14 luglio 2017

DALLA FILOSOFIA ALL'ANTROPOLOGIA

Dal selvaggio al primitivo. Le origini dell'antropologia 

Alfonso M. Iacono


Circa quattro anni fa, Giuliano Gliozzi, in una relazione avente per oggetto il rapporto tra filosofia e antropologia nell’epoca moderna (pubblicata poi in "Rivista di Filosofia", n. 2,1986), indicò l’anno 1955 come data-simbolo di una svolta. In quell’anno, infatti, fu pubblicato il libro di Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici (traduzione italiana, Il Saggiatore, 1960). E con esso si avviò un’epoca di vasto successo dell’antropologia, che fino a allora era rimasta sostanzialmente ristretta nella cerchia degli specialisti, ma che ora cominciava a imporsi nell’attenzione di un pubblico più ampio, anche sull’onda dell’emergenza del Terzo Mondo e delle sue lotte di liberazione.
«I Tristi Tropici di Lévi-Strauss - rilevava Gliozzi - mostravano con evidenza e forte pregnanza letteraria l’ininterrotta continuità tra la scoperta del Nuovo Mondo e i problemi di un Terzo Mondo attanagliato tra una primitività che va scomparendo e una modernità che noi riesce a prenderne il posto. Mostravano specialmente che il primitivo che l’etnologo va oggi cercando nelle plaghe più nascoste è lo stesso che la conquista cominciò a distruggere nell’atto stesso di scoprirlo».
Il problema riproposto da Lévi-Strauss era quello di un ripensamento critico del modo in cui la cultura occidentale aveva presentato se stessa e aveva narrato a se stessa la sua storia. E questa era generalmente la storia della coscienza europea e occidentale, della sua origine e dei suoi sviluppi e progressi. Hegel, nelle Lezioni sulla filosofia della storia, aveva costruito il modello probabilmente più forte in tal senso. «Dal tempo in cui gli Europei sono approdati in America - affermava Hegel - gli indigeni sono scomparsi a poco a poco, al soffio dell’attività europea». Si doveva giustificare questa scomparsa come il prezzo necessario per l’autoaffermazione della coscienza europea e occidentale? In modo analogo si pensava che l’esistenza della schiavitù in Grecia fosse stato un prezzo storico da pagare per l’affermazione dell’idea di libertà, idea guida dell’ideologia occidentale.
Le riflessioni di Lévi-Strauss, ma soprattutto le vicende storico-politiche all’indomani della seconda guerra mondiale, cominciavano a far comprendere in modo ancora più drammaticamente chiaro come il processo di autoriflessione dell’Occidente non potesse essere interpretato in termini di continuismo. Le indagini e i contributi che seguirono sul piano della storiografia e della filosofia, cercarono di cogliere il fatto che le modificazioni culturali e ideologiche del pensiero moderno non furono soltanto il frutto di uno sviluppo della coscienza europea che, come per partenogenesi, si sarebbe arricchita, sia pure tra crisi e lunghe parentesi storiche, entro una linea ideale che proveniva dai Greci. Esse furono anche il frutto dell’emergenza di «fatti nuovi», prima fra tutti, ma non unica, la scoperta dell’America e dei suoi popoli.
Furono il risultato di una frattura concettuale, che già Sergio Landucci, in I filosofi e i selvaggi, (Laterza 1972), individuava tra il XVII e il XVIII secolo come risultato del tramonto dell’immagine dell’uomo di natura. Ed è nell’ambito dell’analisi di una frattura che si muove lo studio di Anthony Pagden, La caduta dell’uomo naturale. L’indiano d’America e le origini dell’etnologia comparata (Einaudi) che pubblicato nel 1982 dalla Cambridige University Press, è uscito recentemente nell’edizione italiana.
Come dice Pagden stesso, questo libro è un tentativo di spiegare quel grande cambiamento che si verificò nel pensiero e nella cultura occidentale, che «inizia con un fatto, la scoperta dell’uomo americano, e termina con una semplice proposizione: che per lo storico delle culture - il quale aveva ereditato dai teologi quel progetto che nel XIX secolo diventerà l’«antropologia» - le differenze spaziali erano assimilabili a differenze temporali». Questo passaggio dal «fatto» alla «proposizione» raggiunge il suo compimento nel XVIII secolo, quando l’assimilazione delle differenze spaziali alle differenze temporali (la trasformazione del «selvaggio» in «primitivo») si assesta come un paradigma.
Pagden, tuttavia, individua già nel ’500 gli elementi della frattura e più esattamente delle discussioni che si svolsero in Spagna sul Nuovo Mondo fra i teologi della scuola di Salamanca. Punto nevralgico di queste discussioni, e più famosa, fu quella che oppose Sepulveda a Las Casas sulla necessità o meno di considerare gli uomini americani come schiavi. Il paradigma all’interno del quale la discussione si svolse fu quello di Aristotele, al cui interno, secondo Pagden, cominciarono a prodursi quei cambiamenti concettuali che avrebbero portato a intendere le società umane non più sulla base delle descrizioni generalizzate dei comportamenti individuali, ma sulla base di una visione sociologica fondata su basi empiriche.
