L’altra Napoli. Mistero napoletano di Ermanno Rea
Mistero napoletano è un romanzo
in stile di diario e di inchiesta; ma è lo stesso Rea a metterci
sull’avviso: “La forma diaristica delle pagine che seguono è solo un
inganno letterario? Penso di poter rispondere di no. Ma essendo persona
scrupolosa devo ammettere che si tratta di una mezza finzione…L’inganno
non investe mai i dettagli, sempre verificati. Può essere che investa il
libro nella sua totalità”(5). Qual è allora questo inganno “totale”?
Nei personaggi storicamente “veri” Rea incarna tuttavia le sue immagini
di sogno e e il “documento” è spesso invaso dalla sua vena onirica e
visionaria: quella che si mostra apertamente nel Sorriso di Don Giovanni e in Fuochi fiammanti a un’hora di notte. Il passato a cui torna il narrante è intriso di possibilità perdute (Nostalgia è
il titolo dell’ultimo romanzo dello scrittore) e rievocate dalla
memoria in forma di inchiesta. A Rea interessa il fondo oscuro e
sommerso della storia, non quella attestata e celebrata dai vincitori.
Questa visione soggettiva è dichiarata nel Sorriso di Don Giovanni,
in cui dice della protagonista: “Adele sono io (il grande Flaubert mi
perdoni)”; ma la stessa cosa vale per tutte le grandi figure femminili
dei suoi romanzi. Le donne incarnano il fondo più doloroso e oscuro
degli eventi. E’ così per Rosa La Rosa in Napoli ferrovia, per Marcella nella Dismissione,
che racconta la fine della grande industria a Bagnoli (“che tu, con la
tua bellezza, con la tua età acerba, il tuo destino mostruoso,
simboleggi in maniera così inquietante”[1]), e naturalmente per Francesca in Mistero napoletano (e nella Comunista,
il racconto in cui lei appare ormai esplicitamente come un fantasma del
desiderio). Rea riflette i suoi sentimenti più inquieti in un animo
femminile, il solo che abbia la forza di portare all’estremo quanto
resta indeterminato o incompiuto negli altri protagonisti del romanzo.
Il “narratore di storie vere“ descrive sobriamente desideri aspri e
violenti; l’inchiesta è scossa dalle passioni in cui i personaggi si
esaltano e si distruggono; per lo più è un vortice oscuro, dal quale
affiorano i bagliori di ciò che avrebbe potuto o potrebbe essere.
Per molti scrittori napoletani del
secondo Novecento c’è un momento della storia di Napoli, in cui pare
prossimo il compimento di un miracolo: la conciliazione di una
immemoriale armonia naturale col progresso della modernità. Mancato il kairos di questa occasione, l’armonia è perduta, la storia pietrificata. Come in ogni mito dell’età dell’oro,
la felicità compiuta, invece di essere attesa nel futuro viene
proiettata in una condizione remota del passato. Perciò sull’utopia
prevale la malinconia.
Per La Capria, ad esempio, ma anche per Gerardo Marotta intervistato da Rea nel Caso Piegari, la responsabilità dell’occasione perduta è addossata alla plebe
e al suo trionfo sulla Rivoluzione del 1799, che viene inteso come la
vittoria dell’arcaico contro il moderno. Questo mito resiste anche alla
consapevolezza che proprio la modernità capitalista distrugge qualsiasi
armonia naturale e trasforma la natura in Gestell[2],
materiale a disposizione della tecnica e del profitto sfrenato (come lo
stesso La Capria e Rosi hanno lucidamente mostrato nel film Mani sulla città): e dunque l’edilizia sfigurata e il paesaggio distrutto poco hanno a che fare con la malvagità e l’arretratezza dei lazzari.
Tra organizzazioni criminali, poteri capitalistici e profitti
finanziari ultramoderni, sussiste un rapporto articolato e
complementare, piuttosto che il conflitto puro e semplice tra una plebe
camorrista e arretrata e la modernità (liberatrice?) del capitale.
