L’ESTASI
IN WERNER HERZOG TRA CINEMA E ALTRE ARTI
di Mirko Lino
[Qualche settimana fa è uscito per la collana Lingue e letterature di Carocci il volume Lo specchio senza fine. L’autorialità fra letteratura, cinema e teatro, a cura di Silvia Cucchi, Mirko Lino e Lorenzo Marchese. Il libro, attraverso un discorso a più voci, problematizza la figura dell’autore nel panorama contemporaneo e ne suggerisce un ripensamento multidisciplinare e multi-identitario, con la speranza di andare oltre concetti ormai invalsi come «morte dell’autore» e ripensare il problema non più in termini di «soggetti» ma di «funzioni». Si presenta qui un estratto del saggio di Mirko Lino su Werner Herzog]
1
«In celluloid we trust»[1]
Quando ci si confronta con l’opera di Werner Herzog si maneggia il
materiale di uno dei registi più incisivi e monumentali della storia del
cinema, in grado, film dopo film, di redigere un preciso inventario visivo con
uno stile unico, attorno alla quale prende forma una profonda indagine sulla
relazione tra forme filmiche e potere estatico dell’immagine. Ma si maneggia
anche uno spazio creativo molteplice che, se da un lato vede la costruzione
dell’individualità poetica lungo i percorsi tradizionali del cinema – la
ricorrenza di motivi visivi; una relazione materiale assoluta con i propri
testi filmici esplicitata nell’investimento fisico per la realizzazione –
dall’altro, annovera anche l’esplorazione artistica tramite ulteriori esperienze
autoriali, che estendono il lavoro sull’estasi dallo spazio filmico a quello
dell’opera lirica e della narrativa.
In generale, l’identità autoriale di Herzog ricalca un modello moderno:
l’avvio della carriera negli anni Sessanta con il primo lungometraggio, Segni
di vita (1968) e i corti più sperimentali[2] all’interno
del contesto di innovazioni linguistiche e produttive avviate a partire dal manifesto
di Oberhausen[3], e i modi di
stabilire una solida autenticazione autoriale incidendo la propria presenza nei
film (Nagib, 2012, pp. 58-9). In Herzog la dimensione estetica, caratterizzata
dallo scardinamento delle forme canoniche del cinema tramite la ricerca di una
deragliante visionarietà, coincide con una prassi realizzativa spiccatamente
fisica, incentrata sulla suturazione dell’autore al testo, tale da orientare
l’intera organizzazione del sensibile all’interno del film. Questo vincolo
trova la sua argomentazione in una ricca produzione comprendente una sessantina
di titoli, tra lungometraggi di finzione, documentari, corti, e film
televisivi. Nell’insieme, questa lunga e articolata filmografia costituisce un
corpus intertestuale compatto, disposto su motivi visivi, gesti e una messa in
forma dei paesaggi in una rete di figure, immagini e suggestioni densamente
intrecciate tra loro. Lo stesso regista ha ribadito in più occasioni la
coesione interna di forme e visioni nei propri film: «ci sono dei motivi che
ricorrono, come ad esempio un’auto che gira su se stessa senza guida
all’infinito […] o le grandi ribellioni che si concludono con grandi
fallimenti, o il modo in cui viene impiegata la musica […] forse questo è
anche un punto di forza che fornisce una certa unità alle opere, probabilmente
è una qua- lità, al cinema» (cit. in Grosoli, Reiter, 2016, p. 7).
