Da sempre lo straniero
che arriva inaspettato suscita ansia. Il mondo greco l'esorcizzava
con riti particolari dedicati a Dioniso, il dio misterioso arrivato
dal mare. Una bella riflessione dell'antropologo Marino Niola.
Marino Niola
Straniero, ospite o
nemico cosa ci insegna la Storia
L’onda di piena dei migranti scuote l’Italia e la mette di fronte al dilemma dell’accoglienza. Ricevere a oltranza e rischiare di essere sommersi. O respingere per arginare la marea e porre fine agli effetti collaterali di Frontex. I fatti di questi giorni hanno reso la questione indifferibile.
La minaccia di chiusura
dei porti, il timore sempre più strisciante di un’invasione fuori
controllo, la percezione di un limite di sicurezza ormai superato, la
delusione per l’indifferenza di un’Europa solidale a parole e
farisaica nei fatti.
Gli episodi sono nuovi ma la questione viene da molto lontano. E per leggere fino in fondo il tumulto delle nostre emozioni, la confusione nella quale ci troviamo, può essere utile fare un passo indietro, verso la sorgente dei nostri valori e dei nostri timori. Visto che in realtà, sin dall’antichità, lo straniero è l’ospite ma potenzialmente anche il nemico.
E questa doppia
possibilità è scritta a chiare lettere nelle parole chiave delle
civiltà mediterranee, quelle che hanno permeato la nostra cultura e
formattato il nostro immaginario. Basti pensare che il latino hostis
significava lo straniero ma anche il nemico. Una parola che è stata
a doppio taglio per molti secoli della storia di Roma, prima che
comparisse il vocabolo hospes, che equivale al nostro ospite. E il
greco xenos (da cui espressioni come xenofobia) indicava il
forestiero da accogliere e onorare, ma anche lo sconosciuto di cui
verificare l’integrabilità. Il che vuol dire che ci troviamo di
fronte a figure inestricabilmente intrecciate sin dai primi passi
delle nostre civiltà. Insomma, il dilemma dell’accoglienza non
nasce oggi.
Perché il rapporto con
chi viene da fuori oscilla, per sua natura, tra un estremo ospitale e
un estremo ostile. È la regolamentazione della relazione a stabilire
il giusto equilibrio tra respingimento e accoglimento. Per evitare
che l’arrivo di altri uomini diventi un’epidemia inarrestabile. È
significativo che il mito e la tragedia greca usassero proprio la
parola “epidemie” per definire i rituali riservati agli dèi
forestieri. Come Dioniso, l’altro per antonomasia, il nume
sconosciuto che giungeva inatteso dal mare. Alla deriva su
un’imbarcazione di fortuna. Come i gommoni di ora, privati di
motore e timone da trafficanti senza scrupoli. I rituali epidemici
prevedevano una cattiva accoglienza del dio, la cui barca veniva
inizialmente ricacciata indietro.
Così la parola del
passato che, dalle sue profondità lontane, parla di noi nel suo
presente-remoto anticipando ciò che stiamo vivendo oggi. Secondo il
celebre grecista Marcel Detienne, il termine epidemia, in origine,
non apparteneva al vocabolario della medicina ma a quello della
religione e indicava l’irruzione di una potenza ignota. Una
teoxenia. Letteralmente la manifestazione di un dio estraneo. In
realtà nel Mediterraneo antico, l’ospite era sacro proprio in
quanto in lui poteva nascondersi il dio. Stranieri e mendicanti
vengono tutti da Zeus, dice Omero nell’Odissea. E nei Vangeli
Cristo dice «sono venuto da lontano e mi avete accolto».
Insomma l’arrivo di forestieri, mortali o immortali, è un chiodo fisso delle mitologie e delle religioni proprio perché esprime in linguaggio figurato il pericolo e al tempo stesso la necessità dell’ospitalità, il disordine e la ricchezza della mescolanza. O, come si direbbe oggi, i rischi e i vantaggi della globalizzazione. Non a caso il patto di ospitalità che legava l’abitante della polis greca al forestiero si chiamava xenía ed era posto sotto la protezione di Dioniso. In virtù di questo patto, il cittadino si faceva garante del nuovo arrivato nei confronti dell’intera comunità accogliente.
Tutto questo sembra dire
che, ora come allora, l’apertura è indispensabile, ma non può
essere incondizionata. Nemmeno i Greci, che pure avevano il culto
dell’ospitalità, accoglievano tutti e in tutti i casi. E
distinguevano accuratamente diritti e doveri dello straniero accolto
e perciò tutelato dalle leggi civili e dalle norme morali, da quello
che noi chiameremmo clandestino, profugo, migrante economico. La vera
sfida del presente è di immaginare forme di xenía a misura di
questo tempo. Per fronteggiare la diaspora globale in atto, con nuove
norme in grado di conciliare sicurezza e umanità. Solo così potremo
evitare che quell’equazione secca straniero uguale nemico, che
Primo Levi considerava una infezione latente in ciascuno di noi,
degeneri in malattia mortale.
La repubblica – 4
luglio 2017
Nessun commento:
Posta un commento