In «Cleofonte deve
morire», edito da Laterza, Luciano Canfora ci parla con un occhio rivolto al
presente di Aristofane, di Atene, delle sue guerre civili, e di
coloro che di quelle lotte furono protagonisti palesi o occulti.
Federico Condello
Cose terribili su
Aristofane
Dividere il popolo: è la
mossa preliminare. È la mossa controrivoluzionaria che tanti
rivoluzionari, dal Robespierre del maggio ’93 al Mao del ‘libretto
rosso’, hanno paventato e tentato di sventare. Ma è anche la mossa
preliminare di chi, a cose avvenute e a sangue versato, le
rivoluzioni e le controrivoluzioni vuole capirle al di là delle
retoriche contrapposte che sono parte integrante della battaglia. Ed
è infatti la mossa preliminare di Luciano Canfora nel suo Cleofonte
deve morire Teatro e politica in Aristofane (Laterza
«Cultura storica», pp. 518, € 24,00), che è un’appassionante
indagine su Aristofane, su Atene, sulle sue guerre civili, e su
coloro che di quelle lotte furono protagonisti palesi o pupari
occulti.
Certo, in omaggio ai
sofismi di cui Aristofane si fa beffe negli Acarnesi («Euripide c’è
e non c’è, se hai comprendonio»), potremmo dire che questo è e
non è un libro su Aristofane e su Atene. Ma non per sobillare o
avallare letture allusive (qualcuno ha già colto in questo libro
inesistenti moniti contro gli odierni abusi del dileggio ad personam,
e attendiamo con ansia chi evocherà attualissimi «comici al
potere»); il libro è e non è su Aristofane e su Atene perché esso
coniuga l’analisi dei singoli eventi o «atomi di storia» – così
Canfora ha parafrasato altrove gli erga di Tucidide – con
un’attenzione spietata alla regolarità, pur mai stereotipata, dei
fenomeni politici. Perciò questo è un libro che espone «cose
terribili ma doverose», come si vanta, per stare ancora
agli Acarnesi, il perfido Diceopoli.
Dividere il popolo, si diceva: punto di partenza e insieme fondamento della ricerca. Dividere il popolo, e cioè dissolverne l’unità apparente, per riconoscere dietro la maschera del «demo» una specialissima élite: l’élite urbana che si autoproclama «popolo» e dà così il proprio nome al regime che essa sostiene e innerva; questo «demo» è minoranza, come già sapeva un lucidissimo Nietzsche poco più che trentenne, e non è il «popolo», concetto in sé vacuo e volatile. «Dove comincia, dove finisce il popolo?», si chiedeva il Pasquali di Congresso e crisi del folklore (1929), in pagine da raccomandarsi a quegli antichisti-antropologi che oggi resuscitano addirittura «i Greci», maiuscolizzati e indifferenziati. Dove comincia e dove finisce il popolo di una precisa città (Atene) in un preciso momento storico (la fine del V secolo)?
È lo stesso popolo
quello che in assemblea dibatte e decide, e quello – tanto più
vasto – che si raduna a teatro per ascoltare Aristofane? È lo
stesso popolo quello che «fa andare le navi» (come si esprime
l’autore della Costituzione degli Ateniesi, con ogni
probabilità Crizia) e quello che, legato alla piccola e media
proprietà terriera, più rovinosamente subisce i danni della guerra
contro Sparta? Decisamente no, risponde Canfora: «il ‘giacobinismo’
della ‘democrazia’ di tipo ateniese», che di una minoranza
militante fa la totalità, non deve fuorviarci; esso deve
illuminarci, semmai, su tanti altri «concetti ‘neo-giacobini’»
via via tornanti nelle esperienze rivoluzionarie successive, con le
loro minoranze promotrici dichiarate «d’avanguardia».
Il «demo», dunque, non è il «popolo»; e il popolo non è uno: come non è uno il fronte dei signori che al «demo» si oppongono, quando non possono o non vogliono guidarlo; e vi si oppongono, magari, in nome del popolo altrimenti inteso (‘voi siete migliori dei vostri capi!’: efficacissimo trucco, dal vecchio Teognide ad Aristofane e oltre); o in nome di ideali egualitari più avanzati e radicali – e talvolta più radicati, perché in principio l’uguaglianza fu aristocratica – rispetto a quelli del «demo» razzista e bigotto: sarà questo il caso di tanti intellettuali antidemocratici che la guerra civile l’hanno ispirata o combattuta, pagata con la vita a pace fatta (Socrate) o sul campo (Crizia), o per tutta la vita rimeditata (Platone). Qui non c’è un equivoco solo da dissipare: c’è un nodo di equivoci, che rende così insidiosa, e insieme così fortunata, la nozione di democrazia. Lo notava lo Straniero del Politico platonico: la «democrazia» è quel regime di cui «nessuno usa mai cambiare il nome», quale che sia la sua mutevole sostanza istituzionale e sociale.
