Sul gesuita Monti abbiamo già detto quello che pensiamo. Oggi, comunque, vogliamo offrire ai nostri lettori un articolo di
Mauro Piras, pubblicato sul sito http://www.leparoleelecose.it
che aiuta a comprendere meglio il senso dell'operazione politica che sta compiendo il Professore:
Mauro Piras - Monti politico, il centro e l’eversione democratica
Da più di un secolo, forse già dalla crisi di fine
Ottocento, due sono i mali politici dell’Italia: una classe dirigente sempre
incline, in momenti di tensione sociale, a percorrere vie che sfuggono alla
legittimazione democratica, a cercare compromessi o soluzioni di vertice che
salvino equilibri sociali conservatori, portando al governo minoranze
elettoralmente poco radicate, ma molto radicate in termini di dominio sociale;
la demagogia e il populismo, la via breve per costruire il consenso popolare e
risolvere i conflitti sociali, ovviamente a favore delle classi dominanti, con
l’eversione dello stato di diritto, con l’identificazione diretta tra il capo e
il popolo, con la mobilitazione delle masse. Il tutto se possibile condito da
una sapiente tutela degli interessi corporativi e clientelari, delle rendite di
posizione, dei piccoli e grandi privilegi, tutti riuniti sotto il cappello del
demagogo di turno, o anche, in alcuni casi, della ristretta élite
autonominatasi salvatrice della nazione.
E così, come niente, passiamo adesso dalla ubriacatura
del ventennio berlusconiano alla minoranza che cerca di governare senza avere
la maggioranza in Parlamento. E il grande maestro cerimoniere di questa
operazione è l’ineffabile Casini, il tatticista, nostalgico del centro democristiano
che almeno la maggioranza relativa la aveva, determinato a portare al governo a
ogni costo il centro di minoranza relativa. Questa è la spinta di fondo,
appoggiata sull’onda lunga della cattiva politica italiana, che spiega buona
parte delle manovre in atto. E spiega perché il quadro, in una logica un minimo
democratica, è fuori controllo.
In una democrazia senza queste tare storiche, il
programma di Monti (l’“agenda”, come la si chiama) sarebbe semplicemente il
programma di un centrodestra con inclinazioni liberiste moderate e addentellati
cattolici. Una cosa come quello che fa la Merkel in Germania, per intenderci.
Da noi, niente di così banale. Il problema è che il nostro centrodestra è
invece populista, clientelare e corporativo, tutto il contrario della destra
liberale, e lontanissimo da un centro liberale riformista e moderato, come
quello che propone Monti. Quindi, inevitabilmente, la presentazione della sua
iniziativa politica ha comportato una rottura netta con Berlusconi e tutti i
suoi seguaci. Il centrodestra non ha il coraggio di fare il suo lavoro, di cui
si fa carico quindi il centro.
Ma questo mette in forse il funzionamento della
democrazia. Infatti, se è chiaro che il referente naturale di Monti è il
centro, questo però non ha abbastanza forza elettorale da poter assumere il
governo del paese, o almeno la guida di una coalizione; non ha tale forza
proprio perché la destra è occupata da un populismo corporativo (Berlusconi e
sodali) e identitario (la Lega). Allo stesso tempo, questo centro senza
maggioranza elettorale pensa di poter incarnare una sorta di egemonia culturale
sulla società italiana, di rappresentarla direttamente, proprio grazie alla sua
“centralità”; riesumando inconsapevolmente il modello giacobino della
rappresentanza virtuale (che poi è lo stesso del populismo: la persona o il
partito rappresentano direttamente il popolo, senza aver bisogno della
legittimazione tramite le procedure democratiche). Insomma, questo centro vuole
comunque determinare i giochi, senza averne la forza elettorale. E così ci
propina il cosiddetto modello della “grande coalizione”, in cui la sinistra è
costretta ad allearsi al centro e, alla fine, anche a dargli la guida del
governo. Vedremo poi perché “cosiddetto”, cioè perché la grande coalizione non
è questa cosa qui. La verità è che, nella nostra situazione, per realizzare
questo obbiettivo il centro mira a forzare i meccanismi della legittimazione
democratica. Si appoggia su manovre delle classi dirigenti che, pur di non
avere un governo di sinistra e un’apertura verso spinte democratiche, sarebbero
disposte a non rispettare del tutto le procedure.
