30 settembre 2015

LE VIE DELL'OLIO SECONDO PIPPO ODDO





Le vie dell'olio tra passato e futuro
Giuseppe Oddo

«Qui c'è un albero non piantato dalla mano dell'uomo, germe nato da sé medesimo, e verdeggia abbondantemente in questa terra: l'olivo dalle foglie glauche [...] che mai rapace vecchio o capo devastatore estirperebbe con le proprie mani poiché ad esso guardano gli dei del mondo dagli occhi chiari».
Così Sofocle in Edipo a Colono. Ma non era soltanto lui, nell'antica Grecia, a ritenere sacro l'ulivo. All'origine di questa credenza c'è una leggenda. L'onnipotente Zeus amava mettere in competizione i suoi parenti più stretti. Un giorno promise il dominio della terra a chi, tra gli dei dell'Olimpo, gli avesse presentato il dono più utile all'umanità. Si fece allora avanti suo fratello Posidone che, affondando il tridente nella roccia, fece sgorgare l'acqua del mare consentendo così agli Ateniesi di navigare a distanza e dominare il mondo.
Ma Zeus, che pure aveva un debole per gli Ateniesi, non se la sentì di assegnare la vittoria al fratello: volle mettere alla prova sua figlia Atena, prima di pronunciarsi. Questa cominciò a percuotere la terra ordinandole di produrre un albero nuovo e meraviglioso. Detto fatto: nacque l'olivo. Ebbro di gioia, Zeus dichiarò chiusa la gara e consegnò la palma alla figlia, sentenziando che mai dono divino sarebbe stato più utile all'umanità.
Leggenda per leggenda, perché non ricordare anche quella di Aristeo? Si tramanda che fu questo semidio nomade, figlio di Apollo e di Cirene, a diffondere la cultura dell'olivo in tutto il bacino del Mediterraneo. Peccato che gli Ebrei non ci credano. Vuole infatti una vecchia leggenda ebraica che quando morì Abramo gli trovarono tra le labbra tre semi, dai quali poi nacquero il cedro, il cipresso e l'olivo. L'albero «dalle foglie glauche» sarebbe quindi nato nella Terra Santa, per i figli d'Israele. Lo stesso popolo eletto è definito da Geremia «ulivo verde, maestoso». E non è privo di significato il fatto che ad annunciare a Noè la fine del diluvio universale sia stata una colomba «con una fronda novella di olivo nel becco».
Di grandissima considerazione ha sempre goduto anche presso i Cristiani la pianta dalla chioma sempreverde, se è vero che la croce di Cristo fu costruita con legno d'olivo e di cedro. Altrettanto sacra e considerata dall'Islam. Il Corano la considera infatti albero centrale, simbolo dell'uomo universale, del Profeta. Insomma, l'olivo è sempre riuscito a conciliare l'inconciliabile: profeti e sacerdoti pagani, Cristo e Maometto, Ebraismo, Cristianesimo e Islamismo.
Miti e leggende sono fioriti ovunque a profusione sull'olio e sull'olivo. E così i riti che, al di là della facciata, accomunano popoli assai diversi per lingua e religione, storia e concezione della vita: popoli che all'albero benedetto attribuiscono una grandissima ricchezza simbolica, facendone di volta in volta emblema di pace, fecondità, giustizia, sapienza, forza, purificazione...
Se nell’Iliade Achille fa ungere di olio il cadavere di Ettore prima di restituirlo a Priamo, nel sacramento dell'estrema unzione il sacerdote somministra olio santo a chi sta per congedarsi dal mondo. Commentando i riti funebri cristiani, lo pseudo Dionigi ricorda che «dopo il saluto, il sacerdote spande olio sul defunto». Aggiunge che «nel sacramento di rigenerazione prima del battesimo, quando l'iniziato si è totalmente spogliato delle vecchie vesti, la prima partecipazione alle cose sacre consiste nell'unzione di olio benedetto. E al termine della vita è ancora l'olio santo che si sparge sul defunto. Per l'unzione del battesimo si chiama l'iniziato all'agone dei combattimenti sacri; l'olio versato sul defunto significa che egli ha compiuto la sua carriera e messo fine alle sue lotte gloriose».
È opinione diffusa che l'unzione con l'olio d'oliva faccia risaltare muscoli: ne facevano largo uso gli atleti ellenici e continuano a farne, ovunque nel mondo, quelli dei nostri giorni. Nell'Africa del Nord, ma anche in altre regioni mediterranee, da sempre i contadini usano oliare il vomere prima di affondarlo nel suolo, forse in onore all'Invisibile e alla stessa Madre Terra, i cui frutti nutrono il genere umano e ne assicurano la sopravvivenza. All'olio e all'olivo si attribuiscono poteri straordinari persino in Estremo Oriente. I Cinesi, per esempio, credono che il legno d'olivo neutralizzi l'effetto letale di taluni veleni. Nel Mediterraneo l'olio ha addirittura assolto per millenni alla funzione di corsia privilegiata per il Paradiso. Basti pensare a quanto se n'è consumato per illuminare templi, chiese, sinagoghe e moschee. Un versetto coranico recita: «Il Dio! Egli è luce in cielo e in terra, e la sua luce è come quella di una nicchia: la lampada si trova serrata in cristallo come astro di splendore, rimane accesa grazie all'olio, pianta benedetta, questa pianta è l'ulivo. L'olio farebbe risplendere la luce anche se ne non la toccasse il fuoco, mai».
La lucerna ad olio è forse l'unico manufatto di uso domestico che si costruisce ininterrottamente dalla preistoria ai nostri giorni: viene ancora usata come lampada votiva. È, insomma, l'emblema dell'homo sapiens perché ha consentito ai nostri antichi progenitori di vincere il terrore delle tenebre. Anche per questo l'olio è ritenuto sacro, ma soprattutto perché l'inizio della sua coltivazione coincide con la nascita dei villaggi contadini e la conversione alla vita sedentaria delle prime comunità nomadi.
Sulla regione d'origine dell'olivo ci sono varie opinioni. Una vuole che esso, originario dall'Asia Minore, sia stato introdotto in Grecia e da qui in Italia e nel Mediterraneo. Un'altra individua l'area di provenienza nella regione compresa tra i monti a sud Caucaso, le pendici dell'altipiano iranico e le coste della Siria e della Palestina. È risaputo però che l'ulivo si è sempre innestato sull'oleastro, che vegeta spontaneamente in quasi tutto il bacino del Mediterraneo. In Sicilia, per esempio, esistono ancora piccole aree residue di foresta naturale e tanti toponimi che ne attestano inconfutabilmente la presenza fin dal primo mattino del mondo: Ogliastro, Ogliastrello, ecc.
A ogni buon conto, i primi scrittori di cose siciliane confermano che, almeno in epoca classica, nell'Isola l'olivo era largamente coltivato ed aveva una grande rilevanza economica e paesistica. A detta di Tucidide e di Diodoro Siculo, nelle colline a ridosso di Siracusa e di Agrigento, con le sue foglie argentate, l'albero benedetto conferiva alla campagna un'immagine di raro benessere; l'olio si esportava. Sotto i Romani l'olivicoltura è stata forse ridimensionata (per destinare le aree di risulta alla produzione del grano necessario a nutrire i cittadini dell'Urbe), ma non è certo scomparsa, a giudicare dalla grande quantità di anfore olearie rinvenute in fondo al mare a poche miglia dalle costa siciliana. I Romani d'altronde apprezzavano l'ulivo, tant'è vero che lo diffusero in tutto il Nord Africa, fino al confine del deserto, e istituirono la cosiddetta Arca olearia, una sorta di moderna Borsa dove si trattavano grosse partite d'olio d'oliva.
L'olivicoltura fu poi rilanciata dai Bizantini e dagli Arabi; sopravvisse ai dominatori nordici, che pure facevano largo uso di grassi d'origine animale. Nel Cinquecento assurse alla dignità di coltura specializzata, come risposta alla crisi degli allevamenti di suini determinata dagli scriteriati disboscamenti che fecero quasi scomparire la produzione di ghiande.
Un'area di significativa espansione fu, nel Cinquecento, il Marchesato di Geraci, stando almeno a quanto si può leggere nel libro-inchiesta I contadini di Sicilia di Sidney Sonnino: il marchese «allo scopo di arricchire le città e le terre per attirarvi maggiore popolazione, dava a chiunque il permesso di innestare gli oleastri, che qui crescono dappertutto spontanei, e di far proprie le piante di ulivo». Proprie, per modo di dire. In forza del diritto dei nozzoli, i contadini erano costretti a molire le drupe esclusivamente nei trappeti del marchese; «le olive – spiega Orazio Cancila – già macerate sotto il torchio non dovevano che ricevere tre colpi di pressa per cacciare parte dell'olio». Il resto, che non era poco, restava assieme alla sansa al padrone.
Abolito nel 1785 dal viceré Caracciolo, il diritto dei nozzoli fu ripristinato l'anno dopo dal suo successore, principe di Caramanico. E, quando furono soppresse le angherie feudali, si istituirono I gritti di lu trappitu (di cui erano beneficiari i frantoiani), che pesavano sugli agricoltori più degli stessi diritti dei signori feudali. Aveva ragione Salvatore Salomone Marino: 'Ntra trappitu, trappiteddu e trappitara, ogghiu mancu ni portu 'na quartara. Era il lamento del contadino olivicoltore che dopo un anno di lavoro portava a casa poco olio. Senza considerare che non poteva sottrarsi al dovere di pagare, già dentro i locali del frantoio, il contributo in natura per la festa del Patrono. Ciononostante, il coltivatore siciliano non si è mai stancato di piantare e coltivare olivi. Li cura amorevolmente, quasi fossero persone.
Nelle aziende capitalistiche il monte giornate impiegato nella raccolta delle olive era generalmente distribuito per l’80% alle donne e ai fanciulli e per il 20% agli uomini; e, se dobbiamo prestar fede alle parole di Giuseppe Pitrè, la manodopera femminile era remunerata con salari di fame: «A due ore dal cominciamento della fatica, le più agiate della ciurma mangiano un grano di pane, qualche volta accompagnato con un pochino di cipolla e qualche oliva passa. Le altre, che si rimangono a dente asciutto, fingono di non vederle; e se da quelle invitate siano a partecipare del loro, abbassano la testa e rispondono aspramente: Obbligata!». Nell’ex contea di Modica, i raccoglitori di olive d’ambo i sessi dormivano in promiscuità in un magazzino della masseria: «tutti si stendono su d’uno strame coprendosi ciascuno dei propri abiti e le donne delle loro vesti, sovente umide». Dopo una lunga giornata di lavoro, «ricevono ciascuno in una ampia scodella una minestra di fave, metà della quale vien conservata pel domani, due ore prima dell’alba». Ma, per quanto trattate male, le raccoglitrici di olive non si stancavano mai di ringraziare il padrone che le aveva assunte, né di pregare l’Altissimo per propiziare nuove annate di carica; tanta era la paura di perdere quella misera fonte di reddito!
Dall'olivo non si ricava solo l'olio. Parte dei suoi frutti, appositamente curati, integrano l'alimentazione umana. Un tempo erano addirittura quasi il solo companatico della povera gente. La sansa alimentava forni, bracieri e focolari; la morchia si barattava col sapone. I polloni del portainnesto servivano per costruire ceste, panieri e altri oggetti di uso agricolo e domestico; dai tronchi si ricavavano mobili indistruttibili e stupende sculture; dai rami giocattoli e arnesi di lavoro.
L'olio d'oliva era fra l'altro ritenuto il toccasana di molti mali: ogghiu cumuni sana ogni duluri, recita un vecchio detto popolare. Talune malattie si curavano però con oli speciali come l'ogghiu di piricò, ossia olio d'oliva aromatizzato da «fiori e foglie d'iperico raccolti nella notte di San Giovanni». Non c'era male che potesse resistere di fronte all'olio d'oliva, se arricchito da talune essenze naturali come la ruta, quando bisognava curare l'isteria, o il succo di limone, nel caso di molte altre malattie, compreso il colera. E non si dimentichi che la medicina omeopatica tuttora fa largo uso del prezioso liquido estratto dalla drupa olearia. Le vie dell'olio, come quelle del Signore, sono insomma infinite. Dall'alimentazione alla cosmesi, all'industria farmaceutica... ovunque sembra che stiano per dischiudersi spazi davvero interessanti per la valorizzazione dell'olio d'oliva.
Né si può ragionevolmente temere che il provvidenziale grasso vegetale perda parte della sua importanza man mano che si consolidano le logiche del villaggio globale. Anzi, tutto lascia ritenere che l'olio d'oliva debba ricevere nuovi importanti apprezzamenti proprio dai mercati lontani dall'area di produzione. A farmi radicare in questa convinzione è soprattutto il successo che ogni giorno di più registra la dieta mediterranea, che com’è noto ha tra i suoi capisaldi l’olio d’oliva, ormai da molti anni apprezzato anche da tanti uomini e donne dei paesi nordici, già consumatori di grassi insaturi e oli di semi vari.

