J. Bosch, Le tentazioni di S. Antonio
Con Sant'Antonio Abate (17 gennaio)
comincia il carnevale. La leggenda narra che il maligno si manifestò
sotto forma di maiale prima ancora che di femmina e la cosa da allora
ha sempre sollecitato la creatività di artisti e scrittori.
Marino Niola
Il santo e il porco
Da sempre il porco regna
incontrastato sul periodo più grasso e licenzioso dell’anno, il
carnevale. A carnevale ogni scherzo vale e ciascuno è libero di fare
i suoi porci comodi. Quello tra la festa più trasgressiva e la
bestia più allusiva è un incontro largamente annunciato, visto che
la nomea del suino come sex symbol è antichissima.
Fu Aristotele a
consacrarne la fama, quando gli attribuì una natura sessuale
particolarmente calda, facendone così il simbolo di un desiderio
insaziabile, ma anche dell’abbondanza, della fecondità, dello
scialo. Voluttuoso ma anche generoso. Del maiale, si sa, non si butta
via niente. Come in altri campi dello scibile, anche in materia suina
l'ipse dixit aristotelico è diventato legge e da allora il porcello
è, per antonomasia, l’emblema dei piaceri della carne, in ogni
senso del termine.
Forse anche per questo il
cristianesimo, che riconobbe subito l’attrazione calorica ed
erotica esercitata da questa energia vitale, ne fece un simbolo del
basic instinct, l’icona della debolezza congenita della carne,
sempre tentata dalle porcherie. O dalle maialate, se si preferisce. E
addirittura la chiesa associò il maialino a uno dei suoi santi più
popolari. Cioè Antonio Abate, il vecchio dalla barba bianca la cui
ricorrenza, che cade proprio oggi, apre i battenti del carnevale.
A dire il vero, la sua
figura avrebbe poco a che fare con lussurie e lascivie, frenesie e
fantasie, eccitazioni e fornicazioni. Non ci indurre in tentazioni,
potrebbe essere il suo motto. Perché nella realtà, storica e
teologica, Antonio è stato un asceta del deserto, un eremita di
costumi rigorosi e severi, considerato il fondatore del monachesimo
cristiano. Visse nell’Egitto del terzo secolo dove passò gran
parte della sua vita chiuso in una tomba scavata nella roccia a
pregare, mortificarsi e autopunirsi, ad maiorem dei gloriam.
Ma cosa c’entra un
sant’uomo del genere con la licenza del carnevale e con la
concupiscenza del maiale? C’entra eccome! Perché il diavolo, che
ci mette sempre la coda, indispettito dall’incorruttibile
continenza del santo, lo sottopose a mille e una tentazione, nel
tentativo di far divampare il fuoco che covava sotto quella cenere
devota. Alcune storie narrano che il maligno gli apparve in forma di
suino. Altre, absit iniuria, dicono che si manifestò sotto sembianze
di femmina.
Due immagini non certo
equivalenti, eppure equipollenti, perché rappresentano entrambi una
sorta di apparentamento, perfino linguistico, tra corpo e porco.
Riflettendo un’idea della carne come peccato originale, come
impurità da emendare. Fatto sta che, sin dal Medioevo, la tentazione
di sant’Antonio diventò un leitmotiv dell’immaginario colto e di
quello popolare, dalla letteratura alle arti visive.
L’episodio ispirò a un
pittore sensibile a visioni e allucinazioni come Hieronymus Bosch ben
due dipinti. L’onirico Giardino delle delizie del Prado e,
soprattutto, il vertiginoso Trittico delle tentazioni del Museu
Nacional di Lisbona, dove il povero Antonio deve vedersela sia con
delle donne vestite da sacerdoti che celebrano una messa satanica,
sia con un uomo dal muso di porco. Il divino, l’umano e il
bestiale. Un triangolo sconveniente su uno sfondo rosso ardente. È
la fiamma del desiderio, difficile da controllare e dolorosa da
spegnere. Che diventa croce e delizia della condizione umana. Nonché
attributo iconografico del santo. Sempre rappresentato mentre tiene
in mano una fiammella. Il fuoco di sant’Antonio, appunto. E con un
maiale ai piedi.
