ph. f.v.
Nicla Vassallo,
filosofa molto nota, si è specializzata al King’s College di
Londra ed è attualmente professore ordinario di Filosofia teoretica
presso l’Università di Genova. Al presente lavora su diversi
aspetti dei rapporti affettivi e amorosi in relazione alle
istituzioni. Riprendiamo parte di una recentissima intervista
incentrata soprattutto sul rapporto tra filosofia e vita.
Nicla Vassallo
Difendere la verità
Intervista di Riccardo
Malatto
Al giovane che fa
filosofia viene a volte rimproverato dai suoi colleghi iscritti a
discipline scientifiche, di rimanere per sempre uno studioso di
filosofia, e di non diventare mai un “vero professionista”, ossia
un ingegnere, un medico, un avvocato, un fisico, un matematico ecc.
Dipende sempre con chi
studia e dove si studia. Mentre in alcuni tempi bui abbiamo avuto
l’onore di un Cartesio (filosofo e matematico; al contempo, evoluto
nel suo dialogare razionalmente con donne quali la principessa
Elisabetta del Palatinato e Cristina di Svezia), oggi, purtroppo,
eccezioni a parte, gli scienziati puntano all’iperspecialismo nel
proprio settore, e alla fama, e per la filosofia nutrono scarso
interesse. E pensare che molti progetti che fisici, ingegneri e
professionisti di altro genere hanno portato a termine sono nati, in
origine, da idee di filosofi che con loro hanno collaborato. Oppure
gli stessi “veri professionisti”, come lei li ha chiamati, hanno
indossato un doppio vestito che siamo soliti attribuire a categorie
distinte. Albert Einstein, Werner K. Heisenberg forse prima che
fisici sono stato filosofi, in molti casi il confine non è
tracciabile in modo definito. Se la tendenza dovesse continuare in
questa direzione di eccessiva settorialità si avranno sempre meno
Oliver Sacks, per citare un altro personaggio che ha speso la sua
vita nel dialogo interdisciplinare con la filosofia. Purtroppo anche
sul fronte filosofico le cose non stanno procedendo meglio. Troppi
scrivono, per esempio, di filosofia della medicina o filosofia della
fisica, senza aver mai studiato con la serietà necessaria le scienze
in questione. A rimetterci non può che essere la conoscenza. Per
fortuna ci sono ancora molte persone che perseverano nel lavoro di
qualità, nella convinzione che prima di parlare è bene conoscere e
che, rimanendo ancorati alla propria nicchia privilegiata, gran parte
di ciò che sappiamo sul mondo ci sfuggirà. Speriamo abbiano il
giusto riconoscimento.
A differenza di altri
professori, lei si pone in un dialogo costante con suoi studenti,
alla Socrate. Perché? Per “mostrarci” cosa significhi fare
filosofia indicandoci la strada per diventare filosofi?
Forse perché non sono
presuntuosa. Come potrebbe darsi un filosofo vanaglorioso? Non si
tratterebbe di un filosofo. E pertanto qui mi ritrovo amica di
Wittgenstein quando sostiene che in filosofia si traducono i medesimi
antichi pensieri in diversi linguaggi. Il non aspirare a conoscere
conduce alla disumanità: lo afferma con nettezza Aristotele sulle
forti spalle di Platone, e ancor prima Socrate e con il suo “conosci
te stesso”, esortazione religiosa e di sapienza oracolare che
troviamo scolpita sul tempio Delfi. Privi di conoscenza e di
conoscenza della nostra identità, ci imbeviamo di quella brutalità
che pure Dante, ricordando Ulisse, aborriva. Per questo sto pensando
a un volume contro l’ignoranza. Ignoranza, tuttavia, non sempre da
condannare, quando è origine della consapevolezza di se stessa e si
anima del desiderio di venire superata. Confido fermamente nel
progresso conoscitivo mio e dei miei studenti. Senza menti che
collaborino insieme criticamente e si trasmettano conoscenza per
testimonianza ci si ritroverebbe ancora all’età della pietra. Per
questo è indispensabile un progresso conoscitivo che riguarda se
stessi, l’altro-da-sé e il mondo che ci circonda. Il pensarsi
onniscienti o onnipotenti alla Icaro crea invece seri problemi.
Vuol dire in fondo che
sta educando un’élite epistemica che poco a che fare con la massa?
A cosa ci riferiamo quando parliamo di verità?
La conoscenza è una
questione elitaria solo in quanto arricchisce la nostra identità
personale, la nostra singolarità, quotidianamente, secondo per
secondo: pochi ne prendono atto. Mentre la cultura di massa –
“popular culture”, ossia una cultura intrecciata al potere – si
collega più alla stereotipizzazione, non alla conoscenza, non alla
ricerca della verità. Non voglio assolutamante educare un'élite
epistemica, se con questo temine ci trasciniamo dietro connotazioni
negative quali settaria e separata. Lungi da me! Il mio desiderio è
diametricalmente opposto. In quanto teorico della conoscenza vorrei
diffondere a più larga scala il mio contributo. Purtroppo, però,
poche persone scelgono la prima via e troppe si fregiano di
sventolare il vessillo della seconda. Sbattiamo ancora il muso sul
bivio di Parmenide. Non si può certo dimenticare
l’identificazione cristiana della verità con
Dio, ben dichiarata nell’affermazione «Io sono la
via, la verità, la vita», con tutto il suo contenuto
platonico, per cui la verità è proprietà dell’essere o
della realtà, Cosicché si parla del vero essere e della vera
realtà, come nel linguaggio comune si parla del proprio vero
amico. Aristotele limita l’applicazione di “vero” e
“falso” al discorso apofantico, ovvero alle proposizioni
affermative o negative, cosicché “vero” e “falso” non si
possono predicare dei nomi o degli aggettivi, né dei discorsi non
apofantici come le preghiere, le domande, i comandi, eccetera. In
altre parole, una proposizione è vera se corrisponde a fatti o a
stati di cose. Aristotele, invece, esprime con forza questa
teoria nel seguente modo (La metafisica, IV, 7, 1011b): «Dire di ciò
che esiste che non esiste, o di ciò che non esiste che esiste, è
falso, mentre dire di ciò che esiste che esiste, e di ciò che non
esiste che non esiste, è vero». Nello scorso secolo egli trova un
celebre difensore nel Wittgenstein del Tractatus (4.01):
«La proposizione è un’immagine della realtà». La
post-verità? Una bufala. La verità relativa? Altra bufala. Bufale
di cui la cultura di massa e il potere abusano in ottica
opportunistica.
“In tempi in cui la
menzogna domina, dire la verità è un atto rivoluzionario”. Questa
frase di George Orwell spicca sulla sua pagina web. Perché?
Chi dedica l’intera
propria vita ad andare di bolina, ovvero all’insegnamento serio,
socraticamente inteso e con la fatica che questo impegno
comporta, seguendo ogni studente singolarmente e lavorando coi
giovani migliori, dedicandomi inoltre alla ricerca filosofica più
avanzata, scrivendo, studiando… cosa vuole che le dica? Una cosa è
garantita: la ricerca della verità oggi è senz’altro un atto
rivoluzionario.
(http://www.niclavassallo.net/)
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