Dal selvaggio al primitivo. Le origini dell'antropologia
Alfonso M. Iacono
Circa quattro anni fa,
Giuliano Gliozzi, in una relazione avente per oggetto il rapporto tra
filosofia e antropologia nell’epoca moderna (pubblicata poi in "Rivista di Filosofia", n. 2,1986), indicò l’anno 1955 come
data-simbolo di una svolta. In quell’anno, infatti, fu pubblicato
il libro di Claude Lévi-Strauss, Tristi Tropici (traduzione
italiana, Il Saggiatore, 1960). E con esso si avviò un’epoca di
vasto successo dell’antropologia, che fino a allora era rimasta
sostanzialmente ristretta nella cerchia degli specialisti, ma che ora
cominciava a imporsi nell’attenzione di un pubblico più ampio,
anche sull’onda dell’emergenza del Terzo Mondo e delle sue lotte
di liberazione.
«I Tristi Tropici
di Lévi-Strauss - rilevava Gliozzi - mostravano con evidenza e forte
pregnanza letteraria l’ininterrotta continuità tra la scoperta del
Nuovo Mondo e i problemi di un Terzo Mondo attanagliato tra una
primitività che va scomparendo e una modernità che noi riesce a
prenderne il posto. Mostravano specialmente che il primitivo che
l’etnologo va oggi cercando nelle plaghe più nascoste è lo stesso
che la conquista cominciò a distruggere nell’atto stesso di
scoprirlo».
Il problema riproposto da
Lévi-Strauss era quello di un ripensamento critico del modo in cui
la cultura occidentale aveva presentato se stessa e aveva narrato a
se stessa la sua storia. E questa era generalmente la storia della
coscienza europea e occidentale, della sua origine e dei suoi
sviluppi e progressi. Hegel, nelle Lezioni sulla filosofia della
storia, aveva costruito il modello probabilmente più forte in
tal senso. «Dal tempo in cui gli Europei sono approdati in America -
affermava Hegel - gli indigeni sono scomparsi a poco a poco, al
soffio dell’attività europea». Si doveva giustificare questa
scomparsa come il prezzo necessario per l’autoaffermazione della
coscienza europea e occidentale? In modo analogo si pensava che
l’esistenza della schiavitù in Grecia fosse stato un prezzo
storico da pagare per l’affermazione dell’idea di libertà, idea
guida dell’ideologia occidentale.
Le riflessioni di
Lévi-Strauss, ma soprattutto le vicende storico-politiche
all’indomani della seconda guerra mondiale, cominciavano a far
comprendere in modo ancora più drammaticamente chiaro come il
processo di autoriflessione dell’Occidente non potesse essere
interpretato in termini di continuismo. Le indagini e i contributi
che seguirono sul piano della storiografia e della filosofia,
cercarono di cogliere il fatto che le modificazioni culturali e
ideologiche del pensiero moderno non furono soltanto il frutto di uno
sviluppo della coscienza europea che, come per partenogenesi, si
sarebbe arricchita, sia pure tra crisi e lunghe parentesi storiche,
entro una linea ideale che proveniva dai Greci. Esse furono anche il
frutto dell’emergenza di «fatti nuovi», prima fra tutti, ma non
unica, la scoperta dell’America e dei suoi popoli.
Furono il risultato di
una frattura concettuale, che già Sergio Landucci, in I filosofi
e i selvaggi, (Laterza 1972), individuava tra il XVII e il XVIII
secolo come risultato del tramonto dell’immagine dell’uomo di
natura. Ed è nell’ambito dell’analisi di una frattura che si
muove lo studio di Anthony Pagden, La caduta dell’uomo naturale.
L’indiano d’America e le origini dell’etnologia comparata
(Einaudi) che pubblicato nel 1982 dalla Cambridige University Press,
è uscito recentemente nell’edizione italiana.
Come dice Pagden stesso,
questo libro è un tentativo di spiegare quel grande cambiamento che
si verificò nel pensiero e nella cultura occidentale, che «inizia
con un fatto, la scoperta dell’uomo americano, e termina con una
semplice proposizione: che per lo storico delle culture - il quale
aveva ereditato dai teologi quel progetto che nel XIX secolo
diventerà l’«antropologia» - le differenze spaziali erano
assimilabili a differenze temporali». Questo passaggio dal «fatto»
alla «proposizione» raggiunge il suo compimento nel XVIII secolo,
quando l’assimilazione delle differenze spaziali alle differenze
temporali (la trasformazione del «selvaggio» in «primitivo») si
assesta come un paradigma.
Pagden, tuttavia,
individua già nel ’500 gli elementi della frattura e più
esattamente delle discussioni che si svolsero in Spagna sul Nuovo
Mondo fra i teologi della scuola di Salamanca. Punto nevralgico di
queste discussioni, e più famosa, fu quella che oppose Sepulveda a
Las Casas sulla necessità o meno di considerare gli uomini americani
come schiavi. Il paradigma all’interno del quale la discussione si
svolse fu quello di Aristotele, al cui interno, secondo Pagden,
cominciarono a prodursi quei cambiamenti concettuali che avrebbero
portato a intendere le società umane non più sulla base delle
descrizioni generalizzate dei comportamenti individuali, ma sulla
base di una visione sociologica fondata su basi empiriche.
