05 luglio 2017

VIOLENZA E DEMOCRAZIA


Qualcuno disse una volta che la pornografia era il sesso degli altri. Lo stesso vale per la tortura, che a quanto pare esiste solo fuori d'Italia. Eppure la storia della Repubblica (irredentisti sudtirolesi negli anni 60, brigatisti negli anni di piombo, Diaz e Pontedecimo nel 2001) e la cronaca (caso Cucchi, ecc) ne sono pieni. A dimostrazione del legame inscindibile tra potere e violenza.

Riccardo Mazzeo

Lo Stato ordinario della tortura e della violenza


Un nuovo spettro si aggira per il pianeta: il «principio di eccezione» di Carl Schmitt. Il sovrano, incarnato da un Leviatano-mosaico con i volti dei potenti della Terra, si sottrae così a ogni regola e, soprattutto, crea zone sempre nuove off limits in cui si soverchia, si annienta, si tortura in totale impunità sotto le insegne del migliore dei mondi possibili.

Questo scenario di «eccezione» e «sopraffazione» non trova realizzazione unicamente nei Paesi refrattari alla democrazia e alla libertà dei cittadini, come i Paesi del Golfo, la Russia di Putin, la Turchia di Erdogan, l’Ungheria, la Cina con l’incarcerazione sistematica degli oppositori, ma è discernibile anche nelle nostre democrazie.

In tutti i casi emerge «il cosiddetto triangolo della violenza» i cui vertici sono occupati dal soggetto attivo (chi esercita o commissiona la violenza), dal soggetto passivo (la vittima) e dal soggetto spettatore (chi assiste alla violenza ma si guarda dall’intervenire). Ed è in questo terzo vertice che si rileva la mancanza del principio di responsabilità, che coincide con «l’estraniazione o la separazione dell’individuo da alcuni aspetti del mondo fenomenico» (l’indifferenza, l’apatia).

Nel 2005, ad esempio, il 14 per cento dei cittadini Usa ritenevano la tortura giustificata nell’interrogatorio di persone sospettate di terrorismo, ma quattro anni dopo tale percentuale era schizzata al 52 per cento. Questo dato relativo alla tortura implica un corto circuito nella posizione del cittadino-spettatore, che situa il torturato in una categoria socialmente svalutata, e «la salvezza del torturato non dipende tanto dalla mano abbassata del torturatore, quanto dalla mano protesa dello spettatore». È lo spettatore che può dunque fare la differenza.

E’ uno dei passaggi di Violenza e democrazia. Piscologia della coercizione: torture, abusi, ingiustizie (Mimesis, pp. 197, euro 18), scritto da Adriano Zamperini e Marialuisa Menegatto, rispettivamente professore di psicologia sociale e ricercatrice dell’Università di Padova. Libro denso, costellato di case study e fenomeni di ordinaria violenza istituzionale. Il volume affronta inoltre la «violenza strutturale», a suo tempo descritta da Johan Galtung, che riguarda il disconoscimento dei diritti di cittadinanza agli immigrati di seconda generazione o le disparità di genere, e la «violenza simbolica», teorizzata da Pierre Bourdieu, che è incarnata dall’imposizione impercettibile di modelli di comportamento per acquisire il consenso dei dominati.

Libro quindi che invita alla resistenza nei confronti della tortura e della violenza istituzionale. Non a caso gli autori, insieme a un drappello di altri compagni di impegno, fra cui l’ex pm del processo Diaz Enrico Zucca e Ilaria Cucchi, hanno redatto un manifesto-appello per criticare ciò che definiscono la «legge truffa» sulla tortura da poco varata dal Senato.


Il manifesto – 4 luglio 2017

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