Pagden individua in Las Casas il primo che si muove nella direzione dell’etnologia comparata. «Gli storici dell’antichità - osserva Pagden - che avevano cercato di illustrare le società remote o barbare - come Erodoto, Senofonte, Apollonio Rodio o Diodoro Siculo - si erano proposti un compito essenzialmente descrittivo. Certamente nessuno di loro aveva inteso dimostrare, come Las Casas, che le vistose differenze culturali tra le varie razze di uomini, nascondevano in realtà una medesima struttura di imperativi sociali e morali. Poiché lo scopo di Las Casas era quello di evidenziare la sostanziale analogia tra gruppi culturali piuttosto distanti, l’Apologetica historia, in verità, è un poderoso lavoro di etnologia comparata, il primo, a quanto mi consta, scritto in lingua europea».
Ma colui che, attraverso un’analisi e uno studio comparato della cultura americana, esercitò una vasta influenza sulla cultura europea per tutto il XVII secolo e oltre, fu il gesuita José de Acosta, autore della Historia natural y moral de las Indias, pubblicata in spagnolo nel 1590 e poi tradotta in molte lingue. In quest’opera Acosta presentava un programma comparato di analisi della ricchezza naturale americana e dei costumi e delle credenze dei suoi abitanti.
Colui che portò fino in fondo le tesi di Acosta fu un altro gesuita, Joseph-Francois Lafitau, soprattutto con la sua opera Moeurs des sauvages américains comparées aux moeurs des premiere temps, che uscì nel 1724. Particolarmente nel corso di questo secolo, Lafitau è stato riscoperto come uno dei grandi precursori dell’etnologia comparata. Anche sulla scorta delle considerazioni di Pagden, il quale proprio in questa edizione ha aggiunto un capitolo su Lafitau, bisognerà tenere conto in modo più programmatico del rapporto fra Acosta e Lafitau, nella chiave di quella grande frattura che portò all'assimilazione delle differenze spaziali nelle differenze temporali, nell’analisi comparata fra popoli e civiltà.
In effetti, Pagden è convinto che esista un legame storico fra Acosta, Lafitau e le successive teorizzazioni illuministiche sullo sviluppo delle civiltà, fra le quali significativa è quella cosiddetta dei «quattro stadi» (vedi in proposito R.L. Meek, Il cattivo selvaggio, Il Saggiatore 1981) che Turgot e Adam Smith svilupparono attorno alla metà del XVIII secolo. È probabilmente questo che lo spinge a cogliere la frattura concettuale moderna già nel ’500. E la sua analisi si fonda sul presupposto che l’osservatore, di fronte a un fatto nuovo, come fu la scoperta dell’America, si trova da un lato a dover assimilarlo nel proprio sistema di riferimento, dall’altro a doverlo modificare.
Il problema sollevato da Pagden sta dentro tale processo contraddittorio. Egli afferma che «è possibile descrivere una cosa nuova solo in riferimento a un sistema già noto», riprendendo così, implicitamente la tesi di Hume, secondo cui «noi trasferiamo sempre la nostra esperienza, espressamente o tacitamente, direttamente o indirettamente, ai casi di cui non abbiamo esperienza». Ma Pagden sottolinea l’aspetto del mutamento del sistema concettuale di riferimento dell’osservatore nel processo di assimilazione del fatto nuovo.
Il problema che questo importante libro solleva riguarda il senso da dare alla frattura e, verrebbe da obiettare, alle fratture concettuali che si produssero tra il XVI e il XVIII secolo. Come tutte le indagini che aprono nuove linee interpretative, questa di Pagden ha il pregio di stimolare domande e interrogativi. E allora, per una ricerca che lo stesso Pagden invita a fare, vien da chiedersi se non sia da prendere in considerazione anche quell’aspetto di differenziazione che fece rifiutare a storici come Robertson, ma anche, implicitamente, a filosofi come Adam Smith, tutta la parte, che in Lafitau è ponderosa e centrale, e che Robertson giudicò noiosa, riguardante la religione dei popoli americani.
La questione si potrebbe allargare ad altri filosofi. Ma il punto sostanziale è il fatto che nel riprendere le tesi di Acosta e di Lafitau, i filosofi illuministi si muovevano in un’altra direzione strategica, quella di una storia universale della civiltà, intesa in senso economico, sociale e politico che, in un certo senso, andando oltre l'idea di storia politica, intendeva opporsi e sostituirsi all'universalismo della storia ecclesiastica, sulle cui fondamenta si muovevano tanto Acosta quanto Lafitau. Ciò non esclude affatto rapporti di filiazione, né tantomeno la particolare torsione che le convinzioni teologiche e religiose dei due gesuiti assunsero nell’approntamento di un metodo comparativo basato sullo studio dei mores (i costumi). Metodo comparativo e analisi dei costumi divennero infatti momenti decisivi nell’analisi storico-sociale illuminista. Tuttavia, si pongono forse ancora problemi, di tipo epistemologico oltre che storico, sul significato delle rotture e dei cambiamenti nei sistemi al cui interno l’osservatore costruisce la propria conoscenza, con nuove conquiste e inevitabili perdite. Una questione alla quale il libro di Pagden offre un contributo molto alto e che, anche da questo punto di vista, merita attenta riflessione e discussione.


“il manifesto”, ritaglio senza data, ma 1989

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