14 luglio 2017

SULLA STORIA DI DENIS MACK SMITH


Leggemmo la sua storia d'Italia ai tempi del liceo. Era appena uscita l'edizione economica in tre volumi in cofanetto. Non ci fece una grande impressione. Ci sembrò fare storia alla Montanelli (stava uscendo la storia d'Italia scritta con Gervaso), in modo superficiale, riprendendo e rilanciando luoghi comuni e banalità. Insomma una furbesca strizzata d'occhio ad un pubblico che più che capire voleva essere confermato nei suoi pregiudizi. La lettura delle opere sul fascismo non ci ha fatto cambiare idea.

Simonetta Fiori

Denis Mack Smith. L’uomo che riscrisse la storia d’Italia



I suoi avversari — molti — malignavano che lo straordinario successo di Denis Mack Smith fosse dovuto a una circostanza semplice: aveva raccontato gli italiani con la stessa scettica acutezza con cui siamo soliti guardare a noi stessi. Senza sconti. Anzi, con quel piglio fustigatore che piace tanto a un popolo dedito alla perpetua autodemolizione. Se n’è andato all’età di 97 anni il decano degli studiosi inglesi animati da passione per l’Italia. La coscienza critica della nostra storia nazionale. E l’inventore di un genere storiografico che avrebbe dato una scossa anche alla prosa paludata degli accademici italiani. Figura slanciata e aplomb tipicamente anglosassone, ricchissimo il medagliere accademico – la British Academy, il Wolfson College di Cambridge, l’All Souls College di Oxford, l’American Academy of Arts and Sciences – sembrava il figlio del più esclusivo ceto intellettuale londinese. In realtà il padre aveva fatto l’ispettore delle tasse a Bristol e Denis fu il primo della famiglia a prendere la laurea. Per la tesi scelse il nostro Risorgimento, assecondando quell’interesse per l’Italia nato fin dai banchi del liceo.

Alla fine della guerra, appena ventiseienne, s’era affrettato nel Paese di Cavour e Garibaldi. Con una borsa di studio di poche sterline, trascorse un anno tra gli archivi, divorando libri e poco altro. «Ricordo ancora la fame e il silenzio», ci raccontò una volta nel suo villino bianco di Headington, a Oxford. «Mi muovevo in un’atmosfera strana, difficile da decifrare. Il Paese era ancora scosso dalla guerra». A Napoli l’incontro destinato a segnare la sua vita: Benedetto Croce gli aprì biblioteche ed amicizie importanti. «L’unico problema era il suo accento: non capivo una parola del suo italiano! ».

Tredici anni più tardi nasce in Italia il “caso Mack Smith”: l’editore Vito Laterza lo convince a pubblicare La storia d’Italia, il libro che gli procura enorme popolarità tra i lettori non specialisti (oltre 150 mila copie) e altrettanta animosità nella cittadella aristocratica della storiografia. Le ragioni dello scandalo? Un eccesso di semplificazione, lamentano gli accademici. La storia italiana viene ridotta a un piano inclinato, in cui gli accadimenti scorrono fin troppo speditamente. Da Cavour a Mussolini e alla successiva democrazia trasformista, tutto si tiene in un racconto forse eccessivamente consequenziale. Un racconto spietato che rivela ottusità, cinismi e compromessi delle nostre classi dirigenti. In realtà non era stato scritto per un pubblico italiano.
L’opera nasceva dal “bisogno inconscio” di spiegare agli inglesi perché il nostro Paese fosse stato capace di inventare il fascismo, esportandolo nel mondo. Così lo studioso era andato alla ricerca delle nostre antiche debolezze, trovandole tra le pieghe del processo risorgimentale. «Sia Gaetano Salvemini che Federico Chabod mi avevano dissuaso dal farlo, ma l’editore Laterza si mostrò deciso, anche perché voleva suscitare una discussione. Io non ero sicuro di tutti i miei giudizi, disponibile dunque a una correzione. L’editore però non volle modificare una riga ».