Giuseppe Oddo
Palermo 30 settembre 2015

NELLA MENTE DEGLI ANTICHI GRECI



Dalla dimensione psichica degli eroi omerici all’anima immortale di Platone. Una originale indagine di uno studioso americano .

Martino Menghi

Nella mente degli antichi greci. Alla ricerca della «psyche»


È una fortuna, possiamo dirlo, che Anthony A. Long abbia onorato solo di recente un vecchio contratto con la Harvard University Press per un saggio di psicologia antica. Il risultato infatti, invece che una monografia tradizionale, è un magnifico libro, agile e discorsivo, che apre nuove prospettive sul tema e che nella sua esemplare chiarezza si rivolge indifferentemente a un pubblico di studiosi e di non specialisti. 

Frutto di una serie di seminari tenuti presso la Rinmin University of China, Greek Models of Mind and Self si caratterizza anche per quel passo felicemente didattico con cui l’autore si sofferma su alcuni concetti, li riprende, li elabora e infine li mette a confronto con nuove acquisizioni. Di più, nella sua padronanza della cultura greca e romana (e non solo), Long non si limita a sondare i classici della filosofia, ma attinge volentieri anche da fonti meno consuete ma altrettanto interessanti.

In principio ci sono gli eroi omerici, per i quali il “sé” è rappresentato dal proprio corpo, che è mosso nella sua azione e nelle sue emozioni da un soffio vitale di volta in volta chiamato thymos, phrenes, etor. Questo soffio o spirito se ne esce dal corpo al momento della morte, prendendo il nome onomatopeico di psyche, e non è destinato a sopravvivergli. 

L’immortalità dell’uomo omerico consiste solo nella durata della sua fama (kleos), che gli deriva dalla sua gloria di combattente o di capo di un oikos. Di quanti sono morti, invece, non rimangono altro che ombre inconsistenti, inafferrabili, che quando vengono interrogate dai vivi lamentano la tristezza della loro condizione e rimpiangono la vita corporea senza la quale non sono più nulla. Immortali, athanatoi, sono solo gli dèi dell’Olimpo. 

Questa visione eroica della vita, il modo di sentire e di rappresentarsi proprio dell’uomo omerico sono solo un frammento del potenziale umano, un fondamento di continuo elaborato dagli scrittori contemporanei o successivi alla trascrizione dell’Iliade e dell’Odissea (VIII-VI sec. a.C.). Esiodo, per esempio, integra Omero accostando l’umano al divino invece che separarli: l’uomo, inizialmente beato fra gli dèi, ne è stato in seguito allontanato e, nell’età del ferro in cui vive e scrive il poeta, può riscattarsi solo con la fatica del suo lavoro e operando secondo giustizia per non incorrere in una punizione divina che trascende la sua vicenda mortale. 



Si fa strada l’idea che esista una vita dopo la morte. Il concetto, sostanziato da suggestioni orfico-pitagoriche, ricompare nel poeta Pindaro (VI-V sec. a.C.) il quale ci parla di anime di defunti che si sono reincarnate in corpi di re e di potenti dopo un periodo nell’Ade. In un altro testo poi ci rivela che esiste un meraviglioso mondo sotterraneo illuminato da un suo sole, i cui abitanti passano il tempo tra gare sportive, di musica e ogni sorta di piaceri. Un’anticipazione dei Campi Elisi virgiliani.

