Una ricerca sulle
comuni radici dell'umanità di Ananda Coomaraswamy. Un testo
esoterico nel senso vero del termine, senza sensazionalismi o derive
new age.
Giuseppe Montesano
Quando gli dèi
danzavano con le idee degli uomini
Vogliamo aprire un
promettente romanzo esoterico intitolato La tenebra divina e capire
quale tenebrosa storia ci racconta? Non è facile, perché i veri
thriller non sono riassumibili, ma, in sintesi un po’ brutale e
casuale, ecco alcune delle sorprese che il thriller ci fa: scopriamo
che Dio è maschio e femmina, e non è maschio e femmina solo il dio
che incontriamo nei sacri testi indiani dei Veda o nel misterioso
Ermete Trismegisto, ma ce l’hanno anche il più serio Jahvè e suo
Figlio, e capiamo infine che è maschio e femmina ogni dio di ogni
religione, e che l’unione sessuale e la fecondità sessuale e il
gioco sessuale fanno parte degli dèi e di Dio; scopriamo poi che il
cattolico San Tommaso D’Aquino diceva su Dio le stesse cose dette
tremila anni prima dal Rigveda, e che esiste da sempre una sorta di
società semisegreta i cui adepti studiano religioni diverse che però
considerano discendenti da una religione eterna, la quale è una
religione ma ancor più una filosofia; e scopriamo che le Lettere di
San Paolo, la Bhagavadgita, le Upanisad, i poemi persiani e arabi, i
poemi e i miti greci, il Graal e il dio Brahma sono connessi come in
un puzzle elettronico; e poi…
E poi, a questo punto,
bisogna svelare che le storie culturali raccontate nel nostro
bizzarro romanzo non le ha scritte un Borges in preda all’Lsd, né
un Maestro tantrico reincarnatosi in Philip K. Dick, ma il grande
studioso Ananda Coomaraswamy. La tenebra divina non è un romanzo, ma
una raccolta di saggi pubblicati da Adelphi a cura di Roberto
Donatoni, e va a completare due libri essenziali che sono Il grande
brivido e La danza di Shiva pubblicati sempre da Adelphi. Eppure se
questo libro non è un romanzo, i singoli saggi che lo compongono
sembrano avere la struttura di racconti, di tasselli conoscitivi che
finiscono col comporre una specie di stupefacente narrazione su
argomenti che vengono in genere definiti “esoterici”: e quando si
dice stupefacenti non si esagera, perché l’effetto di questi
scritti è quello di una droga.
Il famigerato
esoterismo, oggi spruzzato come mistero d’accatto dentro libri su
codici e angeli che non valgono la carta su cui sono scritti, diventa
in Coomaraswamy una lente quasi magica per leggere una verità
essenziale nel brulicare di teorie e miti del Passato: un Passato che
scopriamo essere in realtà anche un Presente e un Futuro, dal
momento che Coomaraswamy ci spiega, solidale con tutti i sapienti che
cita, che il Tempo non esiste così come lo concepiamo noi, e che le
nostre vite, che crediamo individuali e separate dal Mondo e da Dio,
sono come la spuma dell’onda: noi compariamo per un attimo,
realissimi e concreti e molteplici come l’onda e la spuma dell’onda
e la goccia che si stacca per un attimo dalla spuma dell’onda, ma
poi siamo riassorbiti nel mare che è eterno e unico da sempre e per
sempre: come Dio e il Mondo.
I racconti culturali che traboccano dalla Tenebra divina, e che a volte sembrano usciti dalla mente di un visionario, sono il frutto del lavoro accurato di uno studioso indiano che lavorava al Museum of Fine Arts di Boston a capo della sezione di arti orientali, capace di leggere il sanscrito e il pali, il greco e il latino nonché le principali lingue occidentali, e che a un certo punto della sua vita fu influenzato dalle teorie di René Guénon, l’autore del Re del Mondo e di altri scritti che oscillano anch’essi tra il romanzo culturale lisergico e il serio studio comparativo.
Libri come La tenebra divina ci
pongono una domanda radicale: perché mai in tempi di algoritmi
dovremmo leggere “roba” che parla di dèi? E la risposta è
semplice: perché gli algoritmi ci sono già nei Veda, perché la
storia delle civiltà e delle idee è il romanzo più affascinante
che ci sia, e anche perché nell’abisso lontano da cui emergono
accoppiamenti di dèi e idee ci sono pensieri che potrebbero essere
utili per noi ora.
Per esempio l’idea di Coomarasewamy che la tolleranza religiosa non va intesa come sopportazione indifferente, ma scaturisce dal pensiero che c’è un’unica verità e che ogni religione è solo il riflesso di quell’unica verità che nessuna religione possiede completamente: non sarebbe utile oggi capire che la parola stessa “religione” è pronunciata in modo abusivo? E scopriamo poi in Coomaraswamy l’idea che Platone, i Veda, le Upanisad e Cristo dicevano la stessa cosa, e cioè che Dio e gli dèi si manifestano giocando, e che gli esseri umani, imitando Dio, non possono fare niente di meglio che giocare: «L’attività di Dio è chiamata “un gioco” proprio perché si dà per scontato che egli non abbia fini propri da perseguire; è in questo stesso senso che la nostra vita può essere “giocata”’, e che, nella misura in cui la nostra parte migliore è presente in essa senza però appartenerle, la nostra vita diviene un gioco. A questo punto non possiamo più distinguere il gioco dal lavoro».
E se a qualcuno sembrasse
di aver letto qualcosa del genere nel Marcuse di Eros e civiltà,
sappia che Coomaraswamy non filosofeggia, ma cita alla lettera i
Vangeli, Platone e la storia delle religioni. E ci si chiede: se per
caso oggi questa idea fosse approfondita, e si scoprisse che stava
alla base di grandi civiltà passate ma che non sta alla base della
nostra meschina civiltà di eurobond e terrore, e che quelle grandi
civiltà costruivano e scrivevano meraviglie e noi costruiamo e
scriviamo scemenze: questo non ci darebbe da riflettere? E non
sarebbe interessante sottoporre l’idea di lavoro come gioco agli
attuali reggenti del pianeta, che ci impongono il lavoro come
annullamento di ogni creatività?
Ecco a cosa servono i romanzi
culturali come La tenebra divina: a farci uscire dall’analfabetismo
mentale totalitario, perché se l’analfabetismo mentale si fregia
oggi di essere “contemporaneo”, non perciò smette di essere
totalitario: e a noi non serve un pensiero unico e mortuario del
mondo, asservito alla tecnocrazia e all’economicismo, a noi
servirebbe un pensiero vivente e polimorfo: un pensiero con molti dèi
e molte idee che giochino e facciano l’amore tra di loro.
La repubblica – 30
giugno 2017
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