Il grande Gustave Flaubert, in visita a Genova nel 1845, fu letteralmente folgorato da un quadro di Pieter Brueghel il Giovane, raffigurante l’eremita molestato dal demonio, che si trovava nella quadreria di Palazzo Balbi. «Darei un’intera collezione, più centomila franchi, per avere quel quadro» disse, esaltato e scottato dalle vampate di colore del fiammingo. Non tardò a tradurre la bruciatura in letteratura. E scrisse la celebre Tentazione di Sant'Antonio che, ai suoi occhi, diventa l’immagine stessa dell’uomo in lotta con le sue passioni.
Paul Valéry confessava
di preferire la Tentation anche a Madame Bovary. Perché Flaubert non
si era limitato a raccontare una storia di tentazione. Era riuscito
addirittura a definire la «fisiologia della tentazione» come forza
motrice della vita. In questo senso, Antonio è l’altro lato di
Madame Bovary. Anche il Novecento delle avanguardie si è misurato
con la storia del santo abate. Lo hanno fatto surrealisti col
pennello, come Salvador Dalí che trasforma la lotta con il demonio
in una processione di bestie apocalittiche. E surrealisti con la
macchina da presa come Luis Buñuel, che alle tentazioni ha dedicato
più di un capolavoro, da Salita al cielo a Simon del deserto.
Ma la più geniale
variazione sul tema è quella offerta nel 1962 da Federico Fellini
con Le tentazioni del dottor Antonio, uno dei quattro episodi di
Boccaccio '70, sceneggiato da Tullio Pinelli e Ennio Flaiano. Con
Peppino de Filippo nei panni del dottor Mazzuolo, un inflessibile
guardiano della morale, posseduto da una divorante
ossessione-passione per il corpo femminile. Nella fattispecie quello
di una straripante Anita Eckberg che, dall’alto di un cartellone
pubblicitario, lo tormenta con l’allusivissimo jingle “bevete più
latte”.
Qualcuno ha visto nel
sessuofobo moralista felliniano, che in una scena del film
schiaffeggia una donna molto discinta, un’allusione a un episodio
reale, con protagonista Oscar Luigi Scalfaro. Che in realtà, agli
occhi del regista, sarebbe stato colpevole soprattutto di averchiesto
il sequestro della Dolce Vita. Certo è che la vendetta di Federico
il grande colpì nel segno, con la perfidia beffarda di un tiro a
rientrare e la stralunata precisione di un’ellissi barocca.
Asceta e non solo.
Accanto al sant’Antonio della cultura alta c’è quello
completamente diverso della devozione popolare. Che ristilizza a
proprio uso e consumo gli attributi del santo. La signoria
sull’ardore delle passioni diventa padronanza del fuoco. E la
sofferta familiarità con le tentazioni della carne, nonché con il
porco che le incarna, si trasforma in amicizia con la bestia che è
in noi. Non più l’anacoreta del deserto ma il santo del porcello.
Capace di uccellare anche il diavolo a beneficio di quei poveri
cristi di peccatori.
Una leggenda diffusa in
tutta Europa, e riportata da Italo Calvino nelle Fiabe italiane,
racconta che il misericordioso Antonio viene mandato a fare il
portinaio all’inferno. Ma lascia sempre la porta semiaperta per far
evadere le anime dei dannati. Allora viene richiamato sulla Terra ma,
prima di tornare a riveder le stelle, con la complicità
dell’inseparabile maialino, ruba un tizzone infernale e lo regala
agli uomini.
Un Prometeo cristiano che
diventa patrono degli animali e protettore del quarto stato. Di cui
allevia la fame e le sofferenze. Fornendo calore e calorie. E rimedi
contro le malattie. L’amico delle bestie, infatti, veniva invocato
contro l’herpes zoster, il male che proprio da lui prende il nome
di fuoco di sant’Antonio. E che, fino all’Ottocento, veniva
curato dai monaci dell’ordine antoniano con la somministrazione di
un unguento ottenuto dal grasso di maiale.
Un vero cortocircuito
dell’immaginario che inverte il senso del rapporto tra tentazione e
inibizione. Rendendo virtuoso quel che per il dogma era un circolo
vizioso. Insomma una guerra degli appetiti che, mutatis mutandis, si
continua a combattere anche oggi. Con la censura dietetica che ha
sostituito quella religiosa nella lotta contro il carnevale dei
nostri sensi.
La repubblica – 17
gennaio 2016
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