10 luglio 2017

R. K. SALINARI, I simboli non tramontano mai

Malevic, Quadrato rosso (1915)




I simboli non tramontano mai, ed anche se non ce ne accorgiamo, continuano ad esercitare il loro influsso su di noi. Una riflessione sul simbolismo del colore rosso dal Campari al mito della Grande Madre.

Raffaele K. Salinari

Lo spritz e il velo di Maria

In questa stagione così torrida, al calar della sera un buon Spritz ghiacciato, magari all’Aperol o al Campari, col suo colore rosso, sembra allontanare per un momento il calore opprimente. L’immaginazione, liberata dallo spirito mercuriale dell’alcool, trasporta la mente in quel microcosmo colorato che scende nel nostro corpo mentre sussurra segretamente alla nostra anima, anch’essa assetata, ma di una trascendenza mai del tutto oscurata dalla luce feroce della modernità.

Da dove viene il potere evocativo di quel rosso fluente, profondo, corposo, il fascino misterioso e sensuale di un pigmento un tempo naturale che ci da ancora l’illusione di tenere in mano un pulsante cuore liquido? Di bere, come allegri vampiri incoscienti, un poco di sangue, dolce e amarognolo al tempo stesso? Ancora una volta è alla Grande Dea dell’Evo cristiano, alla sua figura di teotoca, di Madre di Dio, che ci dobbiamo rivolgere per capire ciò che lega psiche a psiche, cioè anima a frescura.

Il Maphorion di Maria

Per riannodare il filo delle suggestioni, spesso inconsce ma non per questo meno potenti, che ci attirano verso il colore rubino del nostro Spritz, dobbiamo risalire a com’era colorato in origine il velo delle donne sposate nell’antica Galilea, ed in particolare al colore delMaphorion di Maria di Nazareth. Cominciamo da questo: nella tradizione bizantina l’indumento viene raffigurato com’era in origine: dipinto di rosso. Ci riferiamo a Bisanzio perché notoriamente la fede nella Madonna è in Oriente molto più radicata e potente di quella Occidentale. A questo proposito basta ricordare come il Velo di Maria fosse ritenuto la reliquia che proteggeva da ogni male la città di Costantinopoli. Torneremo tra poco sulla sua storia; per ora basta dire che esso fu portato dalla Palestina, nel 473, e posto nella chiesa della Panaghia delle Blacherne.

Panaghia in greco è un attributo mariano e significa Tutta Santa. Nell’iconografia del cristianesimo orientale si trovano diverse raffigurazioni della Panaghia. Ad esempio la Panaghia Platytera, «la più grande dei cieli»: in questa raffigurazione Maria ha le braccia alzate e porta sul petto un grosso cerchio con il Bambino benedicente. Altro nome è Blachernitissa, secondo l’icona di questo tipo venerata in modo speciale appunto nella chiesa del quartiere delle Blacherne a Costantinopoli, nella quale fu traslato il Santo Velo. Altre raffigurazioni sono la Panaghia Odighitria, «che indica la via» (hodòs), chiamata così da una chiesa di Costantinopoli nella quale erano solite ritrovarsi le guide delle carovane dei pellegrini, e la Panaghia Nikopoia «che dà la vittoria»: maestosa e severa tende con ambedue le mani il Bambino verso l’osservatore.

Ma forse la più simbolica è la Panaghia Strastnaia, che rappresenta la Madre di Dio sofferente perché vede dinnanzi a sé la passione del Figlio. Qui la Madonna non è altro che la trasposizione cristiana della Grande Madre della paganità preclassica, che generava il suo figlio-paredro per poi sacrificarlo e resuscitarlo, secondo il ciclo indistruttibile della zoé. La Madre di Dio che ne vede già la Passione, infatti, sarà anche quella che gli restituirà la vita.

Qui, tra le altre cose, si ravviva la relazione tra dionisismo e cristianesimo, ma ci porterebbe troppo lontano, ed Elémire Zolla, nella sua splendida introduzione all’antologia Il dio dell’ebbrezza, l’ha magnificamente trattata.

