20 luglio 2017

NORBERT ELIAS, L'uomo il sesso e la forchetta







 

L'uomo il sesso la forchetta

Intervista a Norbert Elias di Enrico Filippini


Norbert Elias è nato nel 1897. È dunque uno degli ormai scarseggianti grandi vecchi della cultura europea. Nella fattispecie, della sociologia: di una sociologia sconfinante nella storia e tutta nutrita di storia. È venuto qui da Amsterdam, dove vive da alcuni anni, per tenere una conferenza presso l'Associazione il Mulino. Titolo: Cambiamenti nell'equilibrio di potere tra i sessi. È un tema che lo appassiona da qualche tempo, e che non è estraneo al grande tema di tutta la sua vita, che è il "processo di civilizzazione", come dimostrano i libri che il Mulino ha pubblicato a partire dal 1980, compreso l'ultimo, intitolato La solitudine del morente. Come altri grandi vecchi, è disponibilissimo alla conversazione. Un po' meno a mettere in questione, eventualmente, i princìpi di fondo della sua opera, e anche a ricordare maestri, influssi, amici. Con tutta evidenza - e non è un male -, nell' andar degli anni, l'amore dell'Opera, la fedeltà all'Opera si fanno esclusivi e quasi perentori: va bene così.
Quest'opera è diventata pubblica abbastanza tardi... Ecco così la prima domanda: Signor Elias, i suoi libri principali sono usciti relativamente tardi, non solo in Italia. Il processo di civilizzazione - che da noi è diviso in due volumi, La civiltà delle buone maniere e Potere e civiltà - è del 1939. La società di corte del 1969. Nel 1939, lei aveva già 42 anni...
"Sì. La società di corte deriva dal mio saggio di abilitazione, che avevo discusso a Francoforte prima che Hitler salisse al potere. Fino a quella data avevo avuto una vita universitaria normale, ed ero assistente di Karl Mannheim. Poi, di colpo fu impossibile finire e pubblicare qualsiasi lavoro di quel tipo".
Per ragioni politiche?
"Dire politiche è dir poco: tutt'a un tratto, nulla era più possibile. Il processo di civilizzazione venne pubblicato da un piccolo editore svizzero alla vigilia della seconda guerra; lui era disperato perché tutte le copie gli ingombravano il magazzino; poi, a poco a poco, vennero anche i lettori".
Lei nel frattempo era emigrato?
"Non ero emigrato: emigrare si può anche volontariamente. Io venni strappato brutalmente dal mio paese e mandato in esilio".
In America?
"No. Per andare in America occorrevano relazioni e agganci professionali che io non avevo. Solo Thomas Mann una volta mi mandò un biglietto per chiedermi se la cosa mi poteva interessare. Andai in Francia, poi in Inghilterra".
In Francia aveva rapporti intellettuali?
"Assolutamente no. Lavoravo all'École Normale, ma con un sussidio olandese. Per il resto ero solo un esiliato".
Torniamo alla Germania...
"Come lei forse saprà, a quel tempo in Germania vigeva nelle scienze sociali una rigida contrapposizione: quella tra civilizzazione e Cultura...".
Appunto. Si può dire che allora quasi tutta la cultura, mi scusi il bisticcio, era dalla parte della Cultura. Lei si occupava di civilizzazione, cioè di qualcosa che a un tedesco appariva futile, inautentico, superficiale, decadente, parlamentare, spregevole. Anche a un tedesco come Thomas Mann, perlomeno al Thomas Mann che scriveva le Considerazioni di un impolitico.
"Esattamente. In quel libro è espressa nettamente la vecchia posizione conservatrice. Ma poi Mann cambiò. Nel suo Diario annota: 'Letto Elias; meglio di quanto credessi'... La Germania è stata l'unico paese in cui esistesse questa contrapposizione: non se ne parlava in Francia, in Inghilterra o, per quanto ne so, in Italia. Mi dispiacerebbe dire troppo crudamente che, fin da Kant, la Cultura era la cultura della borghesia e la civilizzazione quella della nobiltà; però è più o meno così. Salvo che, in Germania, questa contrapposizione di classe diventò una contrapposizione nazionale: Cultura diventò ciò che era "specificatamente tedesco"; civilizzazione tutto il resto, compreso il parlamentarismo e la democrazia".
Per questo il concetto di Cultura diventò reazionario, per esempio in Spengler? "In Spengler e in molti altri".
Se uno pensa alla grande cultura storico-sociologica tedesca degli anni della sua formazione, da Ferdinand Tnnies a Georg Simmel a Max Weber, non riesce bene a trovare le coordinate della sua ricerca. "Vede, io sono sempre stato esitante a parlare di origini intellettuali, perché questo concetto implica che ci si forma sui libri. Io, certo, leggevo. Ma più dei libri per me erano importanti le esperienze".
Per esempio quale esperienza?
"Per esempio la prima guerra mondiale, alla quale partecipai diciassettenne".
Come Junger...
"Come chi?"
Junger. Ernst Junger.