Le grandi imprese fallimentari dei personaggi più noti, da Aguirre (1972)
a Fitzcarraldo (1982) sino a Cobra Verde (1987)
assieme all’indagine su esperienze di personaggi atipici (nani, storpi,
sordociechi, ecc.) aprono lo sguardo a un sostrato nascosto nelle cose e nella
natura, che trova la propria rivelazione attraverso una sistematica
intensificazione dell’immagine filmica. Pertanto, diviene possibile inquadrare
la poetica del cinema herzoghiano all’interno di una sensibilità
estatica che insiste sulla trasfigurazione della realtà e il
componimento dell’immagine filmica come un campo di forze, ricettacolo di un
vasto e diversificato repertorio di evocazioni a figure, fatti e immaginari
trasversali. Tradizioni mitologiche e folkloriche, soggetti letterari e
teatrali, personaggi visionari e anacronistici, vengono elaborati tra realtà e
finzione, tra oggettività e slancio poetico, delineando un sublime
inquieto dispiegato lungo un repertorio di immagini interiori e
sfuggenti sul mondo. Questo lavoro poetico si intreccia con la competenza
artigianale sfoggiata nella realizzazione dei film: un investimento
fisico totale che trova traccia nell’assidua iscrizione della propria presenza
nelle riprese dei documentari e che ha contribuito anche a epicizzare
l’immagine stessa del regista[4]. Come
sottolinea Peucker (2012, p. 35), lo sforzo soggettivo è assolutamente
inscindibile da quello fisico, e tale continuità illustra i modi in cui il
regista si fonde non solo con il mondo materiale organizzato nei film ma con
l’immagine filmica stessa. In diversi documentari, Herzog viene ripreso durante
il lavoro organizzativo, lasciando affiorare una modalità “artigianale”, cifra
del lavoro direttamente sul campo per catturare eventi unici e rari, immagini
mai viste o sovrascrivere al mondo conosciuto forme di visione primordiali e
adamitiche, tali da arricchire la prassi filmica della manualità dello scultore
e del pittore:
In tutte le sue opere si riscontra una fascinazione per lo sforzo fisico,
non solo nei suoi film sullo sport […] ma anche nel modo in cui i suoi film
sono fotografati. Herzog e i suoi esperti cameraman fanno affidamento
sull’atletismo nel posizionamento della telecamera; il corpo è integrato
nell’opera, come lo sarebbe nell’atto di scolpire o dipingere (Prager, 2007, p.
2)[5].
(…)
Il lavoro poietico si intreccia profondamente con la prestazione atletica
richiesta dell’atto filmico: il camminare, il pellegrinaggio, lo scalare e il
viaggio sono infatti motivi figurativi che vibrano costantemente nel cinema di
Herzog[6], divenendo
paragonabili a delle forme cinematografi- che tutte intrinseche alla ricerca
visiva del regista (Dottorini, 2022, p. 31.) e forme dell’integrazione totale
tra vita e cinema. Così, al corpus intertestuale, composto di rimandi ed
evocazioni visive tra i film, risponde la solida presenza altrettanto
intertestuale del regista inscenata nel tessuto stesso delle immagini e nella
loro organizzazione. E in tale combinazione, poetica e fisica, estatica e
realizzativa, si configura un’immagine autoriale che si carica di un sentimento
sacrale e mistico, che rilegge la prassi filmica come un atto di fede totale
verso il cinema[7].
L’autorialità di Herzog poggia allora sulla perfetta fusione tra
l’ossessione di un immaginario poetico e la sfida della realizzazione del film.
E proprio questo raccordo permette di orientare la riflessione all’interno di
una prospettiva intermediale: da un lato, lo sforzo soggettivo che eccede le
forme filmiche restituisce all’immagine una nuova realtà percettiva,
sovraccaricata di suggestioni – l’immagine filmica come esperienza
estatica – tramando dei contrappunti intermediali soprattutto con la
pittura e musica; dall’altro, la prassi artigianale conduce la riflessione
verso la dimensione performativa, dove trasversalmente l’esperienza autoriale
nel cinema si prolunga, scompone e ricompone nella regia operistica e nella
narrativa. Se, dunque, Herzog impregna i propri film di un’estasi tutta
intermediale, al contempo transcodifica ed espande in altri ambiti artistici la
sensibilità estatica del proprio cinema.