Era molto edificante leggere certi giornali di establishment
in queste ultime settimane, diciamo a partire da quando si è cominciato a
parlare seriamente dell’ingresso di Monti in politica. Si profilavano
chiaramente, con dovizia di analisi istituzionali e di precedenti storici,
situazioni di questo genere: dopo le elezioni, il Parlamento non ha una
maggioranza definita, perché il centrosinistra non ottiene la maggioranza
assoluta, magari in una sola delle due Camere; a questo punto, il Presidente
della Repubblica dà l’incarico al leader della forza di centro (cioè Monti, ça
va de soi), che forma intorno a sé una coalizione di unità nazionale, di
“volenterosi”, diciamo così, per garantire la continuità del risanamento
finanziario, la gestione della crisi economica, la realizzazione delle riforme
istituzionali.
Un bel quadretto. Ai lati, premono la sfiducia
radicale dei cittadini per la politica, i discorsi demagogici della destra, la
protesta sociale di una sinistra che non trova forma né collocazione, il
sanculottismo virtuale e verticistico (che comincia anch’esso a imballarsi nei
suoi riti) del Movimento 5 Stelle. Proprio l’operazione ideale, in questo contesto,
per rafforzare la legittimità democratica in Italia.
Questo è il modo di vedere le cose di una parte della
classe dirigente, e certamente di una parte del centro politico stesso. Casini,
per esempio, non si stanca di ripetere che se il partito di maggioranza
relativa non ha la maggioranza assoluta in una delle due Camere, non potrà
avere la guida del governo. Curioso modo di ragionare. L’Italia, per il
momento, è una repubblica parlamentare. Tradotto: il governo è responsabile di
fronte al Parlamento, e governa con la sua fiducia. Tradotto ancora: in un
regime politico del genere, da quando esiste la tradizione parlamentare, il
partito che esce dalle urne con la maggioranza prende la guida del governo.
Poi, se ha la maggioranza assoluta, tutto bene; se ha la maggioranza relativa,
si mette alla guida di una coalizione in cui raccoglie in Parlamento anche i
voti di altre forze politiche. Questa è la logica naturale della costituzione
parlamentare. A mia memoria, le uniche eccezioni a questo modo di procedere si
trovano nella Repubblica di Weimar e nell’Italia del secondo dopoguerra (la
cosiddetta “Prima Repubblica”, espressione altamente imprecisa come tutte
quelle simili, “Seconda”, “Terza”, quando applicate all’Italia Repubblicana).
Nel primo caso, la cosa era in parte giustificata dallo strano ibrido che era
quel regime politico, con una forte componente presidenzialista non ben
equilibrata con quella parlamentare; e in ogni caso il contesto politico e
sociale non era proprio un paradigma di democrazia funzionante. Nel secondo
caso, l’impossibilità di avere una dinamica politica corretta, cioè una vera
alternanza tra destra e sinistra, unita al sistema proporzionale quasi puro, ha
prodotto lo strapotere dei piccoli centri, delle piccole forze che alla fine
sono riuscite a governare più volte senza avere la maggioranza relativa. Non mi
sembrano modelli da riproporre.
Casini, Fini, i Montezemolo e Riccardi vari (i
generali senza truppe, senza base elettorale consistente), sostenuti dal
moderatismo antidemocratico delle classi dirigenti economiche, dei vertici
dell’amministrazione e così via, vogliono però riproporre modelli del genere.
Questa soluzione è inaccettabile, non solo per le ragioni generali già esposte
sopra, ma anche per quelle specifiche del contesto politico attuale.
Il centrosinistra si è organizzato politicamente da
tempo, ben prima di altre forze politiche. Pur con molte incertezze, è riuscito
a mettere su una coalizione PD-SEL che è stata legittimata inoltre da due
passaggi di elezioni primarie, per il candidato premier e per i candidati al
Parlamento. Quindi non può prestarsi a un’operazione Monti come quella
delineata fin qui, per diverse ragioni: di legittimazione democratica, di
identità politica e di opportunità politica.
Di legittimazione democratica. Non solo gli impegni
politici delle segreterie, ma soprattutto il voto dell’elettorato di
centrosinistra nelle primarie vietano di sciogliere arbitrariamente l’alleanza,
in nome dell’assunzione della cosiddetta “agenda Monti” e di una alliance
sacrée al centro.