Per Rea, l’ “occasione perduta” è
immediatamente successiva all’Unità d’Italia, quando una classe
dirigente di alto valore ebbe per qualche anno in mano i destini della
città: “Napoli si trasformò all’improvviso in un grande, fervido
cantiere di idee unitarie, di elaborazioni etico-politiche sulla natura
dello Stato in procinto di nascere, di entusiasmi intellettuali di ogni
genere”[3],
prima di soccombere –in questo caso- non alla sua plebe, quanto alla
alleanza neocoloniale di Chiesa, potentati meridionali e classi
dirigenti del Nord. La città è poi insorta in fervori di breve durata:
uno di questi è quello della giovinezza di Rea e della sua generazione,
subito dopo il secondo conflitto mondiale, il cui spegnersi è descritto
in Mistero napoletano. E’ l’altra Napoli, “quella di cui nessun Malaparte ha mai parlato”[4].
Complementare a quello dell’armonia
perduta è il mito del Grande Ritorno: colui che ha lasciato la città,
deluso dalla pietrificazione della storia e del suo sogno di libertà, vi
ritorna anni dopo, con il desiderio più o meno dichiarato di ritrovare
il perduto, o almeno di ricevere un riconoscimento, un assenso al suo
esistere, che prima gli era stato negato. Il Grande Ritorno non concede
mai quello che promette; può portare tuttavia alla comprensione di sé e a
un più maturo rapporto con la città, grazie a cui l’armonia perduta
perde il suo carattere mitico e immaginario e viene distinta nelle sue
componenti effettive, storiche e simboliche. La memoria ha in Rea una
configurazione spaziale, è fatta non solo di ricordi, ma di pietre,
strade, architetture ancora esistenti oppure irrimediabilmente
deformate. Questo passaggio dall’immaginazione mitica alla comprensione
simbolica e storica, per quanto doloroso, segna il percorso del narrante
di Mistero napoletano, ma anche quello del protagonista dell’ultimo romanzo di Rea, Nostalgia,
che non è un intellettuale, ma uno della “plebe” coinvolto in
un’avventura criminale nella sua gioventù: “Chiedeva al vecchio se in
generale ha senso, se è possibile, ritornare dopo assenze molto
prolungate, oppure se quello del Grande Ritorno è un mito, un sogno, in
definitiva una follia della quale –se realizzata- uno poi finisce per
pentirsi in modo amaro”[5]. A questa domanda cercano di rispondere anche il narrante della Dismissione, con la mediazione di un operaio partecipe dello smantellamento dell’Ilva di Bagnoli, e quello di Napoli ferrovia,
che si lascia guidare al ritrovamento del tempo perduto dall’ambigua
figura di Caracas, un intellettuale di destra riassorbito e affascinato
dalla vita plebea dei vicoli. Del resto Caracas stesso è un doppio
capovolto del narrante e a sua volta cerca le tracce di una città mitica
di felicità e di luce, viva solo nei racconti favolosi della madre,
durante la sua infanzia in Venezuela. La ricerca del tempo perduto
diviene per lui un viaggio nella geografia di Napoli.
I personaggi di Rea vivono in stato di
sospensione tra l’ armonia perduta e il Grande Ritorno, in una mai
esauribile incompletezza di sé. Del resto, l’armonia perduta di Rea si
colloca più sul piano della speranza e del possibile che in quello del
rimpianto del passato: è il sogno dei comunisti napoletani nel secondo
dopoguerra che si infrange contro l’ottusità dello stalinismo o degli
operai dell’Ilva di Bagnoli che si vedono traditi dalla sospirata e
irraggiungibile “modernità” del capitale. Soprattutto “colui che
ritorna” è l’io narrante di Mistero napoletano, in cui il regno
del perduto finisce per addensarsi nel fantasma affascinante e fuggente
di Francesca, figura-anima di una città e di una generazione nel breve e
intenso momento di speranza seguito alla guerra, poi confuso nello
smarrimento e nella durezza della storia. Difficile dire perché in tanti
scrittori di Napoli il sentimento di una separazione dall’origine, di
un esule sradicamento sia così forte, più forte di quello di un parigino
lontano dalla sua città o di un milanese trapiantato altrove, perché si
traduca in una sorta di esilio necessario eppure volontario, mescolanza
di rimpianto e odio. Andare via sembra inevitabile per chi voglia
salvarsi, almeno individualmente, dalla violenza del potere, dalla
sproporzione quasi insostenibile tra l’immagine di sogno e la
disgregazione reale, percepita come immobilità ed espulsione dalla vita
“vera”. La sospensione tra immagine mitica e realtà storica di Napoli
rende attoniti, come se qui la scissione propria di tutta la modernità
fra natura e storia si rivelasse nei suoi caratteri più estremi e
inaccettabili.
