Un
poeta corsaro dentro la CGIL
Sia Pasolini che Battaglia hanno avuto chiara
consapevolezza che l’universo contadino, da entrambi, forse, un po'
idealizzato, fosse condannato a scomparire. Eppure, così come Pasolini non
avrebbe scambiato una lucciola per tutta la Montedison, Battaglia considerava
più prezioso un piccolo albero d’ulivo che l’intero stabilimento della FIAT di
Termini Imerese. Le ragioni del cuore, cui si richiama esplicitamente Pino
Battaglia in una importante nota introduttiva ai suoi ultimi versi scritti
nella «lingua della madre»[1], sono state sempre anteposte dai due
poeti alle ragioni della storia.
Una spia dei profondi mutamenti sociali in corso,
Battaglia li avverte già nella metà degli anni '70, quando, ancora studente
universitario ospite del Pensionato palermitano di S. Saverio, tornando al suo
paese non si sente più riconosciuto dai vecchi contadini. Scriverà più tardi: Unni nascivu ‘un mi canuscinu chiù (dove
sono nato non mi riconoscono più). Proverà, infatti, sgomento davanti alla
piazza vuota del suo paese.[2]
Verso la fine degli anni '70 Battaglia comincia a
scrivere anche in prosa. Ma in tutto quello che scrive si trova sempre un fondo
di poesia. Per rendersene conto basta dare un’occhiata ai pezzi che pubblica su
un periodico palermitano nel biennio 1979/1980.
A differenza di Pasolini, infatti, Battaglia scrive
questi articoli su un modesto periodico della Camera del Lavoro di Palermo,
intitolato SINDACATO, che pochi
leggevano. A spingerlo a scrivere e a pubblicare su questa testata sarà lo
stesso direttore del periodico, Aurelio Colletta, che, conosciuto Pino
quand’era ancora un suo alunno dell’Istituto Tecnico Commerciale di Termini
Imerese, ed avendo letto con simpatia i suoi primi versi, gli affida, senza
alcuna esitazione, l’autogestione di una pagina della rivista, oltre alla cura di alcune originali
inchieste, pur sapendo quanto fosse imprevedibile e poco addomesticabile il
poeta.
Battaglia dimostra la sua autonomia e indipendenza di
giudizio, la sua profonda laicità, appunto, fin dal suo primo pezzo,
intitolato Corsivo, pubblicato
nell’aprile del 1979. Qui, infatti, insieme ad alcuni brani (allora inediti) de
L’ordine di viaggio, vede la luce un
testo polemico, intitolato DAI PRIMI ANNI 50, in cui si rappresenta un
dirigente sindacale che rivolge a dei giovani compagni questa domanda:
[…] in una delle mie
mani ho una patata
bollita, nell’altra
Proust;
al contadino che mi
sta di fronte cosa è
giusto che io dia? E cosa
pensate, se gli
fosse dato di scegliere, che
prenda?
Lo
stesso Battaglia, caustico, risponde:
Aveva, di già, scelto per il
contadino la patata bollita; aveva disposto che solo quella gli era necessaria.[3]
Come si vede, pur scrivendo su un
foglio della CGIL, Battaglia non teme di criticare l’operato di tanti
sindacalisti del tempo, dimostrando, ancora una volta, quanto laico fosse il
suo punto di vista in anni in cui i furori ideologici e lo spirito di
appartenenza prevalevano nettamente sullo spirito critico.
Un mese dopo intervista il poeta
cileno Herman Castellano Giron e, successivamente, pubblica un lungo resoconto
dell’incontro che il cileno ha con gli operai di una fabbrica palermitana.[4]
In un graffiante
articolo del giugno 1979, intitolato Sindonia
di anime morte, prendendo spunto dalle notizie relative alle famigerate
imprese del banchiere
Michele
Sindona, sferra un duro attacco al sistema di potere democristiano con un
esplicito richiamo al famoso articolo sulla scomparsa delle lucciole di
Pasolini. Ne riprendiamo di seguito l’amaro e sarcastico passo finale:
O mostri dell’intelligenza, menti
mostruosamente fantastiche, genìa sublimemente illuminata. O sterminatori di
lucciole e di rami, amici degli uomini e della poesia, puri di cuore che,
anche, il cielo asseconda. Noi, adesso, ammirando la vostra Opera, non possiamo
fare a meno di dire: oh! Ci inchiniamo meravigliati ai vostri piedi, […]. E, se
la distruzione delle lucciole pasoliniane, che, dice Renard, figlie di
una goccia di rugiada e di un raggio di luna, sembra sempre più definitiva, a
noi certo poco interessa; noi ci inchiniamo alle grandiose città; ai centri
storici; alle fabbriche, alle scuole. Ci inchiniamo alle immense opere di Lor Signori. E siamo felici, lo
confessiamo. Il mondo, ormai, è davvero mondo. Muoiono le lucciole ed, anche, i
fiordalisi, finalmente. Le morte cose ritornano alla terra. Ma la storia, dice
un compagno contadino, è una pentola senza coperchio.[5]
Sarcasmo a parte, Battaglia nel 1979
mostra ancora di avere fiducia nella storia, non si spiegherebbe altrimenti il
rimando alla battuta finale, mutuata dal compagno
contadino.