Tornado al mantello di Maria, il termine Maphorion deriva dal greco omos (spalla) e pherein(portare). In epoca anteriore alla cristianità corrispondeva ad un pallio, una sorta di sopravveste formata da un ampio rettangolo o quadrato di stoffa che i Romani indossavano sopra la tunica fermandolo sotto il mento o su una spalla con una fibbia. Di questo gioiello ne rimangono di pregevoli al Museo di Villa Giulia a Roma. Il mantello derivava a sua volta dall’himation greco, adottato da chi aveva a che fare in qualche modo con questa cultura.

Il Maphorion di Maria, abbiamo detto, è di un colore rosso porpora che, secondo la tradizione Orientale, è simbolo della regalità acquisita dalla persona umana Maria attraverso l’Incarnazione mistica del Cristo in lei. Sempre secondo l’iconografia classica, infatti, per ribadire questo Mistero, sul capo e sulle spalle il Maphorion mariano ha impresso tre stelle, antichissimo simbolo siriaco della verginità.

La reliquia rossa

La tradizione Orientale narra che la reliquia venne scoperta a Cafarnao, in Palestina, dai patrizi Galbio e Candidus durante il regno dell’ImperatoreLeone I (457-474). Le cronache dicono che in origine essa apparteneva ad una ebrea che la teneva, naturalmente, in un’arca di legno, e che i due bizantini riuscirono a rubarla sostituendola con una copia. Da Cafarnao portarono quindi il Sacro Velo a Costantinopoli, dove rimase fino alla conquista turca del 1453.

Una versione alternativa attesta che il Maphorion mariano rimase a Costantinopoli non oltre il 568, quando fu portata ad Imola nella chiesa diSanta Maria in Regola come dono dell’esarca Longino, che avrebbe ricostruito la chiesa proprio in occasione dell’arrivo della reliquia.

Purtroppo dai rilievi fatti recentemente, come nel caso della Sindone, il manufatto risulta essere una tela a strisce, finissima, che da una parte ha i fili rilasciati, come un vello; in sintesi la sua datazione non va oltre il VI secolo. Originalità o meno a parte, e questo è un punto interessante, la questione in realtà non scalfisce in nessun modo il supposto potere taumaturgico e spirituale che viene, a torto o a ragione, attribuito alle reliquie dalla devozione popolare.

A riprova di ciò resta il fatto che, anche se il Maphorion di Maria si trovava ad Imola già nel 568, il popolo bizantino non doveva essersene accorto, visto che le cronache storiche ci raccontano di un entusiasmo popolare alimentato grazie alla reliquia della Vergine presso la chiesa delle Blacherne che respinse l’assedio degli Avari contro Costantinopoli nel 626.

Ci parlano di questo episodio alcuni versi del lungo poema di Giorgio Pisides, il poeta di corte dell’Imperatore Eraclio (Cappadocia 575 – Costantinopoli 641): «Maria protegge la sua città e le sue mura, e con esse la sua Casa di Preghiera attraverso la forza magica e apotropaica del Maphorion a Lei appartenuto, Pallade e Atena cristiana». Qui dunque il parallelo tra Atena, protettrice di Atene, e Maria di Costantinopoli, viene reso sotto la forma della potenza magica legata alla reliquia.

Ora, come abbiamo già accennato, col termine reliquia si indica un qualcosa che fa parte del ricordo di un personaggio venerato, e può comprendere qualsiasi cosa abbia avuto a che fare con lui o, naturalmente, parti del suo stesso corpo. La reliquia «assorbe» dunque la santità del personaggi e la riverbera, generando così il suo stesso culto. Il fenomeno della venerazione delle reliquie è una pratica molto antica, che si fonda su questa convinzione apotropaica.

Ciò che spinge verso la venerazione di una reliquia, ancora oggi, non è solo la convinzione che attraverso di essa continuasse ad operare la Grazia, ma anche che in qualche modo il potere taumaturgico, o di mediazione col divino, passasse anche a chi la possedeva e la gestiva, vedi i vari culti ostensori ancora praticati. E dunque possedere una reliquia divenne una pratica di potere e di fama, sia per colui che se ne impossessava, sia per il luogo in cui veniva deposta, come dimostra ancora oggi il grande rilievo del «turismo-religioso».