Il più sprezzante si mostrò Rosario Romeo, suo antagonista anche nel campo degli studi cavourriani. Di profilo intellettuale sideralmente distante – assai dotto ed elitario Romeo, più sensibile alla divulgazione Mack Smith – lo studioso siciliano liquidò la Storia come uno “sciocco libello”, e il suo giudizio non sarebbe stato più temperato per i saggi di Mack Smith su Cavour e Garibaldi. «Ogni riferimento a fatti realmente accaduti è puramente casuale », annotò Romeo a proposito delle ricerche del collega inglese. Veleno puro. Romeo era un gigante, e certo maneggiava l’argomento con una ricchezza superiore a quella del professore di Oxford. Ma la sua pungente intolleranza tradiva qualcos’altro, che Mack Smith rintuzzava con distacco. «Romeo era animato da invidia e da risentimento. Un giorno si rifiutò perfino di stringermi la mano, very unpolite.

Pensava che i miei saggi facessero male ai lettori italiani». In realtà venivano divorati dai lettori italiani, e questo a Mack Smith non fu mai perdonato. I suoi libri rappresentavano una novità anche per la scrittura. I giudizi lepidi e i ritratti sulfurei spazzavano via le dita di polvere della nostra accademia. Garibaldi? Un cavaliere generoso, peccato che non capisse nulla di politica. Cavour? Un tessitore spregiudicato, disposto a tutto pur di raggiungere i suoi obiettivi. E Vittorio Emanuele II, il re galantuomo? Macché. Era un personaggio volgare e incolto, gran puttaniere e scialacquatore di denaro pubblico.

Un altro piccolo scandalo esplose con Casa Savoia, ma a difendere il suo piglio aneddotico intervenne Enzo Forcella: quando si tratta di mettere a fuoco personalità cruciali, scrisse il giornalista, anche le annotazioni psicologiche sono importanti. E il merito di Mack Smith era stato quello di rovesciare gli stereotipi più corrivi di una storiografia di corte, rivelando il profilo semifeudale di una monarchia formalmente liberale e costituzionale.

Non fu facile la convivenza neppure con un altro maestro italiano, Renzo De Felice, assai critico verso i suoi studi sul capo del fascismo (tanti i saggi dedicati al dittatore, Mussolini, Le guerre del duce, A proposito di Mussolini, La storia manipolata). Nella sua miseria e nobiltà, l’Italia fu il grande amore della vita. Una passione che sembrava indebolita nella stagione della vecchiaia. Quando l’andammo a trovare per i novant’anni nel villino di White Lodge, Mack Smith appariva distante. Il ruolo del brillante fustigatore non gli apparteneva più, un po’ per stanchezza, un po’ perché l’Italia sedotta da Silvio Berlusconi era troppo anche per un italofilo come lui.

In realtà quel Paese era lo sbocco naturale della trama di populismo, sovversivismo, assenza di regole che Mack Smith ci aveva raccontato per quasi mezzo secolo. La storia gli aveva dato ragione, ma lui sceglieva di porgere le sue scuse postume a Romeo: «Probabilmente Romeo non aveva torto: nel rintracciare le cause della fragilità italiana, su Cavour ho esagerato un po’». Poi un lampo di malizia: «Mi sarebbe piaciuto leggere un bel libro di storia inglese scritto da uno studioso italiano. Ma è davvero raro, mi creda».
Guardava oltre il giardino, Mack Smith. La sua Italia era quella raffigurata sulle pareti di casa, il ritratto di Garibaldi acquistato da un libraio di Cambridge o la ceramica di Vittorio Emanuele a cavallo. Era la lingua che aveva condiviso con il suo vicino di casa Isaiah Berlin, che parlava italiano così spedito tanto da non riuscire a stargli appresso. Un Paese, una comunità culturale, un’idea dell’Italia che in quello scorcio del nuovo secolo non esisteva più. «Ora che ho ceduto alla biblioteca di Oxford i miei diecimila volumi di storia italiana mi sento meglio, più leggero».

Gli chiedemmo se condivideva il giudizio del suo allievo Christopher Duggan: l’Italia come un’idea troppo malcerta e contestata per poter fornire il nucleo emotivo di una nazione, almeno di una nazione in pace con se stessa. Un lungo silenzio, forse tanti ricordi. «Uno storico non può accomiatarsi dai suoi lettori con accenti apocalittici. Ci saranno pure delle incompiutezze nazionali, ma non bisogna esagerare nel disfattismo. Anzi, abbiamo il dovere di essere ottimisti». Sempre molto british, anche nell’addio.


La repubblica – 13 luglio 2017

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