[Per la sua inchiesta sul giornalismo culturale contemporaneo Maria
Teresa Carbone oggi ha intervistato Goffredo Fofi. Queste sono le conversazioni
precedenti:
Gianluigi Simonetti, Ilaria Feole, Francesca Borrelli, Andrea Cortellessa, Paolo Di Stefano, Giorgio Zanchini, Valentina Berengo, Guia Soncini].
Se c’è una persona in Italia che più di tutti sa com’è cambiato il
giornalismo culturale negli ultimi anni, quella persona sei tu. Per la verità
non sono sicura che tu possa essere definito un giornalista culturale, ma da
una sessantina d’anni sembra che tu non abbia fatto altro che fondare riviste.
E non solo: collabori o hai collaborato con le testate più diverse, dal “Sole
24 Ore” all’“Unità” a “Internazionale”, scrivendo di libri e di cinema e di
tante altre cose. Dunque, come ti sembra la situazione attuale rispetto a
quando hai cominciato a muoverti in questo campo?
Beh, in breve: c’è stato un periodo in cui il giornalismo culturale in
Italia ha avuto una funzione enorme, poi è finito tutto. Negli anni Ottanta,
non ricordo esattamente quando, scrissi un editoriale per la rivista che
pubblicavamo allora, “Linea d’ombra”, che fece incazzare alcuni membri della
redazione perché il titolo fu considerato troppo volgare: era Le
mezzeseghe all’arrembaggio, e un anno dopo ne scrissi un altro
intitolato Il trionfo delle mezzeseghe. Ed è vero, erano titoli
volgari, ma io ero terribilmente inferocito contro la generazione di mediocri
arrivisti post 68 e post 77 che in quegli anni si sono dati al giornalismo e
alla cultura, e non ho potuto fare a meno di sfogarmi. E non credo di essermi
sbagliato, perché da allora le cose non sono cambiate, il trionfo delle
mezzeseghe c’è anche oggi.
Io ho nostalgia di un’epoca diversa, degli anni in cui frequentavo Giorgio
Bocca e Camilla Cederna, per dirne due, e poi tanti altri. A volte, penso per
esempio a Pasolini o a Testori, i rapporti erano conflittuali. Con loro
capitava spesso di litigare, ma perché erano critici attenti verso quello che
succedeva, e le critiche erano rivolte anche a noi, alla generazione venuta
dopo il 68, quella che stava entrando nelle case editrici e nelle redazioni.
Se vogliamo dare uno sfondo al tutto, ed è una cosa che ripeto
ossessivamente, la vera storia dell’Italia come paese degno, unitario, nuovo,
comincia con il 25 luglio 1943, con la caduta del fascismo e la nascita della
resistenza – che poi alla fine della guerra vuole dire la Costituzione, la
Repubblica, il voto alle donne, la libertà di parola… E pure la libertà di
movimento sul piano nazionale che, anche se in molti non se lo ricordano, è
arrivata tardi, solo nel 1960, perché ancora negli anni Cinquanta c’erano i
fogli di via. Soprattutto la Corte costituzionale ha avuto una grande funzione,
ha buttato via tante leggi fasciste che ancora sopravvivevano. È stato un
periodo di grande risveglio economico e intellettuale: della televisione di
Bernabei si è parlato tanto male, ma è stata quella televisione che ha
unificato l’Italia, che ha dato agli italiani una lingua: malfatta
e distorta quanto si vuole, ma una lingua comune, che prima non c’era,
perché prima i lombardi parlavano il lombardo e i siciliani il siciliano. Non
siamo diventati nazione con il Risorgimento, ma in quegli anni.
Hai detto che la vera storia di un’Italia degna comincia con il 25 luglio
1943, ma è evidente che tu vedi anche una data in cui questa storia si è
chiusa.
Sì, è una storia che si è chiusa con la morte di Moro, con quell’infame
assassinio compiuto da una banda di mascalzoni, di stupidi manipolati dai
servizi segreti italiani, israeliani, americani, russi, cecoslovacchi… Nelle
Brigate Rosse, ne sono convinto, su cinque due erano infiltrati e tre dei
coglioni, stalinisti e fascistelli. Io lo dico da sempre, e adesso anche alcuni
storici hanno cominciato a vederlo. Comunque, la storia d’Italia è stata
questa, e nel periodo che va dal ’45 al ’78 il giornalismo ha avuto
un’importanza enorme. Anche il giornalismo popolare, in un paese di
semianalfabeti com’era l’Italia di allora: ripenso spesso ai miei genitori, mia
madre che aveva la seconda elementare e leggeva “Grand Hotel”, mio padre
con la seconda elementare e mezzo (e teneva molto al suo primato) “L’Avanti” e
“La Gazzetta dello Sport”. Lo facevano con fatica, compitando, ma leggevano.
In quegli anni ci sono stati giornali e riviste che hanno avuto un ruolo
fondamentale. Vogliamo ricordare, per esempio, che “Epoca” ebbe il coraggio di
mandare uno scrittore iperborghese come Guido Piovene in giro per l’Italia?