2.1 IL RESPIRO DELLA PITTURA
Il rapporto di Herzog con la pittura è sicuramente stratificato: rimanda a
una rete di evocazioni che intensificano la potenza visiva dell’immagine, e al
contempo assolve una funzione fortemente stilizzante. Quest’ultimo aspetto è
ben evidente, ad esempio, in Apocalisse nel deserto (1992) –
complesso documentario sulla Prima guerra del Golfo, organizzato sui toni e i
modi di una cupa storia di fantascienza[8] su un pianeta
morente – dove le immagini aeree dei pozzi petroliferi in fiamme nel deserto
rimandano ai cromatismi infuocati della pittura apocalittica di John Martin. Ma
un film emblematico per indagare ancora più in profondità l’intensa relazione
estatica tra immagine filmica e pittura è indubbiamente Cuore di vetro (1976),
ispirato alle leggende apocalittiche del medioevo tedesco descritte in un
capitolo del romanzo Die Stunde des Todes (1975) di Herbert
Achternbusch. Nel film, la follia che guida una piccola comunità rurale verso
la tragedia apocalittica viene articolata lungo una serie di richiami ed
evocazioni pittoriche della tradizione barocca, fiamminga e romantica,
ampliandone notevolmente il portato visionario. La tensione verso l’assoluto
della pittura di Caspar David Friedrich, i contrasti tra luce e oscurità della
pittura barocca (soprattutto Georges de la Tour) e la figurazione del grottesco
tipico di Bruegel il Vecchio contribuiscono a rendere il film «l’opera
herzoghiana più ricca di informazioni sensoriali in ogni inquadratura e anche
la più “costruita” [dove] procedimenti antinaturalistici e dirette citazioni
pittoriche contribuiscono a creare un universo remoto, splendido ma
inquietante» (Grosoli, Reiter, 2016, p. 78). Cuore di vetro mostra
il collasso di un villaggio di epoca preindustriale a seguito della morte del
mugnaio, l’unica persona a conoscenza dei segreti della produzione del vetro
rubino con cui si sosteneva la comunità. Il sentimento di apocalisse imminente
trova un’indelebile materializzazione nelle atmosfere sospese,
nell’indeterminatezza della collocazione spazio-temporale della storia e
soprattutto nella recitazione sotto ipnosi degli attori[9]. La lentezza
dei gesti e l’onirico inciso sul volto dei personaggi dà forma a quadri di una
follia sublime e grottesca che si staglia nel remoto dell’inconscio dello
spettatore: lo sguardo ipnotizzato sembra rivolgersi a un altrove
irraggiungibile, sito al di là del tempo e dello spazio, raffigurabile con il
contributo di costanti richiami a tensioni appartenenti alla pittura, in un
rapporto che si fa complementare al sensibile racchiuso nella forma filmica.
L’inquadratura iniziale del pastore Hias, ripreso di spalle a fronteggiare con
lo sguardo una distesa di nebbia che gli si staglia dinanzi, rievoca
esplicitamente la tensione verso l’assoluto espressa nel celebre dipinto Il
viandante sul mare di nebbia (1818) di Friedrich. Nella sequenza
finale, le suggestioni friedrichiane incidono nuovamente le inquadrature: un
gruppo di sopravvissuti rifugiati su un’isola rocciosa e in attesa
dell’apocalisse sembra comporre il tableau vivant delle Bianche
scogliere di Rügen (1818).
Figura 1
Figura 2
L’atmosfera di sospensione che ammanta il film trova un’ulteriore specifica
in inquadrature di paesaggi cristallizzati nella nebbia e di orizzonti lontani
che rievocano opere quali Monaco in riva al mare (1808)
e Il mare di ghiaccio (1823-24). All’interno della locanda,
ambiente in cui si avverte maggiormente il crescendo di follia generale
culminante in un’ecpirosi finale (l’incendio della vetreria), le rievocazioni
pittoriche vengono espresse, invece, tramite i contrasti tra illuminazione a
candela, ombre e figure, con forti richiami al campionario umano esplorato nei
dipinti di Georges de la Tour – si vedano le corrispondenze tra il suonatore di
ghironda della locanda e il suo Suonatore di ghironda con cappello (1620).
