Il rapporto tra
“grande spazio” e guerra nella riflessione di Carl Schmitt.
Scritto negli anni della guerra, il saggio dimostra (se ce ne fosse
ancora bisogno) come anche i grandi intellettuali non siamo immuni
dal contagio dell'irrazionalismo quando questo diventa elemento
centrale del momento storico. Un ammonimento per l'oggi in cui si
tende a vedere i tanti Salvini in giro per l'Europa come elementi
folkloristici. Un errore già avvenuto con Hitler.
Roberto Esposito
SANGUE, SUOLO E GRANDE SPAZIO IN C. SCHMITT
Dopo la
pubblicazione dei Quaderni neri di Heidegger, l’edizione italiana
dei saggi di Carl Schmitt raccolti in Stato, grande spazio, Nomos per
Adelphi (egregiamente curati da Giovanni Gurisatti, con una
postfazione di Günter Maschke) ripropone la domanda sulla relazione
ambigua tra filosofia e politica. Che uso fare dei concetti di un
grande giurista — quale senza dubbio Schmitt è stato — coinvolto
pesantemente nella politica nazista? È possibile pensare contro di
lui attraverso le categorie interpretative che egli stesso fornisce?
Benché l’antologia
comprenda una serie di testi distesi lungo l’arco di un
cinquantennio — da quelli degli anni Venti sul concetti del
“politico” a quelli, degli anni Cinquanta- Settanta, sul nuovo
nomos della terra — i saggi che pongono con più urgenza tale
interrogativo sono gli scritti del periodo della guerra, a partire da
L’or-dinamento dei grandi spazi nel diritto internazionale.
In esso, scritto quando già le armate tedesche dilagavano a est e a ovest della Germania, l’autore legittima in termini giuridici la politica di guerra nazista. Il grimaldello teorico adoperato per smantellare l’ordine fissato dalla pace di Versailles e difeso dalla Società delle Nazioni è il concetto di “grande spazio”. Nato come estensione all’ambito mitteleuropeo della dottrina Monroe — che sanciva l’indipendenza americana da qualsiasi ingerenza straniera, consentendo di fatto l’espansione imperialistica degli Stati Uniti — esso si adattava perfettamente alle finalità criminali del Terzo Reich. Il punto di rottura dell’ordine giuridico precedente è giustamente identificato da Schmitt nella rivendicazione di Hitler, fatta al Reichstag il 20 febbraio del 1938, di un diritto alla tutela dei gruppi etnici tedeschi viventi in Stati esteri. Essa presuppone la sostituzione del concetto spaziale di impero (Reich) a quello, ormai considerato residuale, di Stato.
Diversamente da questo,
stretto nei propri confini nazionali, il grande spazio imperiale è
un territorio sovranazionale composto da una pluralità di nazioni
subordinate, unite dalla identità etnica del popolo che lo abita.
A partire da un simile
concetto, apparentemente neutrale, Schmitt elabora il versante più
scopertamente strumentale del proprio discorso. Fin quando al centro
dell’Europa è mancato un grande spazio di quel tipo, il diritto
degli Stati europei non è stato che una copertura degli interessi
delle democrazie occidentali occupate a costituire i propri imperi
coloniali. Ma con la vittoria del nazionalsocialismo, anche in Europa
si apre la possibilità di una “grande politica”, secondo le
ambizioni di un popolo legittimato all’esistenza «dalla sua specie
e dalla sua origine, dal suo sangue e dal suo suolo».
A tale aspirazione —
scrive Schmitt — «l’azione del Führer ha dato realtà politica,
verità storica e un grande futuro nel diritto internazionale». Solo
adesso il popolo tedesco può finalmente sfuggire alla morsa delle
potenze nichilistiche dell’America e della Russia sovietica che,
come Heidegger sosteneva nella Introduzione alla metafisica,
stringono alla gola la Germania e l’Europa intera. Il che non
impedisce a Schmitt di legittimare il patto russo-tedesco del 1939
orientato a smembrare la Polonia. Nonostante le assicurazioni fornite
da Schmitt al processo di Norimberga circa il carattere puramente
scientifico dei propri saggi, la loro convergenza con la politica
estera nazista è palese. È vero che il “grande spazio” del
giurista non ha il significato inequivocabilmente razziale dello
“spazio vitale” invocato dai nazisti. Ma è lo stesso Schmitt a
ricordare come a rendere operativo il proprio concetto di spazio
siano state le contemporanee ricerche biologiche tedesche.
Del resto, a fugare ogni dubbio sugli effetti del proprio discorso, egli non manca di ricordare che il rapporto tra un popolo e il suo spazio risulti incomprensibile agli ebrei, in quanto tali sempre sradicati e delocalizzati. Certo, anche nel caso di Schmitt, si può parlare, come fa Donatella de Cesare per Heidegger nel suo Heidegger e gli ebrei, di antisemitismo metafisico. Ma ciò non assolve l’autore dalle sue responsabilità. Ciò vuol dire che va messo all’indice? Sarebbe come dire che l’Emilio di Rousseau va dato alle fiamme perché il suo autore ha abbandonato i propri figli in orfanotrofio. Al contrario, i suoi paradigmi, alcuni dei quali straordinariamente attuali, come quello stesso di “grande spazio”, vanno adoperati anche contro le sue stesse intenzioni.
Che la categoria di Stato
sovrano sia inadeguata alla comprensione del mondo contemporaneo è
un dato di fatto. Così come l’idea che l’unico ordine mondiale
accettabile sia un difficile equilibrio tra aree di grandezza
continentali in dialogo tra loro. Non è a essa che anche l’Europa
Unita, se mai diverrà tale, deve ispirarsi? Come Schmitt stesso
dovrà riconoscere nel 1955, pur senza aver mai preso le distanze
dalle tesi precedenti, «anche nella lotta spietata tra le nuove e le
vecchie forze possono nascere giuste misure o formarsi proporzioni
sensate».
La Repubblica - 4
gennaio 2016
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