Ogni settimana aspettavamo il suo reportage, lo leggevamo avidamente. Venne
anche nel mio paese, Gubbio, ne scrisse. E poi tanti altri settimanali,
“L’Espresso”, “Il Mondo”, “Tempo”… Era un periodo di grande crescita
collettiva e il giornalismo in questo era centrale, e non solo sulla carta.
C’era la radio, c’era la televisione che chiamava a lavorare persone come
Rossellini, Comencini, Pasolini, Soldati. E pure in letteratura, sono stati
anni straordinari: Calvino, Ortese, Bassani, Cassola, Bianciardi, Anna Banti,
Sciascia, Morante, è un elenco che non finisce più. Senza contare che alcuni di
loro sono stati anche giornalisti, educatori: Sciascia e Pasolini, per dire,
scrivevano abitualmente sui giornali, e pure Moravia, anche se a quel
tempo le sue recensioni cinematografiche sull’“Espresso” non mi piacevano,
erano troppo borghesi per i miei gusti. Ma gusti o non gusti, è stato un
periodo di gloria nella storia italiana.
E dopo la cesura, cosa si è potuto fare, cosa hai fatto tu, per contrastare
almeno un po’ quello che hai definito “il trionfo delle mezzeseghe”?
Dopo la caduta dei movimenti, parlo per me, abbiamo messo su una rivista,
“Linea d’ombra”. Dico “abbiamo” perché senza i collaboratori non si sarebbe
fatta, anzi, le collaboratrici: Roberta Mazzanti, Paola Splendore, Fabrizia
Ramondino, e altre ancora. Vedi, io sono d’accordo con quello che ha
scritto Edmund Wilson nel suo saggio Il Polonio dei letterati: la vita buona di una
rivista dura più o meno cinque anni, perché dopo non riesce più a rendere conto
della società che cambia. Io penso che nella storia si alternino periodi di
quiete e periodi di febbre: adesso in Italia sono settant’anni che in teoria
non ci sono guerre, sembra tutto tranquillo. Ma io non mi fido: c’è l’atomica e
la Russia e l’America e la Meloni e le banche e il capitalismo… Insomma, può
succedere di tutto. In ogni caso a quel tempo le riviste, e il giornalismo
culturale in genere, avevano una funzione di passaggio: servivano per
raccogliere il meglio del passato e attraverso un’analisi del presente si
sforzavano di preparare i nuovi tempi. Ma adesso dei nuovi tempi sembra che al
giornalismo, culturale e non culturale, non interessi più per nulla, siamo
tutti piombati nel presente.
Nella piccola collana di pensiero radicale che dirigo per E/O ho appena
ripubblicato una conferenza di Ignazio Silone della seconda metà degli anni
Cinquanta, La scelta dei compagni, dove lui aveva già intravisto
quello che stava per succedere. Ma possiamo andare ancora prima, al periodo
immediatamente successivo alla fine della guerra, quando Vitaliano Brancati
scrisse in un suo intervento che il problema dei nuovi tempi era il problema
degli “stupidi”: secondo lui i politici avrebbero dovuto occuparsi della
miseria, della giustizia sociale, dei derelitti, mentre il compito degli
intellettuali sarebbe stato di rendere intelligenti gli stupidi. Dove per
stupidi si intendevano gli analfabeti, quelli che sapevano a stento leggere e
scrivere, che non avevano idea di cosa fosse un libro. Non dimentichiamo che
fino ai primi anni Sessanta l’Italia era un paese di analfabeti e di contadini.
Certo, non dobbiamo dimenticarlo, anche se oggi la situazione è cambiata
completamente: se guardi i dati, vedi che l’analfabetismo è stato sconfitto,
che tutti sanno leggere e scrivere. Eppure, per certi versi non sono
sicura che le cose vadano molto meglio.
Adesso c’è una forma di analfabetismo morale. Forse si legge di più, ma la
quantità di libri inutili è aumentata enormemente: io di libri ne ricevo tanti,
e la maggior parte li do via dopo avere dato un’occhiata. Vedi tutti quei
volumi sul tavolo? Sono arrivati in questi ultimi giorni, e io so già che ne
salverò al massimo tre o quattro. Il problema vero è l’idea che chiunque possa
fare lo scrittore: basta che sei andato a scuola, che hai fatto le superiori, e
tutt’intorno a spingerti ci sono le scuole di scrittura, le agenzie letterarie,
le case editrici. Ma io una letteratura piatta come quella di questi ultimi
anni non me la ricordo in tutta la vita, nemmeno nel pieno del fascismo, perché
a quel tempo c’erano fior di scrittori: Bontempelli, Paola Masino, Pirandello,
Savinio, De Chirico – e pure traduttori, Furore di Steinbeck è
stato un bestseller sotto il fascismo, e perfino in una casa come la mia
entravano dei libri. Forse non erano capolavori, ma erano libri che lasciavano
il segno: La cittadella di Cronin, L’amante dell’Orsa
Maggiore di Piasecki, Via col vento, che con tutti i suoi
limiti è un grande romanzo, se abbiamo capito qualcosa della storia degli Stati
Uniti è grazie a un libro così. Oggi, per ogni novità che usciva negli anni
Quaranta, ne escono sette, otto, quindici. Tutti cercano i loro dieci minuti di
successo, ma dieci giorni dopo nessuno se ne ricorda più, e così il giro
ricomincia.