Dissipato questo equivoco, o nodo di equivoci, tutto si intende meglio: anche Aristofane, il suo pubblico e la sua committenza. Della commedia cosiddetta antica, quella famosa per l’onomastì komodein, cioè per gli sfottò nominali, Canfora offre un quadro spietatamente realistico, a partire da una definizione dei commediografi quali poeti salariati, spesso e volentieri al servizio delle consorterie ostili al demo.
Ne emerge un quadro
compattamente antidemocratico dei popolareschi beniamini del
pubblico, Cratino o Ermippo, Eupoli o Aristofane. Di Aristofane, in
particolare, seguiamo la carriera fra la Lisistrata (inizio del 411),
le Tesmoforianti (un anno dopo, nella stesura rivista a noi giunta,
calcola Canfora) e le immortali Rane (inizio del 405, in
prima stesura e messinscena). Datazioni, contestualizzazioni storiche
e conseguenti ipotesi di riscrittura sono oggetto di pagine che non
conquisteranno solo i filologi, perché portano nel vivo della lotta
politica ateniese; lotta che non fu sempre nobile né ebbe sempre
fronti granitici, per come ci si rivela via Aristofane.
Ecco dunque il commediografo sposare, con Lisistrata, la causa dei golpisti antidemocratici del 411: Canfora ridicolizza a ragione l’idea che il putsch fantapolitico della commedia presenti un programma solo per caso coincidente con quello del putsch reale in corso. Ecco poi Aristofane mutare linea al mutare del regime: ciò che avviene con le Tesmoforianti. Eccolo infine tornare sulla linea antidemocratica più oltranzista, mentre Atene si avvia alla sconfitta e il suo «popolo» dispera: ed è la volta delle Rane, che da sempre piacciono ai professori perché, in apparenza, parlano di letteratura.
Ma le Rane piacquero
al «popolo» (ben disposto o ben pilotato) per la loro faziosa
parabasi, cioè per il comizio a visiera alzata che è il cuore della
commedia: e l’autore, complice la svolta politica in corso, incassò
un eccezionale diritto alla replica. In quella parabasi si colgono
allusioni storiche stratificate, a partire dal processo all’ultimo
«demagogo», Cleofonte, di cui Aristofane antivede e sfacciatamente
annuncia la morte certa: e i dati inducono a ipotizzare una parabasi
aggiornata almeno fino al tardo 405, diversi mesi dopo la première,
sulla soglia ormai della catastrofe che portò Atene a perdere la
guerra e insieme la democrazia.
Chi si avventura in queste pagine deve lasciare l’Aristofane simpatica canaglia di tanti ricordi scolastici, o l’Aristofane trickster dei grecisti aggiornati, che è un Aristofane fuori dal tempo e dalla storia, nutrito solo di ‘carnevalesco’ bachtiniano; un Aristofane che non è poi troppo diverso, nella sua genericità, dal moralista eterno che al principio del Novecento piaceva a Ettore Romagnoli: «attuale parrà la sua opera sempre finché vi saranno demagoghi impudenti, stolti guerrafondai, filosofi acchiappanuvole, poeti asini». «Aristofane era un grande idealista», gli faceva eco Giuseppe Fraccaroli dalle pagine del Corriere(ora possiamo rileggerle, con tante altre, grazie allo splendido L’antichità classica e il “Corriere della Sera”. 1876-1945, a cura di Margherita Marvulli). Anche oggi, quando non si sa che dire dell’Aristofane politico, si dice che fu «moderato»: concetto duttile perché vuoto.
Quell’Aristofane fuori dalla storia, in chiave moralistica o carnevalesca, finisce qui. Restituito al suo tempo, che fu un tempo duro, perderà forse l’aureola, ma certo non lo smalto, come prova il fatto che con questo restaurato profilo di Aristofane Canfora ha introdotto a Siracusa, poche settimane fa, le apprezzatissime Rane tradotte da Olimpia Imperio e dirette da Giorgio Barberio Corsetti. Una robusta, salutare iniezione di concretezza storica e politica; e, congiuntamente, il recupero di una linea critica ottocentesca che Canfora ricostruisce sul finire del libro, fra Heyne e Droysen, fra Nietzsche e Wilamowitz, quando rivoluzioni e controrivoluzioni attuali meglio aiutavano a intendere rivoluzioni e controrivoluzioni antiche. C’è voluto un po’ di tempo per recuperarla, quella cruda ma tersa visione delle cose: forse perché – diceva Max Weber – il diavolo è vecchio, e occorre invecchiare per capirlo.
Il manifesto/Alias – 16
luglio 2017
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