Il terreno è pronto per le grandi mosse compiute da Platone. Per lui vi è un’anima, che d’ora in poi si chiamerà psyche, distinta dal corpo in cui temporaneamente alloggia: essa è immortale, divina, poiché appartiene al mondo eterno e perfetto delle Idee. Se si corrompe nella sua vita terrena è destinata a reincarnarsi in altre creature prima di ritornare purificata là da dove proviene. 

È questo il “dualismo platonico” che sancisce in via definitiva il primato dell’anima sul corpo e una sua esistenza dopo la morte, come si legge nel Fedone, e come più tardi avrebbe ribadito a più riprese il pensiero cristiano. Ma Platone si spinge oltre, teorizzando nella Repubblica un’anima non più in conflitto con il corpo, bensì con se stessa. Suddividendola in tre parti il filosofo assegna alla ragione, la sua dimensione più alta, il compito di governare con l’aiuto dell’anima emotiva quella in cui risiedono i desideri più pericolosi (di cibi, di bevande, di eros e, d’altro canto, di ricchezza e di potere necessari per soddisfare i primi).



Questo schema, applicabile tanto all’individuo che al corpo cittadino (data l’analogia filosofi-ragione, guardiani-spirito collerico, mondo della produzione-anima desiderante, dove le prime due categorie sono chiamate a governare la terza) rappresenta, com’è noto, un’utopia, poiché storicamente si assiste di solito alla detronizzazione della ragione tanto nel singolo che nella collettività e alla progressiva rivincita degli appetiti più deleteri. 

Ma per quanto utopico il grande lascito platonico consiste proprio nell’aver indicato nella ragione la dimensione psichica che non solo è chiamata a governare la nostra esistenza ma che ci mette anche a parte della verità immutabile dell’essere contro l’effimero e l’apparente. 

Un lascito che verrà raccolto e proseguito tanto da Aristotele che dalla filosofia ellenistica, in particolare dagli Stoici, e che ci appartiene ancora, come Long ci illustra nell’ultima parte di questo suo piccolo capolavoro.



A. A. Long
Greek Models of Mind and Self 
Harvard University Press, 2015
$ 25,95.



Il Sole 24Ore – 27 settembre 2015

PAROLE E VIOLENZA. Il caso Erri De Luca



LÌ DOVE FINISCE IL DISCORSO COMINCIA LA VIOLENZA

di Evelina Santangelo
Dunque, da una parte c’è uno scrittore che, in merito alla vicenda che lo vede imputato per istigazione a delinquere,pronuncia in aula e scrive (nel suo libro-difesa La parola contraria) parole di questo tipo: «Io, se istigo, istigo alla lettura. Al massimo alla scrittura».«L’accusa contro di me sabota il mio diritto costituzionale di parola contraria. Il verbo sabotare ha vasta applicazione in senso figurato e coincide con il significato di ostacolare. I pubblici ministeri esigono che il verbo sabotare abbia un solo significato. In nome della lingua italiana e del buon senso nego il restringimento di significato».
Dall’altra, c’è un pubblico ministero, Antonio Rinaudo, che chiede per De Luca 8 mesi di reclusione con argomentazioni serrate di questo tenore: «Mi pare inevitabile che le parole di De Luca (“sabotaggi e vandalismi sono necessari per comprendere che la Tav è nociva”) siano dirette a incidere sull’ordine pubblico…». «Quando il signor De Luca parla, le sue parole hanno un peso specifico rilevante, soprattutto sul movimento No Tav». «Se, come ha chiesto la difesa, avessimo trovato qualche riferimento diretto alle sue pubblicazioni per esempio nelle perquisizioni degli arrestati saremmo qui a celebrare un processo per concorso nei reati commessi».
Affermazioni e argomentazioni, da una parte e dall’altra che, accostate, potrebbero benissimo evocare certi dialoghi surreali, grotteschi, kafkiani.
Da una parte, dunque, c’è uno scrittore che difende la libertà della parola, la sua irriducibilità, meno che mai entro griglie giudiziarie. Dall’altra c’è la legge che segue una logica ferrea conseguenziale tra parole e azioni.
Chi scrive non condivide i metodi di una parte del movimento No Tav, e ne condivide solo in parte le ragioni, come non sottoscriverebbe le dichiarazioni rilasciate da Erri De Luca all’«Huffington Post» nel settembre del 2013, ma questo poco importa.
Quel che importa invece è la natura dell’accusa rivolta a Erri De Luca in quanto scrittore e poeta, perché, a quanto pare, se a pronunciarle fosse stato il «barbiere di Bussoleno» sarebbero state perdonate, come sono perdonate quotidianamente parole di violenza inaudita (come «e ora mandiamo le ruspe sui campi» o «sparare ai barconi»)e feroce,non solo perché rivolte contro i più indifesi ma anche perché pronunciate a fini propagandistici, per ottenere e alimentare consenso, non per creare scandalo,dissenso, e spesso immense solitudini, come è sempre accaduto alle parole scomode di poeti, scrittori e spiriti liberi.
Eppure non ci vorrebbe molto a comprendere un paio di considerazioni fatte da una delle menti più lucide del nostro Novecento, Hannah Arendt, quando dice che: «La violenza è muta», che «la violenza comincia laddove il discorso finisce», quando spiega che: «Il declino delle nazioni comincia con il venir meno della legalità, o perché vi è un abuso delle leggi da parte del governo in carica o perché viene messa in dubbio o contestata l’autorità della loro fonte».
Perché è proprio questo il punto. Il «discorso» in Val di Susa è finito, o si è fatto di tutto per farlo tacere, nel momento stesso in cui dinanzi a una comunità che (a torto o a ragione) si difende, come ha spiegato il sociologo Marco Revelli, e si difende pacificamente, con marce, fiaccolate, presìdi, con una resistenza passiva, dunque, che coinvolge intere comunità montane di migliaia di persone, con in testa i sindaci,il governo nazionale risponde con ottusità, violenza: imponenti dispiegamenti di forze dell’ordine, ruspe, lacrimogeni… O con la logica dei contentini: un tavolo di confronto come L’Osservatorio presieduto da chi ha tutto l’interesse a difendere le ragioni delle aziende coinvolte a vario titolo nel progetto, escludendo la maggior parte dei sindaci No Tav.
Il «discorso è finito», come sempre finisce – e come dimostra il prevalere a un certo punto di azioni violente antecedenti oltretutto le parole di De Luca (cui dunque si dovrebbe attribuire il dono di una forza di persuasione retroattiva …) –, quando la politica non è più in grado di comprendere le ragioni di intere realtà, non ha più l’autorevolezza per chiedere fiducia, persuadere, e dunque fa ricorso alla forza.
Certo che fa paura la parola di Erri De Luca, e non perché letteralmente istigatrice di atti violenti, ma perché la difesa di posizioni No Tav espressa da un intellettuale dà peso specifico, rilevanza, riporta sul piano del «discorso»posizioni che si vorrebbero liquidare semplicemente come forme di eversione, come espressione di quattro teste calde armate di cesoie, pietre o molotov… E questo, mentre i fatti sinora accaduti inchiodano la politica alle proprie responsabilità, alla scelta di una linea repressiva del tutto ottusa in un contesto come quello delle proteste della Val di Susa.
La colpa dunque di Erri De Luca è di riaver aperto un varco al «discorso», per quanto duro, oppositivo, e a suo modo scandaloso. E condannare uno scrittore per le sue parole e, in particolare, per «il peso specifico rilevante delle sue parole» significa, di fatto, dare ragione a chi non crede più nelle parole, ma crede piuttosto nel sabotaggio muto delle azioni violente.
Non ritengo che in questa vicenda ci sia soltanto in gioco la libertà di espressione. Qui c’è in gioco qualcosa che ha a che vedere con la natura di questo Paese, i confini del diritto e dell’espressione del dissenso,confini troppe volte impunemente violati, e con violenza inaudita proprio da parte delle istituzioni e delle forze dell’ordine.Qui c’è in ballo qualcosa che ha a che vedere, ancora una volta, con la verifica su che razza di Paese è quello in cui ci troviamo.
Ed è sintomatico il fatto che il pm Rinaudo abbia evocato a difesa delle proprie ragioni il serpente istigatore dell’Antico Testamento, non tenendo conto, o tenendo ben conto, del fatto che lì la Legge che s’istigava a violare era una Legge divina, assoluta, insindacabile, brutale, no la legge di uno stato di diritto.
«Comunque vada il caso giudiziario, ho potuto spiegare le mie ragioni», dice Erri De Luca. E basterebbe solo questa frase per comprendere la dimensione abnorme, assurda, se non grottesca, di questo processo a parole che possono suscitare un forte dissenso, ma attengono a quell’ordine del «discorso» che segna sempre il confine tra la civiltà e la violenza muta.

