Papa Francesco letto da un laico
IL VANGELO DEL CONFLITTO
Alberto Asor Rosa
Nelle
settimane passate è apparso in Italia un testo di Papa Bergoglio, che a me
sembra di grande importanza. Si tratta dell’intervento da lui pronunciato a un
Congresso internazionale di teologia (da lui stesso voluto e
preparato), svoltosi a San Miguel in Argentina dal 2 al 6 settembre 1985, sul
tema “Evangelizzazione della cultura e inculturazione del Vangelo”.
L’intervento,
nella forma pubblicata da Civiltà cattolica, porta il titolo “Fede in Cristo e
Umanesimo”. Ritengo però che il suo vero tema sia più esemplarmente
testimoniato da quello del convegno.
Andrò per
accenni, limitandomi a segnalare quello che, dal mio punto di vista, spicca per
novità e intelligenza del discorso. In effetti, trovo, per cominciare dagli
inizi, che ipotizzare questa doppia missione – che è anche un doppio movimento
di andata e ritorno per ognuno dei due elementi che lo compongono, e cioè:
“evangelizzazione della cultura” e “inculturazione del Vangelo”– significa
offrire una visione nuova dei rapporti tra la “fede cristiana” e “il mondo”.
Bergoglio, infatti, non dice: “questa” o “quella cultura”. Dice: “cultura”. A
chiarimento della tesi scrive: «Stiamo rivendicando all’incontro tra fede e
cultura, nel suo duplice aspetto di evangelizzazione della cultura e di
inculturazione del Vangelo, “un momento sapienziale”, essenzialmente mediatore,
che è garanzia sia dell’origine (movimento di creazione) sia della sua pienezza
e fine (movimento di rivelazione)». «Un momento sapienziale, essenzialmente
mediatore…»: se la traduzione dallo spagnolo in italiano non ha deformato
qualche senso, questo vuol dire che tra “fede” e “cultura” si può stabilire un
confronto, i cui momenti di reciprocità sono destinati a influenzare sia l’una
sia l’altra parte, producendo, attraverso la “mediazione”, un accrescimento di
sapere e di conoscenza per tutti.
Bergoglio
chiama in causa una parola-concetto tipicamente laica o quanto meno mondana:
“mediatore”, mediazione. Tale impressione però si accentua, in misura
significativa, nella lettura di un brano seguente, che qui riporto per intero,
perché lo trovo denso di parole-concetti sorprendenti: «La base di questo
sforzo è sapere che nel compito di evangelizzare le culture e di inculturare il
Vangelo è necessaria una santità che non teme il conflitto ed è capace di
costanza e pazienza. Innanzi tutto, la santità implica che non si abbia paura
del conflitto: implica parresia, come dice San Paolo. Affrontare il conflitto
non per restarvi impigliati, ma per superarlo senza eluderlo. E questo coraggio
ha un enorme nemico: la paura. Paura che, nei confronti degli estremismi di un
segno o di un altro, può condurci al peggiore estremismo che si possa toccare:
l’“estremismo di centro”».
In questo
caso, la parola-concetto centrale è: “conflitto”. Si deve ammettere che siamo
di fronte a una acquisizione inedita nel campo della cultura cristiano-cattolica.
Il termine infatti ricorre nel pensiero e nelle problematiche del pensiero
dialettico e sociologico europeo e americano degli ultimi due secoli: da Hegel
a Marx, e poi Simmel, von Wiese, Dahrendorf… Nessun equivalente, almeno della
stessa portata, nel pensiero cristiano-cattolico dello stesso periodo, e si
capisce perché: la predicazione evangelica sembrerebbe escludere una virata di
tale natura. Ma la sorpresa è destinata persino ad aumentare se si procede
nell’analisi del ragionamento. «Affrontare il conflitto », scrive Bergoglio,
«per superarlo », ma «senza eluderlo»; si misura con «un enorme nemico: la
paura». Paura di che? Paura dei possibili estremismi, che dal conflitto possono
scaturire. Ma tale paura, se incontrollata, è destinata a condurre «al peggiore
estremismo che si possa toccare: l’“estremismo di centro”, che vanifica
qualsiasi messaggio». L’“estremismo di centro”! In un paese come l’Italia,
spesso arrivato a catastrofiche conclusioni proprio a causa di un sistematico e
prevaricante “estremismo di centro”, tale messaggio dovrebbe risultare più
comprensibile che altrove. Anche il riferimento alla parresia s’inserisce
in questo contesto: solo chi parla alto e libero può vincere la paura.
Quali
considerazioni si possono fare su posizioni, di questa natura? Su Bergoglio
sono stati scritti molti articoli (bellissimi quelli di Eugenio Scalfari).
Pochi, però, si sono soffermati sulla scaturigine storica delle sue prese di
posizione, che è inequivocabilmente gesuitica. I gesuiti, nel corso della loro
lunga storia, ne hanno combinate di tutti i colori, nella difesa perinde ac
cadaver della Chiesa di Roma. E però… Molti anni or sono ho studiato a lungo la
cultura gesuitica del Seicento in Italia. Mi risultò chiaro allora che
carattere perspicuo della cultura gesuitica, nei momenti migliori, è sempre
stato il tentativo «di operare la saldatura fra cultura laica e cultura
ecclesiastica, fra tradizione e rinnovamento… »; e questo su base mondiale.
Se le cose
stanno così, la domanda (provvisoriamente) finale di questa ricostruzione è:
quale rapporto esiste fra la centralità della parola-concetto “conflitto” e la
centralità della parola-concetto “misericordia”, alla quale Papa Francesco ha
voluto dedicare il Giubileo? La risposta più semplice è: nessuno.
“Misericordia” è parola evangelica, pochissimo usata in ambito laico, come
pochissimo “conflitto” in ambito ecclesiale. Sono passati trent’anni dalla
prima formulazione, padre Jorge Mario Bergoglio, divenuto Papa Francesco, ha
ripensato radicalmente le sue posizioni, rientrando nell’ambito più
tradizionale della cultura ecclesiastica. Come tutte le soluzioni troppo
semplici, anche questa però si presta a un’obiezione di fondo. Una noticina al
testo pubblicato da Civiltà cattolica informa infatti che il testo è stato
ripresentato «in forma rivista dal Santo Padre ». Questo ci rende lecito
pensare che nel pensiero di Papa Francesco “conflitto” e “misericordia” possano
stare insieme. Cioè: il prodotto di una cultura laica può stare insieme con il
prodotto tipico di una cultura evangelico- cristiana. Non può esserci
“misericordia” se non c’è stato “conflitto”; il “conflitto” è buono, anzi,
addirittura indispensabile, se è necessario per superare la paura, e superare
la paura è necessario per arrivare alla “misericordia”. Sarebbe troppo
pretendere che Bergoglio, divenuto Pontefice, dopo averci additato come il
conflitto sia necessario per attivare la misericordia, ci additi come la
misericordia sia necessaria per attivare il conflitto, motivo quest’ultimo inesauribile
– e positivo, quando c’è – delle azioni umane. Però la connessione possibile –
il prima e il dopo, insomma, che però è anche o può essere anche, un dopo e un
prima – almeno a noi laici e non credenti, risulta – credo – ben chiara.
La
Repubblica 20 gennaio 2016
Ricordo ancora che la tesi di dottorato alla Gregoriana di Roma dell'amico teologo Rosario Giuè aveva per tema proprio l' INCULTURAZIONE.
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