Per Rea, quel che Napoli perde nei suoi
terribili anni Cinquanta non è tanto la “bella giornata” di La Capria: è
la speranza nel comunismo, che avrebbe dovuto riportare la città nel
corso pulsante della storia. Rea non ha una visione di per sé positiva
della modernizzazione capitalista, non è questa, per lui, l’occasione
perduta: la sua modernità è quella operaia e comunista, che si dissolve
in modo definitivo insieme all’ILVA di Bagnoli, la grande fabbrica, di
cui ha descritto il declino nella Dismissione. L’incipit di Mistero napoletano
chiarisce da subito la prospettiva di Rea: il libro parlerà “di tempo
pietrificato e di coscienze espropriate del loro diritto al cambiamento”[6](3).
L’immagine di un tempo che rallenta un poco alla volta, come un
orologio scarico perde progressivamente le forze e infine si ferma,
trasformandosi in una pietra inutile e immobile, ricorre più volte nel
libro. Anche quello tra Renzo e Francesca “è un amore che non riesce né a
crescere né a spegnersi”, in stato di arresto indeterminato (non
diversamente dall’amore, costante e inconfessato, del narrante stesso
per Francesca); e a questa sospensione sembra fare da cornice Napoli,
che si scopre divenire “città morta, città-colonia. Entrambi –l’amore e
la città- irretiti in un “meccanismo senza tempo, che accade e subito si
pietrifica”(149).
Ma quando questa pietrificazione della
speranza è divenuta irrevocabile? Forse in un momento imprecisabile alla
fine degli anni Cinquanta, quando si interrompono nel suicidio le vite
di Francesca e di Renato Caccioppoli e la storia collettiva –stretta a
lungo fra il rozzo populismo laurino e il gelido stalinismo del PCI
napoletano- schiaccia i protagonisti del libro come una “ferrea legge”:
in fondo inspiegabile, anche se –pensa Rea- ormai descrivibile. Con un
paziente lavoro, lo scrittore decifra il legame sotterraneo fra i
destini individuali e i traumi della storia, tra quel comunismo astratto
e impersonale e il sacrificio dei suoi amici. Gli eventi storici
diventano dolore e speranza che traversano i corpi. E’ questa vita
cancellata dal potere che la scrittura vorrebbe ricordare e salvare. Non
sono forse i romanzi “inventari di cose perdute: amori, occasioni,
speranze, giovinezza, ideali” e insieme “maturare della coscienza”,
“fermezza di carattere”, “capacità di resistere al male”[7]?
La rievocazione dei possibili dimenticati non è un vano esercizio della
nostalgia, ma scoperta di una tradizione alternativa, che sorregga una
lotta ancora presente, un’ “altra Napoli”, che si affianca come un
doppio insistente a quella dominata e sconfitta. Emerge a contrario, in Mistero napoletano il sogno di un comunismo eretico e libertario, quello in cui credevano Rea e i suoi amici.
Rea non parla a caso di una
città-colonia “cupa e melmosa”(10)). Si riferisce in particolare al
destino del porto di Napoli, su cui ritornerà anche in Napoli ferrovia;
il porto, che incombe con le sue gigantesche e fallimentari strutture
sulla città, è per Rea la Grande Occasione perduta, per scelta dei
vincitori e asservimento dei vinti: “Darsene dalle quali torreggiavano
immensi relitti arruginiti di navi, un mondo insieme spettrale e
affascinante, dal quale però non affioravano messaggi decifrabili”(45).
Lo sviluppo marittimo e commerciale della città, quello che avrebbe
potuto farne una capitale del Mediterraneo, è stroncato dalla decisione
dei comandi militari americani di trasformarla in un nodo cruciale della
guerra fredda, sede della flotta NATO. Napoli diviene città-colonia in
senso letterale: per Rea, non si tratta di una metafora o di una
analogia. La città è consegnata volentieri a Lauro (che manteneva a
Genova i suoi maggiori interessi economici e commerciali) e il “grande
porto per rinascere dopo le disgrazie della guerra” viene
“surrettiziamente militarizzato da cima a fondo, nuclearizzato da cima a
fondo”(103); “Napoli, ancora oggi, non ha digerito il grande furto
subito alla fine dell’ultimo conflitto mondiale. Il furto del mare”[8].