A PALERMO IL FESTIVAL DELLE LETTERATURE MIGRANTI



Ecco il programma:  http://www.festivaletteraturemigranti.it/programma/

Come potete vedere, giovedì 8 ottobre p.v. alle ore 18, nell' Aula Chiazzese della Facoltà di Giurisprudenza dell' Università di Palermo, interverremo anche noi per ricordare Stefano Vilardo e     l' emigrazione siciliana nel mondo.
fv

29 settembre 2015

RILEGGIAMO ELIOT

















Una nuova lettura del capolavoro di Eliot colloca "La terra desolata" tra le grandi opere letterarie nate in risposta alla immane carneficina della prima guerra mondiale.

Renzo S. Crivelli

La guerra desolata



Una specifica chiave di lettura della Waste Land, non particolarmente esaminata dalla critica del Novecento, riguarda il suo collegamento diretto con la tragedia della prima guerra mondiale. In primo luogo perché questo poemetto viene scritto quasi due anni dopo la sua fine ed è pubblicato quattro anni dopo. In secondo luogo perché si è andata sempre più consolidando l’idea di una sostanziale “estraneità” del poeta ai fatti diretti della carneficina.

Certo, non partecipò di persona né fu sulle trincee, come invece avevano fatto tanti poeti inglesi, semplicemente perché cittadino americano fino al 1927. I cosiddetti War Poets – da Rupert Brooke a Siegfried Sassoon, da Isaac Rosenberg a Wilfred Owen – ci hanno lasciato memorabili opere dal forte realismo descrittivo, così come altri americani – da Ernest Hemingway a Edward Eastlin Cummings – hanno consegnato alla letteratura pagine toccanti, spesso denunciando l’assurdità della morte nelle trincee (basti pensare a A Farewell to Arms e The Enormous Room).

Più recentemente è emersa una nuova percezione dello stretto rapporto intercorso fra Eliot e la grande guerra. Innanzi tutto va detto che la parte finale della poesia in francese Dans le Restaurant, collocabile intorno al 1914, contiene un’allusione alla figura di Phlebas che verrà recuperata nella IV sezione della Waste Land. Da qui il collegamento tra “durante” e “dopo”, nel quadro immaginifico ed emotivo del poeta, che può indicarci come e perché la Waste Land può essere considerata un poemetto “sulla” guerra. A significare che il “quadro” immaginifico almeno di una sezione (la IV intitolata Death by Water), trae le sue origini da eventi contemporanei al massacro degli eserciti in Europa.



Certo, quando la guerra scoppia, Eliot si trova in Inghilterra con una borsa di studio per il Merton College di Oxford, e sta scrivendo la sua tesi di dottorato sulla filosofia di F.H. Bradley. Ma il suo status è quello di «americano non belligerante», e il suo coinvolgimento più diretto si manifesterà solo quando, ultimata la tesi nel 1916, non se la sentirà di oltrepassare l’Oceano su una nave passeggeri per andare a Harvard a discuterla, specie dopo la tragedia del siluramento del Lusitania ad opera di un U-Boote tedesco.

Inoltre, se vogliamo cercare un riscontro con i War Poets, va detto che Eliot non ha una particolare considerazione per la poesia delle trincee. La considera dettata essenzialmente da uno stato emotivo immediato e spaventoso. Questa sua opinione – fortemente discutibile – sarà, molti anni dopo, espressa in uno dei suoi Occasional Verses, intitolato A Note on War Poetry. Scritta nel 1942, quando vive – in questo caso sì – la seconda guerra mondiale sulla sua pelle svolgendo la mansione di “avvisatore bellico” sui tetti di una Londra devastata dalle micidiali V1 e V2 tedesche, questa poesia espone molto bene il suo punto di vista sulla testimonianza diretta dei combattimenti: «Sembra proprio possibile che una poesia possa scaturire / da una persona molto giovane: ma una poesia non è poesia – / la poesia è una vita. // La guerra non è una vita: è una situazione, / qualcosa che non può essere né ignorata né accettata, / un problema da affrontare con agguati e stratagemmi, / circoscritti o sparsi»).

Per Eliot un War Poet non è necessariamente un poeta; può scrivere cose intense, legate allo stato di eccezionale tensione nel momento in cui sta rischiando la vita, ma non per questo il risultato è sempre accettabile sul piano qualitativo. Una specie di reazione, questa, al concetto critico-interpretativo per cui «sono i grandi temi a fare grande la letteratura» (da Guerra e pace in poi…).

Stimolato da Miss Storm Jameson, curatrice di un volume sul contributo americano alla seconda guerra mondiale, a fornire il suo parere sulla poesia che “rende” emotivamente l’immediatezza dell’angoscia di morte sotto la pressione bellica, Eliot entra nel dibattito sulla “plausibilità” della poesia militante (erano in molti, infatti, a chiedersi se la war poetry fosse vera poesia e potesse essere fruita con la stessa valenza coinvolgente da persone che non avevano vissuto la tragica esperienza dell’autore). Egli ritiene pertanto che per guerra si intenda solo la guerra, e che essa non possa sostituire la vita.

Così come una poesia occasionale non può prendere il posto di uno status poetico permanente («Ciò che è durevole non può sostituirsi al transitorio»). Questa potrebbe essere la ragione per cui nella produzione poetica del primo periodo non figura nessun componimento direttamente collegato alla guerra. La vera poesia risiede per lui in una consapevolezza molto più duratura dei problemi legati allo stato esistenziale; e ciò deve avvenire in una prospettiva ben più vasta di quella di un conflitto, quand’anche “mondiale”.



Ma è un fatto che, come la critica comincia a riconoscergli, Eliot ha voluto “scrivere” nella Waste Land la guerra a posteriori, trasformando i suoi versi da “occasionali” a universali – e permanenti – attraverso gli effetti morali e politici della sua tragedia. Egli, dunque, sceglie di osservare non più il contingente, assoggettato all’effimero, ma la sua lunga proiezione nel tempo. La “terra desolata”, infatti, è quella di un’Europa che ha abdicato alla propria dignità umana, iniziando il suo decadimento.

Eliot, pertanto, sia per certe sue ambiguità iniziali e per l’alta levatura della sua poesia, sia – vieppiù – per il grande affresco che ha saputo darci della rinuncia ai valori dell’Europa bellica e post-bellica, può essere sicuramente considerato come il principale spartiacque tra, da una parte, gli intellettuali detrattori della “bellezza della guerra” e, dall’altra, gli “indifferenti” scarsamente coinvolti dalla retorica della propaganda militarista del tempo.

Il suo atteggiamento nei confronti del primo conflitto mondiale, infatti, appare tanto sottotono durante gli anni della carneficina quanto impegnato alla fine delle ostilità; e volto a una riconsiderazione dei colossali guasti morali che la carneficina ha prodotto nelle nuove generazioni (non escludendo la sorte drammatica dei sopravvissuti).