Di identità politica. Le politiche proposte da Monti,
e dai suoi corifei, sono di destra (o di centrodestra, come volete), l’abbiamo
già visto. Sono la ricetta tradizionale, à la Merkel, per affrontare la
crisi, con qualche ritocco qua e là che permette di aprire verso la sinistra
per una eventuale alleanza. La sinistra invece ha altre proposte. Che la
distinzione tra destra e sinistra non esista più è la solita operazione
retorica del centro e della destra che serve a evitare il governo della
sinistra. La sinistra deve avere una politica sociale di redistribuzione dei
redditi, con una tassazione patrimoniale consistente; deve modificare in
termini di equità la riforma delle pensioni e del mercato del lavoro; deve
promuovere i diritti civili; e deve avanzare proposte più coraggiose di quelle
di Monti sulla riforma delle istituzioni europee. Solo per citare alcuni punti.
Di opportunità politica. Se il PD facesse
un’operazione del genere perderebbe d’un colpo, oltre ai voti di SEL, anche un
terzo del suo elettorato. La posizione di Bersani riassume in sé questo
equilibrio politico: Bersani tiene insieme quel tipo di elettorato del PD, che
se avesse vinto Renzi non avrebbe più votato il partito; inoltre, Bersani ha
potuto vincere anche grazie all’alleanza con Vendola e SEL.
L’unica uscita sana, quindi, per il funzionamento
della democrazia e per il centrosinistra, è che questo vada avanti per la
propria strada, con il programma che si è dato, sulla base dell’alleanza
PD-SEL. In una campagna elettorale, quindi, in cui Monti diventa un avversario
politico, come gli altri. Si contino poi i voti, e questi decideranno. Se sarà
necessaria un’alleanza con il centro, dovrà essere sulla base del peso
elettorale reale delle forze in campo, e non sulla base di un primato del
centro, delle “riforme” e della “salvezza della nazione”.
Fin qui, ho presentato la posizione del centro come
unitaria, intorno a quello che per comodità chiamerò il “progetto Casini”: come
governare senza avere la maggioranza, né tra gli elettori, né in Parlamento. Il
progetto Casini si regge sul mito della “grande coalizione”: uniamoci tutti per
salvare il paese, e quindi quello che conta è la convergenza al centro. Ora,
come dicevo, la grande coalizione non è questa roba qui. La grande coalizione,
in Germania, dove si pratica, nasce da una situazione elettorale di sostanziale
parità: una delle due forze che si contendono il governo ha la maggioranza, ma
di poco, mentre l’altra ha perso, ma di poco. Quindi le due forze più importanti
hanno più o meno lo stesso peso politico ed elettorale, e questo rende
difficile formare un governo stabile di maggioranza. Per questo si forma una
coalizione trasversale, tra le due forze che si sono opposte in campagna
elettorale. Non è affatto la situazione che si sta prospettando come esito
delle prossime elezioni politiche. E soprattutto, nello schema della grande
coalizione, si dà per scontato che il governo sarà guidato dal partito di
maggioranza relativa, per quanto risicata sia la maggioranza. Il “progetto
Casini” invece prevede che chi non ha la maggioranza assoluta in Parlamento (in
entrambe le Camere) non può governare, e quindi potrebbe governare,
curiosamente, un partito che non solo non ha la maggioranza assoluta, ma non ha
neanche quella relativa. Insomma, il vero progetto eversivo delle istituzioni
democratiche è questo, altro che grande coalizione.
Bene, una volta chiarito il senso, politico e
istituzionale, del “progetto Casini”, dobbiamo chiederci: il “progetto Monti” è
la stessa cosa? Fino a quando se ne parlava soltanto, sembrava proprio di sì.
Poi, la presentazione della cosiddetta “agenda”, la sua effettiva candidatura a
premier a capo di una coalizione di centro e le sue uscite televisive hanno
modificato in parte il quadro. Se Monti prende alla lettera quello che dice, in
teoria la sua posizione è più corretta di quella di Casini. Ha presentato un
programma e ha detto: chi ci sta si unisca noi. Ha detto che vuole raccogliere
un ampio consenso elettorale e tornare a governare sulla base di questo. Conta
di indebolire sia il PDL che il PD, raccogliendo voti dalle loro aree. Certo,
ha chiesto al PD di “scaricare” (è il senso del suo “silenziare”) la CGIL,
Fassina, SEL ecc., ma lo chiede già ora, come mossa politica in vista di una
campagna elettorale in cui il PD dovrebbe mettersi al seguito di Monti. Tutte
queste cose, prese alla lettera, significano che Monti chiede delle scelte
politiche aperte. Ma, sempre prese alla lettera, significano anche che lui
stesso si muove in termini di scelte politiche aperte: cioè se riesce a vincere
(cosa improbabile) o ad arrivare secondo avendo come interlocutore un PD
indebolito da questa sua strategia, allora potrebbe mettere in campo
un’alleanza centro-PD secondo il disegno da lui tracciato.