Questa verità furono pochi a comprenderla e a denunciarla e anche ora
non è penetrata nella coscienza collettiva. La causa maggiore del tempo
divenuto pietra non è una natura matrigna (o troppo benevola), né
l’indole antimoderna e irresponsabile degli abitanti, ma un vero e
proprio dominio coloniale: come ovunque nel mondo, esso subordina i
colonizzati servi ai colonizzatori e li espropria della loro identità:
“Il colono fa la storia. La sua vita è un’epopea, un’odissea. Lui è
l’inizio assoluto…”[9].
Nel caso di Napoli, la sottomissione restò larvale e strisciante,
trasfigurata in difesa della civiltà occidentale e della democrazia. E’
una lama reale quella che “ferisce a morte” la città e i suoi abitanti:
“Napoli divenne insomma una specie di “caput mundi” della guerra fredda,
uno dei principali terminali del sistema difensivo dell’intero
Occidente”(68).
Rea condensa in un’immagine la stasi del
tempo-pietra e l’ottundimento della consapevolezza. E’ per “la nostra
vita sommersa, la nostra navigazione cieca”(28) che la storia può
fermarsi e arrestarsi: è il teorema dell’acquario. Le ferite
reali – la manomissione del porto, la trasformazione della città in
colonia- restano confuse e oscurate; il partito comunista accetta in
fondo il compromesso geopolitico e strategico garantito dalle grandi
potenze, mentre all’interno stronca ogni velleità di coniugare libertà e
uguaglianza: “Non fummo in grado di distinguere che la superficie delle
cose. Ancora adesso c’è chi non vuole capire…Eravamo pesci rossi in un
acquario…Avevamo l’impressione di essere dentro a un oceano: non ci
rendevamo conto che a mezzo metro dal nostro naso c’era una parete
trasparente, un invalicabile muro invisibile. L’ampiezza dell’orizzonte
era soltanto illusione, inganno visivo”(104). L’orizzonte sconfinato
sembrava quello del comunismo e della lotta contro i nuovi poteri della
città: ma il vicino muro di vetro era lo stalinismo, paradossale e
sostanziale disciplina di accettazione dell’esistente.
Lo stalinismo costringe i suoi sudditi all’umiliazione:
colpisce chi –sognando nel comunismo un’estensione collettiva della
libertà- viene invece ridotto a scegliere tra obbedienza e tradimento.
Le condanne morali e politiche non potevano portare in Italia
all’eliminazione fisica degli oppositori: ma furono comunque devastanti,
quanto più la scomunica dei dissidenti all’interno si univa alla
disponibilità esterna al compromesso. “Parlo dello stalinismo come
gestione dispotica del potere, come strumento di polverizzazione di ogni
forma di dissenso, come complotto, menzogna, trama, morta gora”(23). Il
dissenso individuale è l’imperfezione di una superficie
levigata, altrimenti trasparente e lucente, l’impurità che contamina il
cammino superiore della legge della storia. Questo è vero per lo
stalinismo quale fenomeno storico generale. I suoi interpreti napoletani
si assunsero il compito di riportare all’ordine un sottoproletariato
bastardo e infido, la plebe predisposta al crimine e alla
pigrizia: “Un proletariato di straccioni” come li considerava Emilio
Sereni, in un articolo scritto in quell’epoca e citato da Rea; “Sono
ancora, in fondo, gli antichi lazzaroni napoletani, che vivono
di tutto e di nulla, che si offrono a decine a portar la valigia dello
straniero di passaggio…Una plebe decaduta, che impronta della sua
caratteristica corruzione tutta la vita cittadina”(75). Non potendo
spedirla in un gulag come gli arretrati kulaki russi, si alzò una barriera di fronte al suo carattere naturaliter
fascista e regressivo, unendo contro di essa l’avanguardia
intellettuale del partito e la nuova classe operaia. La plebe –più degli
occupanti americani o della borghesia dominante laurina e
democristiana- diviene il principale e odiato nemico.