Il Sole 24Ore - 27 settembre 2015


GALLI DELLA LOGGIA, DESTRA E SINISTRA OGGI





Un intervento interessante sull'attuale situazione politica italiana che afferma un concetto fondamentale: la differenza fra destra e sinistra (che molti oggi considerano superata ) sta non tanto in ciò che si fa, ma nel modo in cui lo si fa. Ad esempio, si chiede Galli della Loggia, esiste un solo e unico modo di mettere o non mettere una tassa sulla casa o di decidere un piano di investimenti pubblici? La differenza, conclude, sta nelle idee da cui si parte. Concordiamo totalmente.

Ernesto Galli della Loggia

L’ambigua ricerca delle élite



La corsa dei parlamentari di destra e di centro ad abbandonare i loro schieramenti per andare a sinistra riproduce più o meno quanto sta avvenendo nella società italiana. È ormai da qualche tempo, infatti, che salvo rare eccezioni i vertici che contano, gli organismi significativi, tutte le voci influenti, vanno orientandosi in una sola direzione: quella di Matteo Renzi, o, se si può dir così, del renzismo. Non già verso il Pd, tanto meno verso la sinistra: verso il presidente del Consiglio. Si tratta di una rilevante differenza rispetto al passato più recente; anche se in qualche modo essa segna il ritorno a un modello antico della nostra storia nazionale.

Dagli anni Ottanta in poi, un generico orientamento verso il centrosinistra, infatti, è stato sempre più largamente maggioritario nell’élite italiana. Il fenomeno era già evidentissimo nell’ultima fase della Prima Repubblica, sicché, divenuto il Pd l’erede di fatto di tutto quel sistema ideologico-partitico, nulla di più logico che fosse poi esso ad attrarre le maggiori simpatie. 

Simpatie che tuttavia si sono trovate a dover fare regolarmente i conti con le incertezze ideologiche e le nebulosità programmatiche di una base — esemplarmente rappresentata da un leader come Massimo D’Alema — immobilizzata tra nostalgie della «Ditta» e velleità di un mai meglio precisato «aggiornamento». Dall’altro canto, specie dopo la comparsa di Berlusconi, l’affiliazione al centrodestra dell’élite italiana non è stata certo insignificante.

Ma dal punto di vista dell’élite, alquanto circoscritta, direi: in pratica limitata agli ambienti economici e degli affari coinvolti nella sfera degli appalti e dei contratti pubblici, alle pur vaste cerchie interessate alle migliaia di nomine istituzionali, nonché a un certo mondo alto-burocratico. Per il resto sporadici fenomeni sostanzialmente di opportunismo, ma nulla di più.

Renzi ha rotto questo schema. Mandato in soffitta il vecchio Pd e alzando l’insegna «Le cose da fare in questo Paese non sono né di destra né di sinistra, sono da fare e basta», egli sta rapidamente riunendo intorno alla propria persona tutta l’Italia del potere, tutta l’Italia che conta, proveniente dall’una o dall’altra precedente affiliazione.

È il ritorno all’antico di cui dicevo sopra. La grande stabilizzazione politica italiana ha sempre funzionato in questo modo, infatti: intorno a un uomo, non intorno a un partito. E in primo luogo agglutinando intorno a quella persona la grande maggioranza dell’élite. Fu così fin dall’inizio con Cavour, poi con Crispi e Giolitti. E come il potere italiano fu assai più che fascista mussoliniano, così in seguito non fu certo democristiano bensì degasperiano, per concedere poi la propria fiducia ai due soli veri leader che la Dc ebbe dopo di lui, Fanfani e Andreotti. Ci provò a suo tempo anche Craxi, riuscendovi solo pochissimo e per brevissimo tempo. Berlusconi non c’ha neppure provato.

È un fatto, mi pare, che nella nostra storia la classe dirigente, pur intrattenendo per antica tradizione un fortissimo rapporto con la politica, si è mostrata nel complesso quasi per nulla interessata, invece, a un qualsiasi rapporto con i partiti. Pronta ad appoggiarne i capi, ma anche a rapidamente abbandonarli. Forse neppure la «Repubblica dei partiti» è mai stata realmente la Repubblica delle élite italiane: le quali infatti l’hanno lasciata colare a picco senza muovere un dito. Tutto sta a indicare, insomma, che specialmente per le classi dirigenti di questo Paese è stato sempre più facile trovare un raccordo stabile e fisiologico con la politica rappresentata da una persona piuttosto che da un partito.



«Ma che male c’è?», si obietta; «Se le cose da fare non sono né di destra né di sinistra, non basta che ci sia una persona che le voglia e le sappia fare?». Questa obiezione esprime uno stato d’animo diffuso, dovuto all’immobilismo che da anni soffoca l’Italia, alla sensazione che in questo Paese da anni nulla si muova, e che tutto ciò ci stia uccidendo. È lo stato d’animo che gioca a favore dell’attivismo del nostro giovane presidente del Consiglio, giustificando il consenso personale che egli raccoglie. Ma le cose non sono così semplici come possono apparire.

Innanzi tutto, perché anche ammesso che le cose da fare non abbiano alcun colore partitico particolare, è difficile immaginare, però, che un tal colore non ce l’abbia neppure il modo di farle. Che per esempio vi sia un solo e unico modo di mettere o non mettere una tassa sulla casa o di decidere un piano di investimenti pubblici, che una riforma scolastica o una politica circa l’immigrazione concepite dalla destra siano eguali a quelle concepite dalla sinistra.

Le idee, insomma, fanno pur sempre la differenza. E quando si dice idee, si dice contenuti concreti, scale di valori, priorità, obiettivi: tutte cose che fino a prova contraria non solo in politica ma nella vita di una collettività contano. E che dividono, che giustamente, fisiologicamente, dividono. Si chiama democrazia: nella quale, per l’appunto, contano sì gli uomini, conta sì la capacità di comando e di realizzazione di un leader, ma dovrebbero necessariamente contare anche le idee.

Nel formarsi di un vasto seguito personale intorno a un capo non c’è nulla di male. Proprio la democrazia ha bisogno di leadership forti, e ne ha bisogno in modo particolare oggi l’Italia. È piuttosto la rapidità e l’unanimismo con cui un tal seguito si sta formando intorno a Renzi nelle aule del Parlamento e fuori, che suscita qualche perplessità.

Se nel primo caso si tratta palesemente della non molto nobile speranza di salire sul carro del vincitore, e al momento giusto di trovare un posticino nelle liste elettorali, nel secondo sono soprattutto le élite del potere italiano che cercano un’interlocuzione politica autorevole e utile, il potere di governo di segno forte, con cui mettersi in sintonia, dal quale ispirarsi e da ispirare. Ma con quale obiettivo, per quale fine? E vogliono davvero tutte la medesima cosa e nel medesimo modo?

Nell’assenza di qualunque risposta, resta l’impressione di una sostanziale indifferenza rispetto ai contenuti: sulla quale l’evanescenza di ogni visione generale in cui ormai vive l’intero Paese, a cominciare proprio dalla politica, non manca di gettare una luce inevitabilmente ambigua.


Il Corriere della sera - 27 settembre 2015

DE PISIS A PARIGI




Il pennello di Filippo de Pisis, tra i Venti e i Trenta, ci rivela una Parigi vorticosa ma non alla Baudelaire, intima ma non proustiana. Il suo «impressionismo» si nutre di occasioni di strada. Lo spinge a Parigi il desiderio di aggiornarsi su una situazione stimolante, sospesa tra le avanguardie cubista e surrealista e il «rappel à l’ordre». Il marchesino pittore risale agli impressionisti e ai fauves per cambiare maniera sotto il segno della luce colorata e dell’attimo esistenziale.

Giulia Toso

De Pisis a Parigi. Non più metallico ma sfarfallante

È solo il 16 ottobre 1920 quando Filippo de Pisis, ancora a Ferrara e in procinto di spostarsi a Roma, scrive in una lettera a Primo Conti «Io presto andrò a Parigi. Tu dovresti venire con me. Io ti insegnerei a vivere un poco (ne possiedo l’arte)». La realizzazione del progetto avviene però effettivamente solo nel marzo 1925, probabilmente incoraggiato dall’avvenuto approdo a Parigi dell’amico De Chirico nel 1924 e da una serie di lettere di presentazione che gli vengono procurate prima della partenza (tra queste quelle per Roger Cornaz, Salomon Reinach e Louis Dimier). 