Ma il pezzo che mostra,
inequivocabilmente, quanto il poeta di Aliminusa avesse assimilato in
profondità lo stile dello scrittore corsaro, capace di scandalizzare i
benpensanti di destra e di sinistra, viene pubblicato nel novembre del 1979.
L’articolo, intitolato Note ai margini di
un funerale, è dedicato ad uno
dei tanti “funerali di Stato” celebratisi a Palermo in onore dei rappresentanti
delle Istituzioni caduti sul fronte dell’antimafia. Battaglia ricorda che
l’espressione Carinu comu li pira
viene usata a Palermo per indicare i morti ammazzati dalla mafia. Il poeta è
colpito, soprattutto, dall’indifferenza che traspare già da questo modo di
dire. Ma, a differenza di tanti altri, prova a darne una spiegazione non
moralistica, avvalendosi, oltre che di Rousseau, di una antica metafora
contadina:
La violenza che è
nell’indifferenza, soglia di ogni male, a Palermo si respira ovunque. Negli
occhi degli uomini, vuoti, come l’occhio delle capre. Negli occhi impertinenti
dei bambini, impudichi, che, in questa sciagurata città, la vita porta a
disprezzare sé e gli altri. Non è problema di educazione e rieducazione; la
violenza che è nell’indifferenza, soglia di ogni male, affonda le radici, per
fermarci alle cose vicine, in quella classe di inetti e spergiuri che, da
trenta anni, ha governato all’insegna del detto tiriamo a campare (o ad ammazzare?), assopendo la coscienza dei
molti, consentendosi rapacità principesche. Da educare e rieducare c’è,
soltanto, la classe politica al potere. (Rousseau: È certo che i popoli
sono alla lunga ciò che il Governo li fa essere…). Vale il principio della
terra da seminare. Bruciare le male erbe, spetrare, tracciare i solchi e arritibulari, cioè ripassare con
l’aratro il terreno, in senso contrario; si potrà, poi, seminare. Soltanto dopo
aver zappato i fili di grano primieri e tolte le male erbe[…] si potrà mietere
e raccogliere. Vale, per questo Stato, il principio della terra da seminare, se
si vuole raccogliere.[6]
Particolarmente tagliente la
stoccata finale contro la retorica dei “funerali di Stato”:
Il
F. S. - mi si perdoni la brutalità, ma la cosa
è brutale - serve ad incontrarsi e a tessere e disfare orditi. Nella sfarzosa
cornice della Cattedrale, molte, troppe persone sembrano dicessero: volemose bene.[7]
[1]
G. G. Battaglia, Nota dell’autore (1992)
all’ultima edizione de L’Ordine di
Viaggio, 1968-1992, comprendente gli ultimi versi scritti in dialetto da
Battaglia Fantasima e Discesa ai morti (1992), ora nella nuova
edizione Arbash già citata, p. 143.
[2]
La chiazza vacanti è il titolo di una
sua poesia.
[3]
SINDACATO. Periodico della Camera del Lavoro di Palermo, n. 3, aprile 1979, p.
22.
[4]
Ivi, n. 4, maggio 1979, pp. 4-7. Significativo appare il fatto che lo stesso
periodico, qualche mese dopo, e precisamente sul n.7/1979, pubblichi un profilo
di Neruda firmato dallo stesso H. Castellano Giron.
[5]
Ivi, n. 5, giugno 1979, p. 21. Sottolineatura mia.
[6]
Giuseppe Battaglia, Note ai margini di un
funerale, in SINDACATO,
novembre 1979, pp. 5-6.
[7]
Ibidem, p. 6.
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