Nella vetreria, una lenta panoramica orizzontale restituisce i corpi degli
operai al lavoro come una composizione di figure e gesti caravaggeschi; queste
immagini delineano una delle scene più intense del film, in cui l’idea di
artigianalità, espressa dalle pose degli operai che maneggiano l’incandescenza
del vetro fuso, si coniuga con l’attrazione dell’estatico, i cui fermenti
risiedono proprio nel prolungamento del filmico verso il pittorico. Il senso di
un’apocalisse imminente, anticipato dalla follia (ad esempio, uomini che
danzano con i cadaveri) e intensificato dallo sfaldamento di un senso univoco
del visivo, esplode nella scena della processione degli abitanti che portano
lungo la strada l’anziano proprietario della vetreria seduto sulla poltrona da
cui si rifiuta di scendere da anni: una marcia di uomini ipnotizzati, con lo
sguardo cieco e incastonato nell’invisibile, senza una direzione precisa, che
trova una forte corrispondenza nell’umanità grottesca raffigurata nella Parabola
dei ciechi destinati a cadere (1568) di Bruegel il Vecchio. Queste e
altre evocazioni vanno oltre il mero dato citazionistico: i tratti pittorici,
infatti, vengono scomposti e ricomposti, infusi nella composizione
dell’immagine come «ritorni, sopravvivenze, gesti e forme parziali» (Dottorini,
2022, p. 66). Le immagini di Cuore di vetro costruiscono dei
potenti contrappunti intermediali, in cui le forme filmiche trovano una loro
rielaborazione nell’intensità racchiusa nelle opere pittoriche. Le immagini
scivolano verso la cristallizzazione del visivo: il flusso del film, il suo battito,
viene rallentato, portando le immagini non tanto a muoversi quanto a
“respirare”, aprendole così a folgoranti momenti di contemplazione.
Figura 3
Figura 4
2.2 IL CANTO DELLE IMMAGINI
Non solo la pittura si innerva nell’inquadratura infondendo il suo respiro
al ritmo del film, anche la musica intreccia un fitto e diretto dialogo con la
materia dell’immagine impregnandola di estasi. Come sottolinea Dottorini, la
musica nel cinema di Herzog funziona come un operatore di
trasformazione (ivi, p. 68), capace di rivelare le polarità
intrinseche di quanto viene raffigurato. Questa funzione della musica viene
caratterizzata in maniera paradigmatica nella scena iniziale della Grande
estasi dell’intagliatore Steiner, documentario dedicato alle imprese
atletiche dello skijumper Walter Steiner. Il documentario si
apre con il volo dell’atleta seguito in ralenti dalla macchina
da presa e tramite un piano ravvicinato; la traiettoria del volo rallentata si intreccia
con la musica onirica dei Popol Vuh, orientando lo sguardo dello spettatore
verso un’epifania estatica. La fusione degli elementi visivi e sonori svuota il
gesto agonistico di Steiner di tutta la sua fisicità: l’incedere della musica,
infatti, sembra sospingere il volo dello sciatore oltre i limiti della gravità,
inscrivendolo a una mitografia del volo, come istanza di una visione estatica
tutta interna alla produzione herzoghiana[10].
L’uso del ralenti, oltre a restituire il senso di leggerezza del volo, incanta
lo sguardo attorno alcuni particolari inscritti nell’atleta: il corpo proteso
in avanti in un atteggiamento di sfida, i palmi delle mani rivolti al vento e
la bocca aperta, sono tutte cifre di un’estasi che dallo schermo plana, grazie
al soffio dalla musica elettronica, verso i territori onirici dello spettatore.
Il gesto atletico si traduce allora in esperienza estatica.
La fascinazione verso il potenziale estatico della musica trova una sistematica
manifestazione sin nel primo lungometraggio: Segni di vita. Il
film, ambientato nel periodo dell’occupazione tedesca della Grecia durante la
Seconda guerra mondiale, illustra l’emergere della follia del protagonista, il
paracadutista Stroszek, attraverso la correlazione tra mondo interiore e
musica. Durante una passeggiata tra i vicoli del paese, l’attenzione di
Stroszek viene catturata da una sonata di Chopin eseguita al piano da un suo
commilitone (interpretato da Florian Fricke, leader dei Popol Vuh). Il dialogo
tra i due ruota attorno al genio romantico del compositore francese, definito
“malvagio e imprevedibile”, e ai suoi componimenti inusuali e in anticipo sui
tempi. L’ascolto di Chopin innesca in Stroszek la rivelazione di emozioni
nascoste, che troveranno espressione nel gesto, carico di ribellione e
fallimento, di lanciare fuochi d’artificio contro il sole. Ma è sicuramente
con Fitzcarraldo (1982) che si impone la capacità della musica
di innescare ossessioni visionarie nella materia del film. Fitzcarraldo segue
l’impresa folle e visionaria dell’omonimo protagonista di costruire un teatro
dell’opera lirica nella città di Iquitos, immersa nella natura selvaggia della
foresta amazzonica. Il ruolo della musica si articola lungo una serie di atti
di fede che trovano il loro culmine nell’impresa realizzativa del film stesso,
ben rappresentata dagli sforzi concreti impiegati nel far salire un pesante
battello a vapore su una montagna nel cuore della foresta per fini
squisitamente poetici. I suoni primordiali della natura si impastano con la
voce feticcio di Caruso, creando intrecci di una deragliante poeticità.