Giunto a Parigi, de Pisis trova alloggio all’Hotel Espèria al 149 di Avenue de Suffren, ma dal 1926 al 1929 si sposta ininterrottamente, spinto probabilmente dalla frenetica insoddisfazione che lo contraddistingueva e dalla continua ricerca di uno spazio personale intimo, passando da Rue St. Sulpice a Rue de Verneuil, dal 30 di Rue Bonaparte (appartamento occupato anche da De Chirico e Sciltian), all’Hotel Notre Dame presso St. Michel, per trovare pace infine al 7 di Rue Servandoni nel 1929, in quel luogo che l’artista amava chiamare «il mio granaio».

«C’era tutto, da Baudelaire al café crème; c’era quel lieve sentore, che non è puzzo e non è odore: e lo studio di De Pisis, ne pareva la sintesi, o piuttosto il rebus, la cui soluzione finale, attraverso stracci, bastoni, fiori secchi dava: Parigi». (Cesare Brandi, 1932). 



I motivi che spinsero de Pisis al trasferimento parigino sono senz’altro da identificare in quella necessità di aggiornamento che il mestiere di pittore, da poco intrapreso, necessitava e che la capitale francese poteva certamente offrire: guarita dalle ferite della Grande Guerra, Parigi era diventata il centro nevralgico dell’attività artistica e culturale, gli intellettuali vi convogliavano da tutte le parti del mondo a tentare la curiosità e la sete inesausta di novità; boulevards colmi di folla, caffè impenetrabili, vetrine sfavillanti, musica, eventi mondani ed esposizioni; rue La Boétie divenne il centro delle grandi gallerie, rue de Seine e rue Bonaparte ospitavano le più piccole, il quartiere di Montparnasse era la meta più ambita dagli artisti. 

Così come de Pisis e De Chirico, approdano a Parigi altri pittori italiani, tra i quali Alberto Savinio, Mario Tozzi, Gino Severini, Massimo Campigli e Renè Paresce; con de Pisis, dal 1928 al 1933, si raccolgono sotto l’insegna di «Les Italiens de Paris», fiancheggiati dal giornalista e critico d’arte Waldemar George, in nome di quel rappel à l’ordre che era possibile individuare anche in Italia e che contrastava l’avanguardia cubista e il surrealismo. 

De Pisis si perde nelle vie di Parigi, studia i francesi dell’Ottocento al Louvre, vede Poussin, scopre Manet, Vlaminck, Rouault e l’Impressionismo, la sua pittura si discosta gradualmente dall’impostazione metafisica che contraddistingueva la precedente produzione, facendosi più sfarfallante di luce e di colore; le pennellate diventano frenetiche e inquiete, la tavolozza vibrante, l’esecuzione fulminea. Come scrive Giovanni Cavicchioli nella monografia del 1932: «Quasi tutti i suoi quadri nascono così, improvvisati dall’urgenza, dalla difficoltà, dall’estasi e dal capriccio». 



L’attività pittorica di de Pisis si svolge a Parigi sia nello spazio intimo del proprio atelier, luogo di ossessioni e di eros, dove amava invitare ragazzi di strada incontrati di notte sui boulevards e fatti posare nudi, oppure en plain air, immerso nel traffico brulicante della capitale francese: attratto dai Lungosenna e da strette prospettive di case, la Tour Eiffel, Notre Dame, Place de la Concorde, Place Vendôme, il Pantheon, les Invalides scorciati e accavallati sfumano in composizioni vibranti. Scopre inoltre l’umanità varia della metropoli (emigranti, ragazzi di vita, operai, vecchi, clochard) da cui sviluppa una serie di ritratti di tipi corrispondenti a una determinata categoria sociale, che da un lato denunciano lo stato degradato del soggetto e contemporaneamente lo nobilitano. 

Nonostante le prime difficoltà economiche, a cui l’artista cerca di far fronte con piccoli lavori alla Sorbonne e visite guidate ai musei, Parigi diventa per de Pisis luogo di successo: la prima esposizione avviene già nel giugno 1925 presso la Galerie Carmine, in Rue de Seine, e una personale presentata da De Chirico viene inaugurata nella primavera del 1936 alla Galerie Au Sacre Printemps. Dopo l’ esordio al Salon de l’Escalier del 1928 con «Les Italien de Paris», le esposizioni del gruppo si moltiplicano; le vendite di dipinti incrementano, de Pisis espone in diverse gallerie parigine (Galerie de Quatre Chemin, Galerie Bonjean, Galerie Jeune Europe, per citarne solo alcune) mantenendo pur sempre uno stretto legame con galleristi italiani come Gaspare Gussoni e Vittorio Emanuele Barbaroux. 



Perennemente in contatto con l’ambiente culturale italiano, a Parigi l’artista intrattiene rapporti anche con scrittori come Massimo Bontempelli, Aldo Palazzeschi, Marino Moretti, con critici d’arte tra cui Margherita Sarfatti, Mario Broglio e Gualtieri di San Lazzaro, galleristi come Antonio Aniante, storici dell’arte come Lionello Venturi e Cesare Brandi, spesso anche gradite compagnie per il thé nel proprio atelier, per un rendez-vous al Caffè Les Deux Magots, per dîner «chez Albert».

Nonostante la malinconia per i cieli azzurri d’Italia, il trasporto con cui de Pisis vive la propria esperienza nella città che lo ospiterà fino al rientro in Italia nel 1939, è testimoniato dalle seguenti parole di Giovanni Comisso del 1927: «In quei giorni mi diede una presentazione di Parigi, come Mefistofele a Faust della festa nella notte di Valpurga.

Passammo dai caffè di Montparnasse ai loschi ritrovi di Montmartre e della Bastiglia, dove egli avvicinava gente di ogni specie e parlava con tutti come se fosse conosciuto da anni. Quando ci lasciammo promisi a lui e a me stesso che sarei andato a stabilirmi a Parigi quanto prima, per vivere con lui di quella selvaggia e satanica libertà». 


Il Manifesto – 23 agosto 2015

28 settembre 2015

B. BARDOT, Plaisir d' amour...



In questo blog abbiamo dedicato altri pezzi alla mitica BRIGITTE. Per tutti vi invitiamo a rileggere questo: http://cesim-marineo.blogspot.it/2013/06/brigitte-bardot-un-mito-daltri-tempi.html?q=B.+Bardot



27 settembre 2015

IL SOGNO AMERICANO DI F. SINATRA





Mostre, concerti, proiezioni, dischi, dibattiti e anche una bottiglia di bourbon. Negli Usa molte le iniziative per ricordare «The Voice» a un secolo dalla nascita.

Vilmo Modoni

Frank Sinatra. Il sogno americano a “modo suo”

Se fosse ancora vivo Francis Albert Sinatra sarebbe sulla soglia dei cent'anni. Era infatti nato il 12 dicembre 1915 a Hoboken, in New Jersey, piccolo centro tanto vicino in linea d'aria a Manhattan quanto lontano dalla Grande Mela in termini di opportunità e cose da fare. 

Era figlio di immigrati italiani: il padre Antonio, siciliano, aveva tirato di boxe con lo pseudonimo di Marty O'Brien e serviva nel locale corpo dei vigili del fuoco; la madre, Natalina Garaventa, originaria dell'entroterra ligure, procurava aborti clandestini ed era militante attiva del partito democratico. 

Quest'anno l'America sta rendendo omaggio con diverse iniziative al centenario di colui che Bruce Springsteen ha definito «un simbolo riconoscibile come la Statua della Libertà. Era il ventesimo secolo, era moderno e complesso, aveva swing e una personalità inquieta. La sua voce esprimeva un bisogno ribaldo di libertà e la triste consapevolezza di come va il mondo». 

Il Boss non è l'unico musicista apparentemente lontano anni luce dal suono e dallo stile di Sinatra a rendergli onore. Bob Dylan ha di recente pubblicato un album, Shadows in the Night, con diverse cover di The Voice (il soprannome più noto di Sinatra) e il suo produttore Daniel Lanois ha rivelato che ne avrebbe già inciso anche un secondo, finora inedito. Oltre agli inchini dei musicisti venuti dopo di lui, la lista delle celebrazioni è davvero notevole. 