Ancor oggi “Napoli è in guerra” secondo
uno degli interlocutori di Rea: e con chi? “Con la plebe”, questa entità
mitica, un po’ mostruosa, non fatta di uomini ma di fisicità senza
volto, responsabile opaca del ritardo della modernità a Napoli, con
tutta “la sua arcaica cupezza”(102). Siamo così di fronte alla terza
figura ricorrente nell’immaginario degli intellettuali napoletani del
secolo passato: oltre all’Armonia Perduta e al Grande Ritorno, la
plebe-magma, Madre divorante di ogni sussulto illuministico della città,
che neanche il partito comunista del dopoguerra –secondo Rea- pensò di
associare a una rivolta politica e morale, a una presa di parola.
Accanto alla plebe, furono condannati anche gli scrittori e gli
intellettuali considerati ambigui, perché libertari e irriducibili e
dunque pessimo esempio per quella popolaglia già di suo riottosa e
indisciplinata: spettri ossessivi, “che si chiamavano rispettivamente
Michail Bakunin, Amadeo Bordiga e Lumpenproletariat, vale a dire il mondo naturalmente infetto
dei vicoli e degli straccioni che li abitavano”(170). Fantasmi che
nulla sembra legare, se non l’immaginario paranoico che odia il
disordine, la deviazione dalla norma, l’anomia di chi non si riconosce
nella legge suprema e supremamente logica della storia: che sia un
anarchico, un comunista eretico o la plebe dei vicoli. L’idea del
comunismo a Napoli subisce così la ferita di un rifiuto pregiudiziale e
di un giudizio di arretratezza verso “i senza parte” a cui avrebbe
dovuto restituire alternative, dignità e parola[10].
Questa umiliazione è tanto più grave
perché ne segue un’altra: Napoli nell’immediato dopoguerra è una città
devastata dai bombardamenti e dalla vergogna dell’8 settembre, benchè
poi si sia cercato di nasconderla con la retorica del riscatto
nazionale. Il trauma collettivo si iscrive profondamente nell’animo di
Francesca: “L’onta è scesa su di noi. Non per l’armistizio chiesto agli
Inglesi…Ma per l’obbrobrio dei Tedeschi, che ci stanno ora occupando le
città, disarmando i soldati…”(141). E’ lei stessa a scrivere così nel
suo diario: “…Guerra, distruzione, rovina, terrore, crudeltà, sfacelo,
disonore, vergogna”(143). Otto sostantivi che descrivono lo stato
d’animo di quei giorni, in presa diretta, per così dire, senza che la
mitologia postbellica abbia potuto ancora negare il dolore con le sue
mistificazioni consolatorie. In questo contesto disgregato, Francesca
ruba qualche coperta da una casa abbandonata: un atto che le sarà
rimproverato fino al tormento dai dirigenti del partito napoletano, in
realtà per colpire il marito irregolare e dissidente, Renzo
Lapiccirella.
Come dovevano apparire le città del
centro-sud? Rea descrive Littoria, dove era sfollata Francesca, ma
l’aspetto di Napoli non era diverso, durante l’occupazione tedesca e i
primi mesi di quella americana: “Tutto appare squarciato, ferito,
irrecuperabile. Lungo le strade scivolano di tanto in tanto inquiete
ombre di uomini e di donne che rapidamente si lasciano inghiottire dal
nulla delle macerie”(167). Ed è frequente l’esperienza di chi ricercando
la sua casa dopo un bombardamento o tornando dal fronte, trova un
terreno spianato, senza più nemmeno i resti delle rovine. Contro questo
avvilimento e il disprezzo che si riserva ai vinti voleva lottare la
generazione di comunisti del dopoguerra, a cui apparteneva anche Rea,
prima di arrendersi al conformismo e all’intolleranza del Partito.
Quanto più il trauma collettivo veniva negato e offuscato dallo
splendore posticcio della “riconciliazione” nazionale, tanto più feriva
in profondità la mente di quella generazione, predisponendola alla
disperazione e al suicidio di fronte a un nuovo insuccesso o scacco
della storia. Sul vittimismo e il senso di colpa poté prosperare il
tradimento della democrazia.