Figura 5
L’accostamento tra la primordialità della foresta[11] e
gli eccessi della finzione operistica – su cui ad esempio si sofferma l’incipit del
film con le riprese dell’Ernani al teatro di Manaus – non sembrano però
ridursi all’incisione di una suggestiva dissonanza tra mondo selvaggio e
drammatizzazione del mondo: piuttosto, alludono al tracciamento degli assiomi
dei sentimenti estatici che accomunano l’opera e la foresta (Herzog, 2004, p.
204). Ad esempio, alle scene che insistono sugli sforzi materiali e fisici di
condurre la pesante imbarcazione tramite un complesso sistema di pulegge e funi
sopra la montagna risponde la leggerezza del duetto “Mimì tu più non torni”
della Bohème di Puccini. Vi è un continuo atto di fede verso
la potenza espressiva della musica, nel suo scavare nella profondità dell’animo
umano, che trova una delle più efficaci rappresentazioni nella scena della
furia distruttiva delle rapide del Rio das Pongo che intrappolano il battello:
l’escandescenza della natura prova a essere placata da Fitzcarraldo mettendo
sul grammofono un’incisione di Lucia di Lammermoor di
Donizetti.
Forma filmica e struttura musicale si compenetrano profondamente in uno dei
film più sperimentali di Herzog: Gesualdo – morte per cinque voci,
dedicato alla musica e alla figura del compositore cinquecentesco di madrigali
Gesualdo da Venosa. Si tratta di un film sicuramente ibrido[12],
in cui la mistione tra verità e invenzione viene fortemente stilizzata. Lo
svolgimento stesso del film, girato tra i luoghi di Gesualdo, procede per
stratificazioni, alternando ricostruzioni storiche attorno al geniale
compositore, interviste a personaggi bizzarri e le esecuzioni di alcuni dei
suoi madrigali più significativi. La struttura del film si adagia proprio su
quella del madrigale, sviluppando così una narrazione, per l’appunto,
polifonica, articolata su più registri e dai contorni metatestuali, con cui
tradurre in immagine la folle delicatezza della musica di Gesualdo.
BIBLIOGRAFIA
CRONIN P. (2002), Herzog on Herzog, Faber & Faber, London.
ID.
(2014), Werner Herzog. A Guide for the Perplexed. Conversation with
Paul Cronin, Faber & Faber, London.
DOTTORINI D. (2022), Werner Herzog. L’anacronismo delle immagini,
Luigi Pellegrini Editore, Cosenza.
GROSOLI F., REITER E. (2016), Werner Herzog, Il Castoro, Milano
(ed. or. 2000).
HERZOG W. (2004), La conquista dell’inutile, trad. it. di M.
Persetti, A. Ruchat, Mondadori, Milano
NAGIB L. (2012), Physicality, Difference, and the Challenge of
Representation: Werner Herzog in the Light of the New Waves, in B. Prager
(ed.), A Companion to Werner Herzog, Wiley-Blackwell, Chichester, pp. 58-79.
PEUCKER B. (2012), Herzog and Auteurism: Performing Authenticity, in B.
Prager (ed.), A Companion to Werner Herzog, Wiley-Blackwell, Chichester, pp.
35-57.
PRAGER B. (2007), The Cinema of Werner Herzog. Aesthetic Ecstasy and Truth,
Wallflower Press, London-New York.
ROGERS H. (2012), Death for Five Voices: Gesualdo’s “Poetic Truth”,
in B. Prager (ed.), A Companion to Werner Herzog, Wiley-Blackwell,
Chichester, pp. 187-207
[1] Il
titolo del paragrafo si rifà all’affermazione pronunciata da Herzog in Il
diamante bianco (2004) poco prima di salpare su uno dei dirigibili più
piccoli e leggeri al mondo per effettuare le riprese dall’alto della foresta vergine
della Guyana francese, ovvero, per catturare immagini ancora sconosciute
all’uomo.