Un'esposizione di foto alla Morrison Hotel Gallery e tre show speciali al Lincoln Center di New York, la proiezione dei suoi film al Tribeca Film Festival di Robert De Niro, un documentario sulla rete Hbo. E poi programmi radio su Sirius Xm, diversi dibattiti durante tutto l'anno (dall'università di Yale fino al convegno di dicembre al festival Sxsw di Austin) e un grande spettacolo celebrativo chiamato Frank Sinatra 100. 

Non mancano neppure edizioni di cd targati Capitol, Universal e Sony, mentre la Warner ha messo in cantiere edizioni commemorative dei suoi film. Puntuale anche l'omaggio di una famosa casa produttrice di whisky, considerato come Frank ne fosse appassionato e devoto consumatore e sostenitore (ebbe a dire: «Non ignoro il bisogno di fede dell'uomo: sono per qualunque cosa ti permetta di passare bene la notte, siano preghiere, tranquillanti o una bottiglia di Jack Daniels»). La distilleria di Lynchburg ha messo sul mercato una bottiglia griffata che lo ricorda, il «Jack Daniel's Sinatra Select».



Tra i molti eventi commemorativi merita un cenno particolare la mostra appena conclusasi alla New York Public Library for the Performing Arts e che sembra possa avere un seguito itinerante (e chissà che non si riesca a vederla anche dalle nostre parti), hanno partecipato le figlie Nancy e Tina che hanno messo a disposizione cimeli inediti di ogni genere: foto mai viste, lettere rare, effetti personali, i quadri che dipingeva per rilassarsi e non vendeva mai. 

C'è pure l'angolo per fare un duetto virtuale con The Voice. Naturalmente è un'esibizione agiografica, dove si decanta a pieni polmoni il buono e si tacciono i difetti. Si esaltano ad esempio le sue prese di posizione contro il razzismo («Credetemi, ne so qualcosa di intolleranza razziale. A undici anni fui chiamato "sporco italiano" a casa mia, nel New Jersey») o l'antisemitismo, come la creazione del Tamarisk Country Club perché tutti gli altri campi da golf escludevano ebrei e neri e lui allora rifiutava di frequentarli. 

Ma non si trova neppure una delle oltre 1.200 pagine di dossier che l'Fbi ha raccolto sui suoi rapporti con la mafia, spiandolo per oltre quarant'anni (indagini che liquidava così: «I mafiosi? Niente a che fare. Solo ciao e arrivederci»). E non si scopre neppure se Frank è davvero il padre di Ronan Farrow, come tempo fa la madre Mia ha lasciato intendere senza peraltro fornirne prova. E, girando per le sale della mostra, non è dato capire i motivi di alcune delle contraddizioni più eclatanti di Ol' Blue Eyes (altro soprannome di Frank). 

Non si capisce, ad esempio, perchè abbia finito la vita da cattolico praticante e devoto, dopo aver detto di credere «nella Natura» come un figlio dei fiori panteista. O come mai, dopo essere stato come la madre un convinto sostenitore dei democratici (durante una convention del partito John Kennedy gli rese omaggio così: «So che abbiamo un debito con il nostro grande amico Frank Sinatra. Prima ancora di cantare, raccoglieva voti per i democratici in un distretto elettorale del New Jersey. E quando smetterà di cantare, continuerà a parlare in favore del partito democratico, e io lo ringrazio a nome di tutti i presenti») abbia finito per appoggiare Ronald Reagan. 

Poco importa. L'America è genuflessa di fronte a Sinatra. Ol' Blue Eyes è un'icona, forse anche per tutti i difetti che incarnava, e così lo trattano dalla costa atlantica al Pacifico. Tanto che Sinatra non ha certo bisogno delle celebrazioni del centenario per essere ben presente nella coscienza collettiva statunitense e, perché no, di tutto il mondo. I suoi dischi continuano a essere venduti, a oggi siamo attorno ai 150 milioni di copie, e anche i media moderni registrano la sua strabordante presenza: un video di My Way su YouTube ha registrato trentasette milioni di visualizzazioni. The Voice non è solo ben presente e radicato nella memoria popolare, ma viene pure apprezzato dalla critica colta. 

Tempo fa il mensile inglese di musica classica Gramophone è giunto a paragonare le sue canzoni, per la qualità dell'interpretazione, a dei veri e propri Lieder, composizioni per voce solista e pianoforte che ebbero come autori maestri come Schubert o Brahms. Non male per un cantante autodidatta che asseriva di essere l'unico ad aver preso lezioni di canto da un trombone: «Quello che più mi ha influenzato è stato il modo in cui Tommy Dorsey suonava il trombone. Volevo assolutamente che la mia voce funzionasse proprio come un trombone o un violino; non volevo certo che il suono fosse lo stesso, ma volevo modulare la voce come quegli strumenti». 



E oltre a Dorsey (nella cui big band aveva militato attorno al 1940, definendola poi con rispetto «la General Motors delle big band americane»), Sinatra aveva cercato di carpire i segreti di Bing Crosby (la cura per le tecniche di registrazione, l'approccio al microfono, il morbido cantato), delle linee melodiche di Louis Armstrong, del tono musicale arioso e sfuggente del sassofonista Lester Young, del modo in cui alcuni musicisti jazz possono far sentire una melodia come qualcosa di incredibilmente fragile e al contempo infrangibile. Altra grande influenza fu Billie Holiday e, sorpresa, Sinatra venne anche ispirato dal violinista classico Jascha Heifetz: «Fui sempre attratto dal suo suono, che pareva non interrompersi mai». 

Tante influenze insomma, anche molto diverse tra loro, che avevano reso Frank capace di modulare la voce da baritono alto a tenore, assicurandogli grande maestria nel dare significato alla frase che cantava con pause e furiose accelerazioni. In questo 2015 dedicato a Sinatra si discuterà di questo e di molto altro ancora e probabilmente non mancheranno neppure le voci critiche. Ma la percezione è che Frank ne uscirà alla grande. Ha incarnato il sogno americano, le speranze del dopoguerra, le contraddizioni e i pregi della sua generazione, i limiti di un cantante autodidatta. Che però, alla resa dei conti, con la sua voce ha convinto tutti. 


Il Manifesto – 5 settembre 2015

LA DISPERATA FELICITA' DELLA BEAT GENERATION


Allen Gisnberg e Peter Orlovsky

Allen Ginsberg e Jack Kerouac, Tangeri e Calcutta, marijuana e codeina. Nei diari di Peter Orlovsky, pubblicati ora in America, i viaggi psichedelici degli ultimi poeti.

Le estati tossiche della Beat Generation

Guido Andruetto

La disperata felicità di un figlio dei fiori

Il viaggio come “ altra” dimensione, come stato alterato di coscienza. Nei vagabondaggi estivi in giro per il mondo, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, i poeti nomadi della Beat Generation sperimentarono meglio che in qualunque altra situazione quanto fosse sconvolgente aprire le porte della percezione ed esplorare territori nuovi della mente attraverso le sostanze stupefacenti. 

In quelle leggendarie peregrinazioni psicoattive, luoghi già carichi di fascino mistico e di sognante bellezza, come Tangeri, Calcutta, Venezia o Istanbul, diventavano così il teatro di processi di espansione psichedelica della coscienza sotto gli effetti dell’oppio, dell’eroina, della marijuana, del peyote o di altri allucinogeni come l’Lsd.

Una nuova testimonianza in tal senso è rappresentata da un’ampia raccolta di lettere e diari di Peter Orlovsky, poeta beat e compagno di vita di Allen Ginsberg, che la casa editrice Paradigm Publishers di Boulder, Colorado, ha pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti con il titolo “Peter Orlovsky, a life in words: intimate chronicles of a beat writer”. 



