30 gennaio 2013

IL MONDO DI GIORGIO GABER






Sono un uomo che ci crede ancora…sono malato
di conoscenza, di voglia di cambiare le cose…
Forse è da lì che ciascuno di noi dovrebbe
ripartire, dall’individuo e dalle sue contraddizioni.
Giorgio Gaber





Oggi prendo dal sito http://lapoesiaelospirito.wordpress.com un articolo dell’amico Antonino Contiliano che prende spunto da un libro pubblicato recentemente dall’Editore Navarra  per parlare di Giorgio Gaber:

Antonino ContilianoIl mondo di Giorgio Gaber

La realtà, lasciò scritto Bertolt Brecht nei suoi pensieri sull’arte e la letteratura (oltre che nei suoi testi poetici e teatrali), ha più forme di quante ne possa inventare la poiesis dell’uomo, e di quelle che la “modernità”, in particolare, ha pensato e agito per creare un uomo e una società nuovi. Questi, specie nel Novecento, il “secolo breve”, ci ha provato (sintetizziamo e per approssimazione), fallendo, infatti, in modi diversi (ma il secolo breve avrebbe anche di che difendersi di fronte a un tribunale!). Sono le prove delle grandi guerre e delle rivoluzioni rosse, nere, gialle e bianche; quelle dei blocchi contrapposti e degli equilibri del terrore o quelle degli ecumenismi etico-religiosi fondamentalisti, e di segno diverso; quelle tecnologiche e ideologiche della prima e seconda (post-fordista) industrializzazione o quelle che fanno appello al diritto, ai diritti e ai diritti fondamentali, etc.
L’uomo nuovo della modernità però ha fallito o, per dirla con un sofisma azzeccato e divertente di Gaber, ha messo al mondo “polli d’allevamento” e galli da combattimento. Animali politici che hanno messo da parte però il verso senso della polis, la “forma” dell’essere relazione come un “collettivo” le cui parti non dovrebbero mai perdere il valore fondante della reciprocità emancipativa. Questo il filo rosso che, Claudius Messener, autore di La realtà come passione- Filosofia, Politica, Responsabilità in Giorgio Gaber (Navarra Editore, Marsala, 2012), ha seguito nel leggere i testi dell’artista Giorgio Gaber. Ed è in questo anche, ci pare, e in una con Gaber, che venga riproposto il “risveglio” dai rumori di fondo e di superficie dei calpestati: il dono dell’amore e dell’amicizia, l’impegno della coerenza e della reciprocità collettiva per ognuno e tutti; il senso del mondo come relazione.
Ci hanno provato pure i giovani degli anni Sessanta, o della contestazione, eppure le cose non sono andate per il giusto verso…; eppure, dice Gaber, non eravamo “scemi”.
Il mondo, gli uomini e ogni forma vivente e non vivente è un sistema di relazioni dinamiche. Questo punto, crediamo, sia la chiave della filosofia che Messner ha trovato in Gaber, e che il cantautore mette in scena come peculiarità non realizzata dell’individuo della modernità. E lo fa con una consapevolezza culturale che è sia di acquisizione empirico-esistenziale propria che, crediamo (Gaber fino all’ultimo si è dichiarato uomo di sinistra, “non pentito”), di sicuri riferimenti culturali e pratico-teorici. Dell’uomo come relazione, non certo è da non annoverare K. Marx (Tesi su Feuerbach). L’uomo è l’esser-ci che è l’“insieme di rapporti sociali”. La loro reificazione (“feticismo”), opera della società borghese, non ne annulla affatto la struttura ontologico-relazionale; può solo camuffarli (oggi utilizza l’estetizzazione e l’erotizzazione spettacolarizzata, fra gli altri strumenti!). George Bataille – che nel Novecento ha riflettuto sul dono e la “parte maldetta” (e solo per citare qualche altro nome) – chiamava la relazione come “l’intimità della cosa”.