Il trauma storico –e non un incantesimo mitico- crea la scissione tra l’intellettuale e la sua città, la solitudine
paradossale e perversa che ritroviamo nelle parole di Compagnone,
riportate da Rea, una solitudine immersa nel rumore “senza poesia, senza
nulla di allusivo, di pacato, di raccolto”(196). Si accompagna all’apprensione,
con cui il passante esprime la costante percezione che dal fondo di un
vicolo, da un portone semichiuso o magari da una moto in corsa, possa
sorgere improvvisamente un’aggressione verbale o fisica: per cui i
confini del proprio corpo sono altrettanto incerti e porosi dei vuoti
sotterranei della città. E’ una “Napoli notturna.., in cui non c’è ombra
che l’attraversi che non sia fonte d’allarme”(133). Il tatto o
la distanza che un individuo pone tra sé e l’altro, così importante per
la maschera borghese della persona, soffre a Napoli di inconsistenza.
Si ha piuttosto l’impressione che i corpi possano in un attimo fondersi o
ammassarsi in ammucchiate plebee, come quelle dipinte da Micco Spadaro,
ricolme indiscriminatamente di amore e di odio, pronti a trapassare
repentinamente nell’opposto. Ma non si tratta di una irrevocabile e
selvaggia naturalità, è bensì l’effetto delle offese e delle
degradazioni della storia, subite da una città-colonia.
Non è allora fatale la formazione della
“napolitudine”, descritta da La Capria, estrema e edulcorante difesa di
fronte alla violenza reale? Appartiene alla napolitudine non il senso
del comico (come si è spesso equivocato), ma piuttosto quello del
grottesco, che tende a capovolgere un evento in sé tragico nel suo
risvolto farsesco: ci si difende così per negazione dall’intollerabile,
con uno sberleffo che infine conclude: “Non era che questo! Passerà la
nottata!”, anche se il “questo” nel suo primo manifestarsi era fonte di
un’angoscia innominabile. “E’ la vecchia Napoli –dice Rea- futile e
farsesca, che invano io cerco di oscurare, di esorcizzare con le mie
tragedie…In questa città è del tutto impossibile salvarsi dalla
commedia”(240). Una tale riduzione al grottesco ha qualcosa di osceno,
anche se bisogna riconoscerle una qualche perversa dignità, quando per
esempio lo sberleffo, il peto, il pernacchio vengono rivolti alla
presenza stessa del potere o della morte[11].
Francesca non è forse l’essere
fragile, in cui giungono all’estremo le speranze e le delusioni della
storia della città? Francesca aveva “un’aria insieme selvaggia ed
evanescente, zingaresca e raffinata”(13), generosa e impulsiva come una
Anna Magnani partenopea e in lei si incarna per intero il caotico
sussulto di libertà che accompagnò il dopoguerra, il tentativo di
reagire all’umiliazione e al torto subiti: è una comunista (così
è definita nel titolo del racconto che Rea le ha dedicato), se il
comunismo fosse stato ciò che doveva essere e cioè ribellione al torto e
affermazione della dignità dei vinti. Nelle parole di Compagnone, “era
una donna trascinante. Ricordo con precisione questa sua forza di
trascinamento, questa sua tensione interna, questo suo fuoco, questo suo
continuo cercare”(195). Come Rea confessa più apertamente nella Comunista,
Francesca è il fantasma stesso del suo desiderio, la donna anima e
guida, che lo conduce a ritroso nel tempo verso il mondo dei morti, e
gli permette insieme di ridare voce e volto alle speranze spente di una
generazione. Come in ogni viaggio nel tempo perduto –a partire da quello
esemplare di Proust- anche Rea cerca l’immagine ideale, che –almeno
nella memoria- restituisca al passato il suo senso smarrito.
La sua vera controparte maschile, nel
romanzo, non è Renzo e neanche il narrante, ma Renato Caccioppoli, il
gramde matematico comunista e nipote di Bakunin, anch’egli suicida, con
cui Francesca compone una coppia regale, un’aristocrazia del desiderio.
Con Francesca condivide la ricerca di “frammenti di armonia”, oltre il
caos dominante (120). Con lei suona in “impenetrabile dialogo” senza
parole. Incarnano lo stesso fantasma ideale: quello di un comunismo
trasandato, spettinato, stretto in un impermeabile un po’ liso, un
comunismo insieme tenero e beffardo…non separato dalla libertà”(256),
quale si esprime nel gesto di Caccioppoli dopo la presa di Parigi da
parte dei nazisti, quasi un commiato definitivo dalla grande civiltà
europea: “Alzò in maniera imprevista il coperchio del pianoforte e…in
piedi, con la sola mano destra, accennò al motivo della Marsigliese: pochissime note soltanto, ma senza ritmo, sfibrate, simili a un flebile sospiro”(116).