[2] Si
vedano in particolare Ercole (1962), La difesa
esemplare della fortezza di Deutschkreutz (1966), Ultime
parole (1967), Provvedimenti contro i fanatici (1969).
[3] Manifesto
redatto e firmato da ventisei registi durante il festival del cortometraggio di
Oberhausen del 1962, il cui obiettivo era denunciare la necessità di una nuova
sensibilità estetica e produttiva del cinema tedesco. Successivamente al
manifesto ha preso avvio una stagione di rinnovamento, grazie ai sussidi
statali per il finanziamento e le distribuzioni dei film, e soprattutto al
contribuito delle nuove generazioni di registi emergenti, come Fassbinder,
Wenders, Kluge, Von Trotta e altri. Herzog viene considerato uno dei nomi di
riferimento di questa stagione, e nonostante i numerosi contatti con i suoi
protagonisti non ha mai aderito al manifesto. Per un quadro delle motivazioni
del regista, si veda Cronin (2014, pp. 43-8).
[4] Lo
stesso Herzog considera il lavoro del cineasta come un’abilità pressoché
manuale, tale da coinvolgerlo totalmente nel processo realizzativo: «Sento
molto fortemente il lavoro di regista come lavoro fisico, dico sempre che fare
film è un esercizio atletico […] lo sento proprio come un lavoro manuale»
(cit. in Grosoli, Reiter, 2016, p. 6).
[5] Throughout
his works, one finds a fascination with bodily exertion, not only in his films
about sports […] but also in the way his films are photographed. Herzog and his
experienced cameramen rely on athleticism in their placement of the camera; the
body is integrated into work, as it would be in the act of sculpting or
painting».
[6] Si pensi
al film di montagna Grido di Pietra (1991) e al documentario
sullo scalatore Messner, Gasherbrum – Der Leuchtende Berg (1984),
o al pellegrinaggio a piedi e in con- dizioni estreme dei fedeli per assistere
al rito buddista del Kalachakra, al centro del documentario Kalachakra,
la ruota del tempo (2003).
[7] Le
vicende attorno ai problemi di produzione legati alla scelta di far salire un
battello a vapore su una montagna nella foresta amazzonica trovano spazio
in La conquista dell’inutile (2004), il diario della
produzione del film Fitzcarraldo, su cui ritorneremo. Vale la pena
ricordare come all’inizio del libro Herzog si soffermi a descrivere
l’incredulità dei produttori davanti all’intenzione di far salire il pesante
battello sulla montagna, e alla sua secca opposizione alla loro proposta di
girare la scena in uno studio: «considero ovvio e scontato che si lavori con
una nave vera su una collina vera, e non per amore di realismo, ma per la
stilizzazione di un grande evento dell’opera lirica» (Herzog, 2004, p. 13).
[8] Il
documentario, infatti, viene considerato parte della cosiddetta trilogia di
fantascienza che include anche Fata Morgana (1970) e L’ignoto
spazio profondo (2005).
[9] Come è
noto, lo stesso Herzog ha ipnotizzato gli attori. Per un approfondimento, si
veda Greenberg (1976).
[10] . L’idea del volo come dello scollamento dalla
superficie del reale ed esperienza del mai visto attraversa trasversalmente la
filmografia herzoghiana. Le prime tracce rilevanti si possono ricondurre
al documentario Nel paese del silenzio e dell’oscurità (1971),
e arrivano a divenire temi centrali in film successivi come Little
Dieter Needs to Fly (1997), Il diamante bianco (2004)
e L’ignoto spazio profondo (2005).
[11] Il film apre con un intertitolo che annuncia:
«Cayahuari Yaru, così gli Indios della foresta chiamano questo paese, il paese
dove Dio non riuscì a portare a termine la creazione. Essi credono che tornerà
soltanto dopo la scomparsa degli uomini per completare la sua opera».
[12] Si vedano Dottorini (2022, pp. 70-3) e Rogers
(2012, pp. 187-206).
Articolo ripreso da https://www.leparoleelecose.it/?p=47932.
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