La sua perdita, – registrata dalle atrocità inaudite del Novecento, secolo pure di altrettante meravigliose conquiste (secolo ossimorico e paradossale per eccellenza), all’indomani dei processi di Norimberga, delle purghe staliniane e delle atomiche americane su Hiroshima e Nagasaki (et alia nefandezze di guerre umanitarie e democratiche odierne), – dal filosofo e psichiatra Karl Jaspers, è stata definita come la “colpa ontologica” dell’uomo moderno. Ovvero: gli uomini moderni, soggetto singolo o collettivo (pietrificato), hanno perso la capacità di vivere insieme e di curare la vita di relazione come reciprocità tra i diversi, ossia come una pratica di relazioni con l’Altro (il diverso, la “differenza”). Un reciprocità non precaria e fatta anche di piccoli gesti, di semplici e disinteressate azioni quotidiane di gentilezza e cure “offerte” come l’amore e l’amicizia.
Le offerte che si presentano, scrive Messner, con il com-parire dell’Altro (ospite, alterità). Cose possibili e alla porta di ogni individuo nel quotidiano della phronesis (il sapere della saggezza) di cui ognuno dispone. Quasi un recupero, sembra suggerire Claudius Messner, lettore “speciale” della poetica di Giorgio Gaber, della triade dell’universo socio-culturale della grecità: eros, filia, agape. In fondo, diceva W. Benjamin, altro pensatore nello specchio dello stesso Claudius mentre ci dice di Gaber, il passato lascia sempre qualcosa della sua storia al presente come un compito ancora da realizzare. Una realizzazione che deve essere opera di un nuovo “noi” che, come una “debole forza messianica”, in ogni istante/ora (il tempo-ora, il presente) può entrare e creare, insieme-gli-con-gli-altri, una frattura rivoluzionaria nella storia della continuità dei signori (padroni) della vita e della morte.
L’amore e l’amicizia, si legge nel libro di Messner su Gaber, “si offrono come il tè” (p. 74). Non si danno. “Semmai,‘ si offrono’: si presentano. Sono dovute, in un certo senso, all’altro, all’altro perché dall’altro, che è sempre l’altro concreto, provengono. È in virtù dell’altro che, manifestandosi come gesti che vanno oltre noi stessi, esistono amore e amicizia. ‘ Offrire’ amore e amicizia significa presentare un regalo, dedicare amore e amicizia all’altro come un dono che è come è, indicibile (se non in quelle forme precostituite che non bastano mai) e impresentabile (come un mare di bene che ti voglio); significa sottoporre se stesso all’attenzione altrui, con un atto singolare, senza riparo e garanzie, e rischiando persino il rifiuto” (p. 75).
Ecco perché ci sono uomini, poeti e cantanti come Gaber che, pur nella caduta delle illusioni delle forme radicali e palingenetiche della modernità novecentesca, non hanno perso la speranza di cambiare le cose come possono; cioè a partire da se stessi. Cambiare la realtà e la vita ordinandola con altre forme. Modelli da loro escogitati, che non abbiano altra finalità che l’uomo stesso, e realizzati nella pratica quotidiana delle cose. Il pensiero, in esergo, di Gaber – cui il docente di Filosofia del diritto presso l’Università del Salento, Claudius Messener, “istigatore colpevole” (p. 12) Paolo Navarra, ha dedicato il suo saggio “La realtà come passione-Filosofia, Politica, Responsabilità in Giorgio Gaber – non è che la conferma più semplice, chiara e immediata (l’“immediatezza” della logica hegeliana). Ed è su questo pensiero costante che Giorgio Gaber, infatti, come cantautore stimolato dalle contraddizioni del XX e dal loro perpetuarsi nel successivo, il XXI (Gaber muore nel 2003), trova il suo ubi consistam con la modernità: la “mise en forme”.