Orlovsky, scomparso nel 2010 a settantasei anni per un cancro ai polmoni, «è stato il cuore segreto dei Beats», come ha scritto Patti Smith, e nella sua corsa disperata e gioiosa di autentico figlio dei fiori verso un altrove costantemente anelato, ebbe per compagni, oltre a Ginsberg, Jack Kerouac (che si ispirò a lui per il personaggio di Simon Darlovsky in “Angeli di desolazione”), Neal Cassady, Gregory Corso, William Burroughs, di cui fu anche amante, e poi Lawrence Ferlinghetti, Paul Bowles, Alan Ansen, Gary Snyder, Leroi Jones, Ed Freeman e Diane di Prima.


Poeta buddista, maestro del sesso bruciante di amore e poesia, nelle pagine dei suoi diari e nelle lettere indirizzate in particolare alla madre Kate, alla sorella Marie, al fratello Lafcadio e all’adorato Ginsberg, Orlovsky racconta senza freni l’immersione tossica durante i suoi viaggi in cui era spesso accompagnato da personaggi simbolo del gruppo dei beat come Corso e Burroughs. 

Tra frammenti sparsi di letture di Arthur Rimbaud, Franz Kafka e Dorothy Parker, le giornate disordinate e odoranti di vita di Orlovsky e degli altri beat lontano dagli Stati Uniti, si rivelarono un terreno fertile per fare sbocciare visioni e storie concimate con la mescalina, la ganja e la morfina. Nutrimenti chimici che alimenteranno il mito della Beat Generation e degli psiconauti degli anni Sessanta.

    Con Ginsberg e Bob Dylan al Village

VENEZIA, 22 LUGLIO 1957

Care Kate e Marie, Allen (Ginsberg, ndt ) ha ricevuto una lettera dal suo editore a San Francisco (Lawrence Ferlinghetti, ndt) e ha detto che Jack K. (Kerouac, ndt ) è andato a Città del Messico. Jack è separato da sua moglie, che ha un figlio da lui, ma non sono divorziati; lei sta cercando di ottenere gli alimenti, perciò lo cerca ma non riesce a trovarlo, non sapeva che fosse a San Francisco, pensava fosse a Tangeri. Gli ha spedito una lettera per dirgli che voleva divorziare e sposare un tizio portoricano. Ma non era veramente a questo che puntava, lei non vuole divorziare. Ha scritto la lettera con l’idea di scoprire il suo indirizzo e scatenargli contro la legge per avere gli alimenti. Quando la legge alla fine è arrivata a casa sua, a San Francisco, lui ha deciso di filarsela e se ne è andato a Città del Messico. È stato un vero peccato, perché stava proprio cominciando a darsi una calmata e a smettere di vivere una vita sregolata, on the road . Quanto a noi, qui a Venezia riusciamo a cavarcela con i 50$ fra tutti e due, è fantastico con quanto poco riusciamo a vivere, anche se non dobbiamo pagare affitto. Ma ora basta con Venezia, via a Firenze e poi a Roma per una settimana, forse andiamo a piedi, lasciamo le nostre borse qui. Sembra che a Venezia nessuno abbia tè (marijuana, ndt ) perciò niente problemi con gli sbirri.

(da una lettera di Peter Orlovsky a Kate e Marie Orlovsky)

    Con Jack Kerouac a Tangeri


TANGERI, 1 GIUGNO 1961

Bel casino di merda: noi tre che arriviamo da Marsiglia qui a Tangeri e non facciamo in tempo a sbarcare dalla nave che quegli stupidi impiegati marocchini addetti al controllo passaporti insieme ai funzionari dell’ambasciata americana ordinano a Gregory (Corso, ndt ) di tornare sulla nave che farà la prossima tappa a Casablanca — dove altri funzionari uguali a loro decideranno se Gregory può rimanere in Marocco ad aspettare il rinnovo del suo passaporto o se invece sarà rispedito a Marsiglia per essere messo in prigione finché il Dipartimento di Stato deciderà cosa fare con lui — che peccato. Pensavamo che saremmo stati felici tutti e tre — incontrare di nuovo B. B. (Bill Burroughs, ndt ) — ricordare cose dimenticate di Tangeri — com’erano certi angoli — scalinate piene di uomini barbuti e i caffè di Socco Chico e le cozze ammonticchiate sopra le balle, e il tè alla menta e la musica araba e le bocche senza denti— e ora nella mia stanza stanotte a farmi due buchi, e niente Gregory e niente Allen in viaggio verso Casablanca e verso i guai. (dal diario di Peter Orlovsky)

TANGERI, 13 LUGLIO 1961

Noi al Sun Beach, Tangeri — io, Ansen, Allen e Gregory — parlato molto di poesia — Gregory si ubriaca — comincia a dirmi quello che pensa — «Della tua poesia non me ne frega niente» — sapevo che la pensava così, ma non era mai stato così esplicito su quello che pensava. Io poi, circa cinque minuti più tardi, dopo che Gregory che era andato ad abbordare ragazze o a ordinare un altro giro di drink è tornato, ho detto ad Ansen che cosa mi aveva detto Corso, in una conversazione tra noi due, che non dovrei scrivere poesie o dipingere, ma fare qualcos’altro — per esempio giocare a baseball, nuotare, viaggiare — Allen ogni tanto diceva «non è vero» — Ansen ascoltava e non ricordo cosa ha commentato. Una ventina di minuti dopo erano ubriachi tutti e tre, Allen e Corso hanno preso a bisticciare perché Allen aveva detto che aveva aiutato Gregory a Parigi per venire qui, 8.000 franchi per il biglietto per Cannes da Parigi per noi tre — e aveva puntato 100 o 200 dollari al casinò di Cannes perdendoli, e Allen gli aveva dato 20 dollari per puntare di nuovo — e Gregory aveva cercato 7 volte di convincermi a dargli 10 dollari per scommettere e io avevo tenuto duro. Sento che Allen e Gregory sono un cancro strisciante per la mia anima.

(dal diario di Peter Orlovsky)




ISTANBUL, 15 AGOSTO 1961

Giornata divertente, preso pillole di becadina e quindi calma. Andato in giro fino a consolati per visti per altri posti Medio Oriente. Disegnato piazza accanto università e preso fumo inebriante. Incontrato ragazza americana, suona violoncello, abbordarla e scoparla? No — un’altra volta. Lavato i miei calzoni di tela e bevuto troppa soda. Dovrei studiare il mio spagnolo adesso. Codeina vuole solo che mi sdraio e dormo con sogni — mi sa sbagliato a prenderla — ma poi fantastica per sognare, ma non riuscito studiare spagnolo.

(dal diario di Peter Orlovsky)

CINA, 29 LUGLIO 1962

Il mio uomo della pipa è venuto, spero di potergli chiedere della Cina. Una minuscola giara con la calotta nera buona, aspiro tutto insieme in un respiro lungo minuzioso riempie il mio stomaco, occupa la mia gola. Dopo la terza comincia un formicolio rilassante in tutto il corpo come dopo venuto che ti accasci sopra lei. La pipa è fatta di bambù e bulbo, l’oppio a forma di ciambella viene asciugato, come stucco, e arrotolato, pressato. Più la pipa è vecchia migliore è l’effetto. Da un’altra finestra sull’altro lato del vicolo vedo una ragazza e i suoi capelli ciondolano mentre sta piegata sopra il balcone per vedere qualcosa — una capra che odora una vecchia scarpa di legno — una lampadina con uno straccio sopra — uno dei due cani si lamenta nel corridoio. Allen è entrato e sta tirando steso su un fianco.

    Ginsberg e Orlovsky


BENARES, 15 SETTEMBRE 1963

Caro Belly Allen love, sto uscendo da un sogno confuso di oppio-morfina — io bene — riletto la tua lettera ieri — avevo completamente dimenticato quello che diceva — sono felicissimo che mi hai scritto dicendo quello che hai detto, ti considero il mio divino Guru d’Amore, hai continuato a canticchiare belly-love nel mio orecchio, finché ho trovato il tuo significato — spalanca i tuoi cancelli di Blake. Poi ti ho telegrafato oggi perché il denaro voli a te.

( lettera di Peter Orlovsky a Allen Ginsberg)

(Traduzione di Fabio Galimberti)


la Repubblica – 6 settembre 2015