Ora, tornando al nostro Spritz Campari, perché il Velo di Maria è rosso, come possiamo vedere in tutte le icone bizantine, e di cosa era composto quel colore? La tradizione Orientale attribuisce a quel particolare pigmento un significato di totalità. Esso deriva, infatti, e qui sta l’arcano, dall’unione di due colori fondamentali opposti: il rosso, caldo, e il blu, freddo, ottenuti in pittura con il cinabro, che rappresenta il fuoco, e il lapislazzulo che rappresenta invece l’acqua. Siamo dunque in presenza di un colore doppio, che racchiude, e al tempo stesso bilancia, le opposte polarità: da ciò il suo carattere regale.

Non dimentichiamo che gli antichi simboli alchemici dell’acqua e del fuoco, gli opposti per eccellenza, sono due triangoli equilateri con i vertici opposti, che combinati insieme compongono la figura del Sigillo di Salomone.

Ma è decisamente la sua origine organica che rende ragione, non solo del suo significato simbolico, ma anche dell’analogia con altri pigmenti dello stesso colore, come vedremo analizzando quello del nostro Spritz. La porpora antica derivava, infatti, dal mollusco, oggi purtroppo estinto, chiamato Murex Trunculus; come ci dice Plinio, è una sostanza che, disseccata, si separa in due: una azzurra e una rossa. Ciò spiega il famoso effetto cangiante dei tessuti tinti con questa: presentavano infatti riflessi che andavano dal rosso all’azzurro. Il valore simbolico è pertanto intuibile come misteriosa unione degli opposti in una totalità. Nelle icone della Madre di Dio il Maphorion può assumere allora le diverse gradazioni della porpora, ove prevalga il rosso o l’azzurro.

A riprova della complementarietà tra la Grande Dea ed il suo figlio-paredro, vale la pena notare come i colori della veste e del manto mariano sono l’inverso di quelli del Cristo. Infatti la Madre di Dio indossa il Maphorion di color porpora sopra una tunica di tinta azzurra che si intravede solitamente sul capo, sul petto e sulle maniche. I colori rivelano che Maria è la Madre di Dio, colei che è piena della sua Grazia; e così mentre il color porpora del manto ne simboleggia la divinità, la sua umanità viene invece rappresentata dalla veste di colore azzurro.

Il rosso Campari

Le correnti cruelty free, come vedremo, hanno vinto, almeno sulle etichette, la loro battaglia: il pigmento rosso del Campari non proviene più da un altro essere vivente, non acquatico ma terreste, che conserva le stesse caratteristiche cromatopoietiche dell’estinto Murex, un insetto che vive sulle pale delle opunthie (fico d’india): la Cocciniglia. Da non confondersi assolutamente con la Coccinella, questo animaletto si nutre della linfa delle piante, in particolare di quelle grasse, e si protegge dai predatori secernendo una sostanza densa, simile alla cera: il carminio di Cocciniglia.

Solo le femmine di questa specie hanno il pigmento rosso, l’acido carminico, ed in particolare quelle gravide. Per ottenere la tinta bisognava quindi raccoglierle prima che deponessero le uova. Il carminio di Cocciniglia, una volta essiccato, veniva ridotto in polvere per essere trattato con ammoniaca o con una soluzione di carbonato di sodio. La parte solida è poi eliminata filtrandola, e lasciando così il liquido purificato. Per ottenere le varie sfumature di color porpora, dal rosso del Campari all’arancione dell’Aperol, si aggiungeva della calce. Dunque molti insetti venivano di fatto sacrificati sull’altare del rosso.