Ma come pensi che si sia arrivati a questo punto?
Guarda, la catastrofe non è nazionale: basta rileggere quello che ha
scritto quarant’anni fa Christopher Lasch, l’ultimo dei grandi sociologi
statunitensi. Negli anni Ottanta il capitalismo, e da parte sua mettiamoci pure
lo stalinismo, hanno distrutto tutto. Il capitalismo ha ammazzato Lumumba, Che
Guevara, Malcolm X, Martin Luther King, e ha fatto secco anche il Sessantotto,
con l’unica lucina parziale del femminismo che però, se vedi soprattutto cosa è
successo negli Stati Uniti, è entrato nel filone delle rivendicazioni
identitarie, delle minoranze che non volevano più fare la rivoluzione ma
chiedevano solo di stare meglio. C’è un film bellissimo di Chris Marker, Le
fond de l’air est rouge, che ha come sottotitolo “Scene della terza guerra
mondiale”, e la terza guerra mondiale è quella che è stata combattuta dopo il
Sessantotto, fino agli ultimi anni Settanta e oltre, e che in definitiva ha
portato alla sconfitta dei movimenti.
Il capitalismo è capace di aggiornarsi sempre, e continua ancora: mai la
scienza è stata asservita come oggi al potere economico. E allo stesso modo
internet è in mano ai supercapitalisti. Del resto, l’evoluzione dei mezzi
tecnici non avviene mai in modo casuale: anche il cinema, che a suo tempo ha
alfabetizzato il mondo, che nel bene e nel male ha saputo creare sogni, ora è
stato ucciso dalla televisione, dalla rete. È inutile girarci intorno: i grandi
movimenti di acculturamento collettivo hanno fallito.
Anche le riviste oggi sono come salottini in cui ognuno fa le cose per sé,
senza guardare quello che c’è fuori. Il sistema favorisce la specializzazione,
e anche il pubblico è cambiato, anche tra i giovani sembra sia venuto meno
l’istinto di agire in funzione degli altri, di cercare in qualche modo di
cambiare il mondo. È quello che Lasch chiamava narcisismo e per Silone era il
nichilismo di massa. Si pensa all’oggi, si vive in funzione dell’eterno
presente. Si organizzano centomila convegni e trovi sempre gli stessi nomi,
persone che parlano di tutto e non hanno nessuna esperienza della vita. Ripeto,
il capitalismo ha stravinto non solo in Italia, ovunque nel mondo. E al suo
servizio non ha solo gli scienziati, ma anche i giornalisti.
Messa in questi termini, sembra che l’unica strada possibile sia
dichiararsi sconfitti, ma mi pare che al contrario tu non ti sia mai arreso:
non hai mai smesso di scrivere e di fondare nuove riviste, “Linea d’ombra” e
poi “La terra vista dalla luna”, “Lo straniero”, “Gli asini”, e domani chissà
ancora cosa. Come ha scritto Emiliano Morreale nell’introduzione alla raccolta
dei tuoi articoli Son nato scemo, morirò cretino (minimum fax,
2022), sei “una figura che nell’era dei contatti virtuali porta ostinatamente
avanti una ricerca fisica di luoghi e di persone”.
Certo, come diceva il compagno Beckett: “Non posso continuare, continuerò”.
E come diceva Salvemini, riprendendo Kant: “Fai quel che devi, accada quel che
può”. Oggi il nostro dovere è difenderci dalle mezzeseghe, e l’unico modo è
rialfabetizzare, costruire minoranze agguerrite, intelligenti, preparate. In
questo senso il giornalismo, le riviste, servono ancora, molto più
dell’università, che si è tagliata la lingua e il naso e le palle, e produce
una delle peggiori classi dirigenti del mondo. In effetti, oggi a essere morto
non è il giornalismo, ma la politica: è accaduto anche altrove, ma in Italia la
classe politica è peggiore, perché non abbiamo avuto una rivoluzione borghese e
neanche una riforma, siamo ancora un popolo di servi. Dunque, due sono le chiavi
che abbiamo: essendo noi alfabetizzati, alfabetizzare – e in questo le riviste
possono essere uno strumento, se intorno alle riviste c’è un gruppo, c’è gente
che fa; e poi rendere conto delle cose positive che nonostante tutto ci sono,
cercare – come ha detto Calvino – di vedere nell’inferno quello che l’inferno
non è, e dargli fiato.
Pezzo ripreso dal sito leparolelecose
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