La ricerca della “forma” non è eliminazione delle contraddizioni, ma la possibile via d’uscita che la contraddizione suggerisce. “Se un uomo non si contraddice mai è certamente perché non dice mai nulla di nuovo” ( M. De Unamuno). E Gaber lo fa con il suo intenso repertorio di testi cantati e recitati sulla “piazza” del palcoscenico teatralizzato, perché è qui che il pubblico, toccato dal suono della voce e della chitarra, può interagire vivamente con il pensiero dell’autore, il pensiero che dallo scritto passava all’oralità. Il pensiero del dubbio e del conflitto e della verità come conquista del vero che fa capolino dalle stesse contraddizioni che ci attraversano e siamo. Un pensiero cantato e messo in scena; un pensiero-azione teatralizzato. Proprio come il teatro greco ha insegnato. Del resto i pensieri di Gaber, come quelli dei poeti greci, raccontano e cantano ciò che il “noi” della collettività offre alI’io dell’artista; e che l’artista in sintonia o in conflitto ritorna indietro come riflessione e azione.
Per ritornare al lavoro del prof. Messner, il suo cercar tra i testi-canzone di Gaber è stato quello, ammirevole (e non senza rischi, però), di trovare attraverso le “parole” di Gaber (come da lui stesso anticipato durante la presentazione del libro al “Baluardo Velasco” di Marsala, gennaio 2013) l’intento di una progettualità (filosofica, politica, culturale) che, esplicitata artisticamente nella canzone tipica dei cantautori e contemporanei, si potesse rapportare con l’idea filosofica di fondo della vita come “relazione” e “azione”. Una ricerca e una proposta, ripetiamo, ammirevole e preziosa; curata non meno di quella che, intorno al dar forma della modernità, la “passione” del 900, hanno dato attenzione per eguali contributi di analisi altri studiosi, filosofi e interpreti del Novecento. Personaggi che si sono serviti delle “parole” dei poeti, Alain Badiou (Il secolo, Feltrinelli, Milano, 2006), o seguito altre tracce, speculative e storiche, Giacomo Marramao (La passione del presente, Bollati Boringhieri, Torino, 2008). Che Messner abbia scelto le parole del cantautore Giorgio Gaber è segno che la passione del “noi”, tra il XX° e il XIX°, è terreno comune di interesse e di veglia; e di una veglia che vuole essere stimolo, “pungolo nelle carni” (S. Kierkegaard) o, meglio, “il risveglio” (W. Benjamin) e l’indicazione di un pensiero critico e teso alla decisione responsabile.
Il Gaber di Messner, come gli altri soggetti e oggetto di studio di Badiou e Marramao (salve le differenze e riserve che ciascuno può avere per ognuno di questi chiamati a parallelo), si sofferma sul secolo uscente e quello nascente; e lo fa affrontando il tema del reale come presente e del presente come reale in una con il rapporto della soggettivazione che i soggetti individuali e collettivi (sociali) non possono né trascurare né ignorare. Perché la soggettivazione è un’incorporazione di valori e sensi che con la loro potenza trasformatrice innestano il problema dell’identità in senso lato. Un rapporto e un processo di identificazione che ora si consuma come riduzione dell’io al noi, fusi o antagonisti, ora come identità singolari conflittuali di irriducibili differenze, e comunque in dialogo e confronto.
Azzardardiamo una parallelo significante (anche se schematico; forse un suggerimento per ognuno a leggere il libro di Messner su Gaber):
Badiou, leggendo alcuni poeti (B.Brecht, O. Mandel’stam, F. Pessoa, P. Celan), affronta la volontà del secolo XX° come realizzante la forma dell’identità monolitica, una. Un’identità perseguita all’insegna di un’idea comunque astratta. Poca o nessuna differenza faceva l’ordine dell’universo di provenienza (il contesto); religioso, tecnico, politico, filosofico, culturale, economico, sociologico etc. fosse l’origine, l’idea centrale era, e doveva rimanere, quella di omogeneizzare secondo i termini del modello prescelto e fedelmente perseguito, obbligando vita e storia a coincidere fin dall’hic et nunc;
Marramao, in uno dei suoi saggi (interno all’opera), attraversa invece la civitas della realtà municipale italiana, quella che ha segnato la nascita del “comune” nell’Italia postmedioevale e moderna e parla della portata modellante concreta che hanno avuto i flussi migratori per la costruzione di una identità individuale e sociale fuori dagli schemi precostituiti. Una identità che sia rispettosa dell’identità dell’altro come “differenza”; tant’è che, in altri punti de La passione del presente, Marramao scrive che il nuovo universale del “noi”, se si vuole continuare una modernità che costruisce – quella della “forma” o mise en forme, –, deve essere quello della “differenza”;
Messner, con Gaber, non diversamente: “Per realizzare il progetto della modernità è decisivo, infatti, che esista una chiara corrispondenza fra progetto individuale di vita e progetto sociale, fra il ‘mondo’ e la struttura dei bisogni individuali. La sicurezza esistenziale dipende da questa corrispondenza. L’identità personale non può esistere fuori dal contesto di un progetto comune che promette di dare fondamenti saldi e prevedibili alla spontaneità individuale, alla libertà di scelta e alla facoltà di decidere. Se tale fiducia è garantita sappiamo, anche in caso di delusione delle nostre aspettative e speranze, come ‘andare avanti’.” (p. 86).
