativa. Insomma, il vero progetto eversivo delle istituzioni democratiche è questo, altro che grande coalizione.
Bene, una volta chiarito il senso, politico e istituzionale, del “progetto Casini”, dobbiamo chiederci: il “progetto Monti” è la stessa cosa? Fino a quando se ne parlava soltanto, sembrava proprio di sì. Poi, la presentazione della cosiddetta “agenda”, la sua effettiva candidatura a premier a capo di una coalizione di centro e le sue uscite televisive hanno modificato in parte il quadro. Se Monti prende alla lettera quello che dice, in teoria la sua posizione è più corretta di quella di Casini. Ha presentato un programma e ha detto: chi ci sta si unisca noi. Ha detto che vuole raccogliere un ampio consenso elettorale e tornare a governare sulla base di questo. Conta di indebolire sia il PDL che il PD, raccogliendo voti dalle loro aree. Certo, ha chiesto al PD di “scaricare” (è il senso del suo “silenziare”) la CGIL, Fassina, SEL ecc., ma lo chiede già ora, come mossa politica in vista di una campagna elettorale in cui il PD dovrebbe mettersi al seguito di Monti. Tutte queste cose, prese alla lettera, significano che Monti chiede delle scelte politiche aperte. Ma, sempre prese alla lettera, significano anche che lui stesso si muove in termini di scelte politiche aperte: cioè se riesce a vincere (cosa improbabile) o ad arrivare secondo avendo come interlocutore un PD indebolito da questa sua strategia, allora potrebbe mettere in campo un’alleanza centro-PD secondo il disegno da lui tracciato.
Questo esito però mostra che, affinché il gioco sia veramente corretto, in termini di legittimità democratica, si dovrebbe partire dal presupposto che, comunque vada, il governo sia affidato al partito di maggioranza relativa. Poi si fanno gli accordi, sulla base del reale peso elettorale. La chiarezza su questo punto invece manca, nelle parole di Monti. Questa ambiguità lo colloca nei paraggi del “progetto Casini”. Il senso di inaffidabilità, di instabilità che crea l’operazione Monti deriva da questo. Se Monti avesse detto chiaramente, in qualsiasi momento, o se dicesse, al più presto, che la sua logica è quella di una sana repubblica parlamentare, tutti ci sentiremmo rassicurati: il gioco diventerebbe semplicemente di vedere chi vince la partita. Di vedere cioè se il centro si rafforza veramente, diventa così importante da avere un significativo potere contrattuale per fare un’alleanza con il centrosinistra, o se questo invece riesce a ottenere una superiorità netta, in modo da realizzare una politica di sinistra, anche nel caso di una alleanza con il centro. Questo è l’unico modo per riportare in una logica democratica corretta questo anomalo confronto elettorale tra un centro che pende verso destra e una sinistra che pende verso il centro, con una destra che mira solo a destabilizzare.
Wishful thinking, si dirà. Pii desideri, a fronte di queste forze politiche, che se ne infischiano della correttezza. Certo, però a questo punto è la sinistra che deve farsi due domande. O meglio, l’elettorato di sinistra. Si direbbe che questo elettorato abbia paura di vincere. Certo, il PD dovrebbe dire con maggiore chiarezza e forza che non accetterà soluzioni in cui non si rispettino i principi elementari della democrazia. Lo ha già detto, in parte, sostenendo che il Presidente del Consiglio, se il PD ha la maggioranza relativa, non può che essere Bersani. Ma al di là dei posizionamenti dei partiti, l’elettorato di sinistra che interesse ha? Ha interesse ad avere un centrosinistra debole, facilmente ricattabile da un centro rafforzato dall’operazione di Monti? A me sembra che abbia interesse, come è ovvio, ad avere un centrosinistra elettoralmente forte, che possa dettare le condizioni al centro. Intanto, se il centrosinistra riuscisse a ottenere il controllo tanto della Camera quanto del Senato, il ruolo del centro sarebbe decisamente ridimensionato; l’alleanza potrebbe rendersi necessaria solo sui grandi temi istituzionali (riforma elettorale, riforma costituzionale, riforma della giustizia). Se invece non riuscisse a ottenere il controllo del Senato, una cosa è trattare da una posizione di debolezza, un’altra trattare con una base elettorale forte. Ora, buona parte dell’elettorato di sinistra, e degli intellettuali di sinistra che commentano questa situazione, sembra invece che abbia paura di farcela, accettando questo ragionamento mediocremente politico. Il ragionamento che viene fatto è invece più raffinato, ma profondamente autolesionista. Si dice: il centro prenderà il sopravvento, imporrà l’agenda Monti, e quindi questo centrosinistra è destinato a essere fagocitato da questa operazione. Quindi il PD non farà che prolungare il montismo dopo Monti. Il risultato di quest’analisi è il solito scoraggiamento della sinistra, che porta il suo elettorato a non sostenere l’unica possibilità di mandare un centrosinistra al governo.
Le scelte da fare, adesso, sono politiche. L’operazione Monti, il suo ingresso in politica, è destabilizzante e, in fondo, antidemocratica, se serve a imporre il centro e le “riforme” costi quel che costi. Ma il fatto che Monti si esponga direttamente alla campagna elettorale e alla competizione con altri partiti pone le premesse per un reale ritorno alla politica, se le forze politiche e gli elettori lo vogliono. È possibile infatti pensare questo contesto come un conflitto aperto tra questa proposta del centro e la proposta del centrosinistra. Il risultato elettorale determinerà poi gli equilibri per formare il governo. Purché tutte la parti accettino il rispetto dei normali principi della legittimazione democratica.


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