Pagden individua in Las
Casas il primo che si muove nella direzione dell’etnologia
comparata. «Gli storici dell’antichità - osserva Pagden - che
avevano cercato di illustrare le società remote o barbare - come
Erodoto, Senofonte, Apollonio Rodio o Diodoro Siculo - si erano
proposti un compito essenzialmente descrittivo. Certamente nessuno di
loro aveva inteso dimostrare, come Las Casas, che le vistose
differenze culturali tra le varie razze di uomini, nascondevano in
realtà una medesima struttura di imperativi sociali e morali. Poiché
lo scopo di Las Casas era quello di evidenziare la sostanziale
analogia tra gruppi culturali piuttosto distanti, l’Apologetica
historia, in verità, è un poderoso lavoro di etnologia
comparata, il primo, a quanto mi consta, scritto in lingua europea».
Ma colui che, attraverso
un’analisi e uno studio comparato della cultura americana, esercitò
una vasta influenza sulla cultura europea per tutto il XVII secolo e
oltre, fu il gesuita José de Acosta, autore della Historia
natural y moral de las Indias, pubblicata in spagnolo nel 1590 e
poi tradotta in molte lingue. In quest’opera Acosta presentava un
programma comparato di analisi della ricchezza naturale americana e
dei costumi e delle credenze dei suoi abitanti.
Colui che portò fino in
fondo le tesi di Acosta fu un altro gesuita, Joseph-Francois Lafitau,
soprattutto con la sua opera Moeurs des sauvages américains
comparées aux moeurs des premiere temps, che uscì nel 1724.
Particolarmente nel corso di questo secolo, Lafitau è stato
riscoperto come uno dei grandi precursori dell’etnologia comparata.
Anche sulla scorta delle considerazioni di Pagden, il quale proprio
in questa edizione ha aggiunto un capitolo su Lafitau, bisognerà
tenere conto in modo più programmatico del rapporto fra Acosta e
Lafitau, nella chiave di quella grande frattura che portò
all'assimilazione delle differenze spaziali nelle differenze
temporali, nell’analisi comparata fra popoli e civiltà.
In effetti, Pagden è
convinto che esista un legame storico fra Acosta, Lafitau e le
successive teorizzazioni illuministiche sullo sviluppo delle civiltà,
fra le quali significativa è quella cosiddetta dei «quattro stadi»
(vedi in proposito R.L. Meek, Il cattivo selvaggio, Il
Saggiatore 1981) che Turgot e Adam Smith svilupparono attorno alla
metà del XVIII secolo. È probabilmente questo che lo spinge a
cogliere la frattura concettuale moderna già nel ’500. E la sua
analisi si fonda sul presupposto che l’osservatore, di fronte a un
fatto nuovo, come fu la scoperta dell’America, si trova da un lato
a dover assimilarlo nel proprio sistema di riferimento, dall’altro
a doverlo modificare.
Il problema sollevato da
Pagden sta dentro tale processo contraddittorio. Egli afferma che «è
possibile descrivere una cosa nuova solo in riferimento a un sistema
già noto», riprendendo così, implicitamente la tesi di Hume,
secondo cui «noi trasferiamo sempre la nostra esperienza,
espressamente o tacitamente, direttamente o indirettamente, ai casi
di cui non abbiamo esperienza». Ma Pagden sottolinea l’aspetto del
mutamento del sistema concettuale di riferimento dell’osservatore
nel processo di assimilazione del fatto nuovo.
Il problema che questo
importante libro solleva riguarda il senso da dare alla frattura e,
verrebbe da obiettare, alle fratture concettuali che si produssero
tra il XVI e il XVIII secolo. Come tutte le indagini che aprono nuove
linee interpretative, questa di Pagden ha il pregio di stimolare
domande e interrogativi. E allora, per una ricerca che lo stesso
Pagden invita a fare, vien da chiedersi se non sia da prendere in
considerazione anche quell’aspetto di differenziazione che fece
rifiutare a storici come Robertson, ma anche, implicitamente, a
filosofi come Adam Smith, tutta la parte, che in Lafitau è ponderosa
e centrale, e che Robertson giudicò noiosa, riguardante la religione
dei popoli americani.
La questione si potrebbe
allargare ad altri filosofi. Ma il punto sostanziale è il fatto che
nel riprendere le tesi di Acosta e di Lafitau, i filosofi illuministi
si muovevano in un’altra direzione strategica, quella di una storia
universale della civiltà, intesa in senso economico, sociale e
politico che, in un certo senso, andando oltre l'idea di storia
politica, intendeva opporsi e sostituirsi all'universalismo della
storia ecclesiastica, sulle cui fondamenta si muovevano tanto Acosta
quanto Lafitau. Ciò non esclude affatto rapporti di filiazione, né
tantomeno la particolare torsione che le convinzioni teologiche e
religiose dei due gesuiti assunsero nell’approntamento di un metodo
comparativo basato sullo studio dei mores (i costumi). Metodo
comparativo e analisi dei costumi divennero infatti momenti decisivi
nell’analisi storico-sociale illuminista. Tuttavia, si pongono
forse ancora problemi, di tipo epistemologico oltre che storico, sul
significato delle rotture e dei cambiamenti nei sistemi al cui
interno l’osservatore costruisce la propria conoscenza, con nuove
conquiste e inevitabili perdite. Una questione alla quale il libro di
Pagden offre un contributo molto alto e che, anche da questo punto di
vista, merita attenta riflessione e discussione.
“il manifesto”,
ritaglio senza data, ma 1989
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