Il mio tema di sempre, lascia detto Gaber, è stato sempre il “collettivo” E per chiudere questo sguardo a stralcio sull’opera di Messner (La realtà come passione) lasciamo la parola alle parole (pp. 72-73) del testo E tu mi vieni a dire (1973) di Gaber stesso:
«E tu mi vieni a dire <Io amo> come se l’amore…
E tu mi vieni a dire <Io muoio> come se la morte…
E tu mi vieni a dire <Io soffro> come se il dolore…
Capire cosa c’è dietro il dolore
saperlo analizzare e motivare
allora quel dolore è la mia rabbia
di fronte a repressioni sempre più allarmanti
la rabbia di uno, la rabbia di tanti»
«E tu mi vieni a dire che l’uomo muore
lontano dalla vita, lontano dal dolore …
E tu mi vieni a dire che tutto è osceno
che non c’è più nessuno che sceglie il suo destino …
E sento che hai ragione
se mi vieni a dire che l’uomo sta correndo
e coi progressi della scienza ha già stravolto il mondo
però non sa capire che cosa c’è di vero
nell’arco di una vita, tra la culla e il cimitero.
E tu mi vieni a dire c’è solo odio
ci sarà sempre qualche guerra, qualche altro genocidio
e anche in certi gesti che sembran solidali
non c’è più l’individuo, siamo ormai tutti uguali.
E sento che hai ragione
se mi vieni a dire che anche i più normali
in mezzo ad una folla diventano bestiali
e questa specie di calma del nostro rnondo civile
è solo un’apparenza, solo un velo sottile.
E tu mi vieni a dire quasi gridando
che non c’è più salvezza, sta sprofondando il mondo
(ma io ti voglio dire che non è mai finita
che tutto quel che accade fa parte della vita»
Il canto “non è un ‘sì’ che approva l’ordine esistente delle cose. […] piuttosto, resistenza all’annullamento della particolarità e della diffe­renza, al progressivo mettere in quarantena ciò che da sempre è stata la spina nel fianco della società moderna, alla scomparsa della soggettività. […] è difendere l’individuo dalla morte sociale […] Trovare e riscoprire il proprio posto. Osare scelte sbagliate, assumersi la responsabilità per le decisioni prese, esporsi al confronto rischiando il rifiuto” (pp. 72, 78). Il canto di Gaber è l’impegno a non rimanere “bambini” e “disporsi al dialogo che non esclude il conflitto, ma lo implica e lo sopporta […] perché riconosce l’istanza dell’altro” (p. 78); perché è anche un impegno a lottare contro il “biopotere” della “società precaria” e della “società adolescenziale” di cui Michel Foucault (Sorvegliare e punire) ha messo in luce i dispositivi e gli “illegalismi” (p. 83); perché è necessario – ricorda Messner citando Adorno – che, nella società che vuole l’uomo e tutti ridotti al rango di bambini amministrati, consumatori e controllati non vada disinnescata la fedeltà alla “trasgressione”; perché attenti alla voce di Gaber, con lui, possiamo continuare a dire: “Eccola la ‘resistenza’, portare fino in fondo la propria esperienza e non cedere al primo incontro un po’ eccitante, a una trasgressione un po’ consumistica” (p. 71).




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