Una
metafora di Palermo
L’opera di Nicola Lo
Bianco, In città al tramonto, Bastogilibri (2017), è un condensato di
storie, immagini, visioni che connotano una città, Palermo, raccontata da
personaggi che, pur essendo ai margini della società, sono ricchi di liricità
ed umanità. Rappresenta una vera novità letteraria in
quanto è una scrittura di notevole energia e vitalità in cui risalta soprattutto
l'umanità dei personaggi. Il Nostro poeta, come da cantastorie popolare,
ci regala un gioiello di sette racconti di prosa poetica i cui protagonisti, in
parte folli e visionari, diventano man mano emblemi di una condizione
tragicomica della vita, riuscendo a trasmettere, nonostante i loro drammi e le
contraddizioni, valori di giustizia, fedeltà, libertà. Tuttavia, la modernità della
narrazione di Nicola Lo Bianco consiste non solo nell’energica espressività
della prosa poetica, ma soprattutto nel linguaggio e nello stile di vivace
coralità. Spesso la mancanza di
punteggiatura e di cesure presente in alcuni testi sembra riecheggiare lo stile
dei poeti del Primo Novecento, mentre i dialoghi dei vari personaggi, vivificati
da una commistione di lingua e dialetto, fanno pensare allo sperimentalismo
linguistico dei grandi scrittori delle Neoavanguardie, ne è un esempio la
sezione “Cristofalo”, in cui si parla della figura di questo presunto “folle”, il
quale, dopo avere ucciso gli assassini di suo nonno, conduce una vita ai
margini della società, una specie di cosciente clochard quasi a espiazione della sua colpa.
Un altro esempio è il monologo un po’ strampalato e surreale, capace però di inquietanti visioni apocalittiche, del
commovente personaggio di Isidoro: un lucido, diciamo così, malato di mente e
recluso in manicomio. << Io malatu
sugnu? ‘Un sugnu malatu. Dici ca sono malato. Non/sono malato, sono fatto di
cristallo fino./Toccami. Mi tocco e mi rompo, ma non sono malato . . ./è ca m’insonnu
tanti testi appizzati/ […].
Nel racconto Le cose da fare di Agostino, Nel personaggio, uomo
semplice di un’ingenuità quasi fanciullesca, si può trovare un nesso con
i personaggi beckettiani di “Aspettando Godot” sotto il profilo dell’assurdo e
del non-senso. Il cinquantenne Agostino,
disoccupato, in giro per la città e sfaccendato, stanco della inutile routine
quotidiana, in preda ad un raptus di follia, tenta il suicidio; è paradossale che sia proprio un venditore
ambulante tunisino, un’altra creatura ai margini di questa città multietnica e
composita, a salvarlo.
Nel dialogo di Fifì e Marò sembra riecheggiare l’antologia di Spoon
River di Edgar Lee Masters. I due personaggi del racconto, marito e moglie, si
incontrano dopo morti e si rinfacciano, pure nell’aldilà, tradimenti, rancori,
ricatti e ogni sorta di miserie umane. Nella sezione dedicata a Leonardo Vitale,
primo pentito di mafia, invece Nicola Lo Bianco dimostra, nel lungo monologo
del personaggio, una profonda sensibilità e un grande impegno morale e civile.
La storia di Vitale si fa coscienza morale nel momento in cui il pentito, che
era stato educato da “uomo d’onore”,
trova nel messaggio evangelico e negli insegnamenti di Gesù la forza per
riscattarsi e pentirsi, pronunciando per la prima volta la parola “mafia”. (Il
pentito venne ucciso il 2 dicembre 1984, all’uscita della chiesa dei
Cappuccini, dopo la Messa, davanti alla madre.)
Insomma, le radici di Nicola Lo Bianco, quelle che il poeta
Crescenzio Cane ebbe a definire “sicilitudine”, in questi racconti emergono
nello stile colloquiale che aderisce al parlato e nel linguaggio misto di
lingua e dialetto proprio delle plebi del sud, di ascendenza verghiana, ma qui
trasposto in area metropolitana, nella precarietà della condizione dei
diseredati, degli esclusi. Difatti, molte espressioni colorite quali “vecchiu arripuddrutu”, “quattru ossa ncatinati”, “coppola di minchia”, connotano in senso caricaturale certe situazioni, ma non
mancano di afflato lirico.
Ma la Sua “sicilitudine” si rivela anche nel modo di rappresentare certi profili tipici,
soprattutto nei personaggi minori che contornano i protagonisti: quando
ironizza, ad esempio sul siculo cialtronesco, che bandisce ogni forma di
sensibilità e impone la legge del più forte: è arrogante, cinico, incline al
ricatto e alla vendetta trasversale.
Il Nostro autore sembra però volerci trasmettere un messaggio di
matrice quasi dostovjeskiana: la bellezza che salverà il mondo si trova negli
ultimi, nelle creature del
dolore e della sofferenza.
Giusi Bosco
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