Caccioppoli, ma lo stesso vale per
Francesca, diviene parte del “paesaggio sommerso” di Napoli, “delle sue
sere sciroccose e torbide, della sua disperazione romantica”(122); è l’altra Napoli,
opposta alla napoletaneria fatta di “spaghetti, buonumore e
furfanteria”, insorta in un breve, ricorrente intenso sogno di libertà e
sorretta da uno spirito critico inflessibile e ironico. Una razionalità
acuminata contro l’esistente, sospinta nel suo fondo da un desiderio
divorante di felicità. Questa è l’immagine dialettica ideale che Rea ha
trovato nel suo Grande Ritorno, questo gli dicono –risorgendo dalle
acque infere- le anime dei suoi amici perduti.
Mario Pezzella, 14 luglio 2017 da http://www.leparoleelecose.it/?p=28403
[1] E. Rea, La dismissione, Feltrinelli, Milano 2014, p. 349.
[2]
E’ il termine con cui Heidegger designa la natura ridotta a “materiale”
o utensile dello sfruttamento ad opera della tecnica. «Tutto (l’ente
nella sua totalità) si allinea senz’altro nell’orizzonte
dell’utilizzabilità, del dominio o, meglio ancora, dell’ordinabilità di
ciò di cui bisogna impadronirsi. Il bosco smette di essere un oggetto
[…] e diviene […] per l’uomo che vede a priori l’ente nell’orizzonte
dell’utilizzazione, “spazio verde”. Niente può più apparire nella
neutralità oggettiva di un “di fronte”. Ci sono ormai soltanto risorse:
depositi, riserve, mezzi» (M. Heidegger, Seminari, Adelphi, Milano, p. 141).
[3] E. Rea, La fabbrica dell’obbedienza, Feltrinelli 2011, p. 163. Rea si riferisce in particolare a Spaventa e De Sanctis.
[4] E. Rea, Il caso Piegari, Feltrinelli, Milano 2014, p. 57.
[5] E. Rea, Nostalgia, Feltrinelli, Milano 2016, p. 201.
[6] E. Rea, Mistero napoletano, Einaudi, Torino 1995. D’ora in avanti numero di pagina in corpo testo fra parentesi.
[7] E. Rea, Il sorriso di Don Giovanni, Feltrinelli, Milano 2016, p. 224.
[8] E. Rea, Napoli ferrovia, cit. p. 301.
[9] F. Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 1975, p. 40. L’identità del colono è propriamente umana e l’umano si confonde col suo essere e agire; il colonizzato appartiene invece al mondo del dato e
della natura immediata, e come tale deve essere negato, superato, o
–nel migliore dei casi- educato, perché acceda a una forma di vita
paragonabile a quella dell’uomo.
[10]
Che sia questa la posizione stessa di Rea è stato ben compreso da A.
Tricomi: “Rea auspica, ben più di quanto possa dimostrare, una
collettiva presa di coscienza che – con l’intento di attualizzare su
basi in parte nuove il sogno comunista reso violentemente inservibile a
quella generazione di intellettuali descritta in Mistero napoletano –
cerchi, a Napoli come pure altrove, di riappropriarsi dell’eredità
della rivoluzione del ’99 interpretandola in maniera pressoché opposta a
quella di La Capria. Non cioè come la conferma che solo in alto, quindi
dalla grande borghesia, possono essere abbozzati disegni di avanzamento
socio-culturale generalmente condannati a essere sabotati in basso,
ossia dagli oppressi, ma come la dimostrazione che l’autentico progresso
civile scaturisce da progetti, di matrice comunitaria, elaborati dagli
esclusi”. “Sempre a Napoli, nel 1799”, ne Il Ponte on line del 3 marzo 2017, http://www.ilponterivista.com
[11] Questa riduzione del tragico a commedia e lo sberleffo contro il potente sono i due poli tra cui si muove l’opera di Eduardo.
Nessun commento:
Posta un commento