"No. Innanzitutto io ero più giovane di Junger (in tedesco suona meglio: "Ich war junger als Junger", n.d.r.), in secondo luogo lui era ufficiale e io no, in terzo luogo, per lui la guerra fu un'esperienza eroica e gloriosa, per me un'esperienza orrenda e terrificante".
Dunque, nessun influsso intellettuale?
"Da studente avevo rapporti con Karl Jaspers. Max Weber l'ho letto tardi e non sempre l'ho apprezzato. A volte vorrei dire come Goethe: 'Ero un pazzo su basi tutte mie...'. Insomma, molto presto trovai un modo mio di affrontare i temi sociologici, e potrei dire che questo modo si riassume in questa formula: studio dei processi di lungo periodo, di quelle evoluzioni che attraversano lentamente le epoche".
Dunque direbbe che la sua è una sociologia totalizzante?
"Assolutamente no. Il concetto di totalità è del tutto vuoto. Ciò che mi interessa sono i nessi, le connessioni, le interdipendenze, e ciò che si può dire è che queste interdipendenze vanno non solo analizzate ma anche integrate. Di recente ho scritto un articolo dove analizzo i nessi tra sport e parlamentarismo nell'Inghilterra del XIX secolo. Ecco, questo intendo".
Dunque, il suo lavoro è estraneo anche alla sociologia più recente, per esempio al Funzionalismo alla Talcott Parsons, alla teoria dei sistemi sociali, ecc.?
"Certamente - e questo naturalmente non facilita la comprensione del mio lavoro. Ma quelle teorie operano con concetti rigidi e statici; per esse, ad esempio, lo sport e il parlamentarismo stanno in cassetti diversi e separati; per me sono componenti del processo di civilizzazione. Oppure, se si studiano i rapporti tra i sessi in ambiti temporali ristretti, non si capisce quasi niente. Se si studiano, come io li sto studiando, su tempi lunghi o lunghissimi, tutto si fa più chiaro. Dal punto di vista umano, gli antichi romani non erano diversi da noi".
Dunque, lei si sente un outsider?
"In certo modo sì: nel senso che io sono più vicino di altri alla realtà umana, che la mia sociologia vuole vedere in concreto che cosa succede tra gli uomini, vuol essere una sociologia umanistica. E così credo che il futuro è dalla mia parte".
Proviamo a riassumere. Lei ha studiato i complessissimi meccanismi di vita e di potere alla corte di Luigi XIV. Poi ha studiato le modificazioni delle maniere, dei costumi, del linguaggio, dei sentimenti (per esempio della vergogna e del pudore) nel lentissimo passaggio dalla società guerriera medievale alla monarchia assolutistica moderna alle democrazie di massa contemporanee. Le sue ricerche sono suggestive anche letterariamente o addirittura giornalisticamente: conosco molte persone che si sono divertite a scoprire che ancora tre o quattro secoli fa era raro l'uso del cucchiaio e della forchetta, che a tavola si sputava e si vomitava con disinvoltura, che i bisogni corporali e sessuali venivano soddisfatti in pubblico. Personalmente mi sono divertito a leggere le prescrizioni di Erasmo per l'educazione dei ragazzi... Voglio dire: lei chiama tutto questo processo di civilizzazione. E' questo il concetto fondamentale del suo lavoro?
"E' uno dei concetti fondamentali. Un altro è quello di potere, per esempio di potere statale".
Ecco, ma questo processo sembra non aver inizio e non aver cause, a differenza, per esempio, che in Marx.
"Infatti, il concetto di causa viene dalle scienze naturali, e anche Marx finì per abbandonarlo. Io cerco, piuttosto, spiegazioni relative a un insieme di reticoli praticamente infinito".
Bene. Però nelle sue spiegazioni non si trovano mai certi concetti correnti, per esempio i concetti di rivoluzione o di progresso.
"Questo non è esatto. Progressi ci sono stati. Ma per me il progresso non è un dogma metafisico, necessario e predeterminato, per cui la società va inevitabilmente nel senso del meglio. Per questo preferisco nozioni come "evoluzione" o "mutamento", e per questo ho studiato le maniere: nei libri di maniere del Cinquecento trovavo materiali utili a profilare una differenza nella civiltà di allora e nella nostra".
Mi consenta un' ultima domanda. Nel suo lavoro, il processo di civilizzazione sembra implicare un aumento del controllo personale e sociale, e un aumento delle coercizioni. Lei pensa dunque che, come in un celebre studio di Marcuse e in parte anche in Freud, civiltà implichi aumento di nevrosi?
"Non direi proprio. Non esiste una società priva di controlli degli istinti. Ciò che caratterizza la fase attuale della nostra civiltà è una complessissima reciprocità dei controlli e un aumento del controllo statale. La nevrosi... La nevrosi: non saprei. Non ho mai pensato alla cosa sotto questo profilo".

“la Repubblica”,15 settembre 1985 

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