Sappiano inoltre le signore cruelty free che la tinta proveniente dal carminio di Cocciniglia veniva ( viene?) anche utilizzata per prodotti di bellezza come fard e rossetti. Il Perù produceva, sino ad anni recenti, circa l’85% delle scorte mondiali di Cocciniglia; in Europa la produzione si concentrava nelle Canarie e nella Spagna meridionale. L’uso delle cocciniglie era così diffuso che, dal 1650 circa fino al 1870, fu considerata la più preziosa merce d’esportazione del Messico dopo l’oro e l’argento.

Ma perché parliamo al passato? Perché, almeno in Italia, questo pigmento rosso di origine animale, denominato con la sigla E120, è stato sostituito, almeno da quanto si evince dalle etichette, dall’E122 di origine sintetica. Questo, se da una parte rende appunto il nostro Spritz cruelty free, dall’altra non ci garantisce affatto che i nuovi pigmenti artificiali siano innocui come certamente lo era il carminio della Cocciniglia che, peraltro, è ancora molto usato in alcuni prodotti delle Americhe che non ammettono l’uso dell’E122 perché considerato potenzialmente tossico.

Ma esiste un prodotto, rosso quanto altri mai, il cui nome, almeno quello, ricorda ancora non solo l’insetto fatale, ma mette in relazione il suo colore al potere taumaturgico della Vergine.
L’Alchèrmes

Dall’arabo al-qirmiz, che significa «il verme», in particolare proprio la Cocciniglia, che indica da dove deriva il suo color cremisi, può considerarsi un prodotto tipico italiano, e più precisamente fiorentino. Nel capoluogo toscano l’Alchèrmes arrivò dalla Spagna moresca: si narra che il liquore, considerato come una specialità medicinale, fosse già prodotto come elisir di lunga vita dalle suore fiorentine dell’Ordine di Santa Maria dei Servi, fondato nel 1233. Alla fine del Quattrocento sappiamo della sua preparazione da parte dei frati di Santa Maria Novella.

Nel Rinascimento aveva un ruolo di primo piano tra le bevande preferite alla corte di Lorenzo il Magnifico. Apprezzato durante le riunioni dei circoli neoplatonici, se ne tessevano le lodi a partire dal colore, fatto oggetto di eruditi studi simbolici. Pico della Mirandola, ad esempio, si domandava quale influenza potesse avere sugli «umori» del corpo quel fermentato rosso e liquoroso ottenuto da animali vivi, sorseggiato sia da pontefici come Leone X e Clemente VII, sia dalla regina Caterina, che ne portò la ricetta in Francia, dove divenne noto con il nome di «Liquore de’ Medici». Forse, si domandava Marsilio Ficino, il rosso che ricordava la porpora della Vergine, poteva in qualche modo influenzare lo stato dell’anima nella sua ascesa verso il divino?

Ma, anche qui, il pigmento della Cocciniglia è stato sostituito con quello artificiale, depotenziandone, almeno secondo testimonianze direttamente raccolte dallo scrivente in Sicilia, l’originale potere vermifugo, attribuito proprio alla produzione dall’insetto naturale, perché legato al simbolismo del rosso velo mariano di cui abbiamo detto.

Anticamente in Sicilia questo liquore, chiamato «Archemisi», veniva infatti utilizzato contro i «vermi da spavento», tipici dei bambini. In questi casi, fatta la debita diagnosi, i parenti somministravano un cucchiaino o due di questo liquore, allora preparato con il rosso della Cocciniglia raccolta dai fichi d’india siciliani. Ma, perché la terapia avesse effetto, era necessario il combinato disposto tra il rosso estratto dalla Cocciniglia e l’invocazione alla Vergine Maria, cui quel colore veniva attribuito come simbolo della sua Passione di Madre del Salvatore. Oggi, con la scomparsa della Cocciniglia, tutto questo non ha più luogo, dunque «non ha luogo».

Ma i simboli non tramontano mai, ed anche se non ce ne accorgiamo, continuano ad esercitare il loro influsso su di noi, E così tra simbolismo sacro e medicina tradizionale profana, il colore del nostro Spritz si scioglie nella gola mentre si ricompone nell’anima la memoria delle sue origini.

Il Manifesto/Alias- 8 luglio 2017

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