Questo esito però mostra che, affinché il gioco sia
veramente corretto, in termini di legittimità democratica, si dovrebbe partire
dal presupposto che, comunque vada, il governo sia affidato al partito di
maggioranza relativa. Poi si fanno gli accordi, sulla base del reale peso
elettorale. La chiarezza su questo punto invece manca, nelle parole di Monti.
Questa ambiguità lo colloca nei paraggi del “progetto Casini”. Il senso di
inaffidabilità, di instabilità che crea l’operazione Monti deriva da questo. Se
Monti avesse detto chiaramente, in qualsiasi momento, o se dicesse, al più
presto, che la sua logica è quella di una sana repubblica parlamentare, tutti
ci sentiremmo rassicurati: il gioco diventerebbe semplicemente di vedere chi
vince la partita. Di vedere cioè se il centro si rafforza veramente, diventa
così importante da avere un significativo potere contrattuale per fare
un’alleanza con il centrosinistra, o se questo invece riesce a ottenere una
superiorità netta, in modo da realizzare una politica di sinistra, anche nel
caso di una alleanza con il centro. Questo è l’unico modo per riportare in una
logica democratica corretta questo anomalo confronto elettorale tra un centro
che pende verso destra e una sinistra che pende verso il centro, con una destra
che mira solo a destabilizzare.
Wishful thinking, si dirà. Pii desideri, a fronte di queste forze
politiche, che se ne infischiano della correttezza. Certo, però a questo punto
è la sinistra che deve farsi due domande. O meglio, l’elettorato di sinistra.
Si direbbe che questo elettorato abbia paura di vincere. Certo, il PD dovrebbe
dire con maggiore chiarezza e forza che non accetterà soluzioni in cui non si
rispettino i principi elementari della democrazia. Lo ha già detto, in parte,
sostenendo che il Presidente del Consiglio, se il PD ha la maggioranza
relativa, non può che essere Bersani. Ma al di là dei posizionamenti dei
partiti, l’elettorato di sinistra che interesse ha? Ha interesse ad avere un
centrosinistra debole, facilmente ricattabile da un centro rafforzato
dall’operazione di Monti? A me sembra che abbia interesse, come è ovvio, ad
avere un centrosinistra elettoralmente forte, che possa dettare le condizioni
al centro. Intanto, se il centrosinistra riuscisse a ottenere il controllo
tanto della Camera quanto del Senato, il ruolo del centro sarebbe decisamente
ridimensionato; l’alleanza potrebbe rendersi necessaria solo sui grandi temi
istituzionali (riforma elettorale, riforma costituzionale, riforma della
giustizia). Se invece non riuscisse a ottenere il controllo del Senato, una
cosa è trattare da una posizione di debolezza, un’altra trattare con una base
elettorale forte. Ora, buona parte dell’elettorato di sinistra, e degli
intellettuali di sinistra che commentano questa situazione, sembra invece che
abbia paura di farcela, accettando questo ragionamento mediocremente politico.
Il ragionamento che viene fatto è invece più raffinato, ma profondamente
autolesionista. Si dice: il centro prenderà il sopravvento, imporrà l’agenda
Monti, e quindi questo centrosinistra è destinato a essere fagocitato da questa
operazione. Quindi il PD non farà che prolungare il montismo dopo Monti. Il
risultato di quest’analisi è il solito scoraggiamento della sinistra, che porta
il suo elettorato a non sostenere l’unica possibilità di mandare un
centrosinistra al governo.
Le scelte da fare, adesso, sono politiche.
L’operazione Monti, il suo ingresso in politica, è destabilizzante e, in fondo,
antidemocratica, se serve a imporre il centro e le “riforme” costi quel che
costi. Ma il fatto che Monti si esponga direttamente alla campagna elettorale e
alla competizione con altri partiti pone le premesse per un reale ritorno alla
politica, se le forze politiche e gli elettori lo vogliono. È possibile infatti
pensare questo contesto come un conflitto aperto tra questa proposta del centro
e la proposta del centrosinistra. Il risultato elettorale determinerà poi gli
equilibri per formare il governo. Purché tutte la parti accettino il rispetto
dei normali principi della legittimazione democratica.
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