Pier Paolo Pasolini, Decameron
Pasolini senza apocalisse. Intervista a Massimo Fusillo
a cura di Giuseppe Girimonti Greco e Paolo Lago
Il tuo saggio La Grecia secondo Pasolini,
uscito nel 1996, ormai quasi vent’anni fa (anche se una nuova edizione
ampliata è del 2007), è pionieristico e innovativo nel senso che è il
primo che analizza in modo sistematico l’importanza del mondo antico e
delle letterature classiche – soprattutto la tragedia greca – nell’opera
di Pasolini. Nell’introduzione scrivi che il mito antico e la tragedia
greca rappresentano per Pasolini delle vere e proprie “ossessioni”.
Vorresti brevemente parlarci di queste “ossessioni”?
Ossessione è una parola che ricorre
spesso nella poesia di Pasolini, sempre con una connotazione
fondamentalmente positiva e spesso autobiografica (e certo anche la sua
sessualità aveva caratteri ossessivi); ed è anche la parola con cui
traduce in Eschilo la furia delle Erinni o la follia di Oreste. Nella
sua opera così multiforme ci sono sicuramente delle costanti che la
unificano, e che possono considerarsi ossessioni: il Friuli, la passione
di Cristo, il mito, il rito, il sacro; e tutte possono essere sussunte
nel suo unico, ossessivo oggetto d’amore: la civiltà contadina,
illimitata e transnazionale, di cui i ragazzi sottoproletari sono
l’incarnazione più seduttiva
Sempre nell’introduzione a quel
volume, metti l’accento sulla poliedricità espressiva e sull’eclettismo
di Pasolini, un autore che, passando da un linguaggio all’altro (poesia,
romanzo, cinema) fa ampiamente ricorso alla contaminazione, al pastiche,
alla citazione, all’ibridazione stilistica fra alto e basso. Anche
nell’approccio al mondo antico PPP si rivela un autore così
disinvoltamente incline alla contaminazione intermediale, stilistica,
linguistica, discorsiva?
Credo che la creatività intermediale sia
oggi il tratto più significativo dell’opera di Pasolini. Quanto alla
contaminazione stilistica, è un concetto che ritorna molto spesso nelle
sue dichiarazioni teoriche, meno direi nella sua produzione. Certo, il
lavoro sul dialetto, la sacralizzazione delle borgate tramite Bach in Accattone, o la sperimentazione estrema di Petrolio
vanno in questa direzione. Nelle opere ispirate al mondo greco prevale
il registro tragico: si può riscontrare qualche tocco di contaminazione
nelle parti dedicate agli antefatti delle tragedie oggetto dei suoi
film, in particolare di Edipo re. Le novità maggiori vengono comunque anche in questo caso da Petrolio, che attraverso il modello del Satyricon mira a una polifonia stilistica che contamina riso grottesco e saggismo giornalistico.
Come già accennato, il tuo saggio è
del 1996; da allora non hai mai smesso di occuparti della figura e
dell’opera di Pasolini, anche non in stretta correlazione col mondo
classico. PPP, al giorno d’oggi, riscuote una fortuna enorme, non solo
in Italia. Escono continuamente nuovi libri che ne analizzano l’opera e
la vita. Focalizzandoci sulla peculiarità italiana, come è recepita,
secondo te, la sua figura oggi, e che differenze noti rispetto alla sua
ricezione in altri paesi?
In realtà dopo il saggio mi sono concentrato su Petrolio,
ma da un po’ di tempo non mi occupo più di Pasolini, se non per
partecipare a incontri pubblici e come membro della giuria del Premio
per le tesi di laurea: me ne sono distanziato da vari punti di vista,
come succede spesso con i propri oggetti di studio. Mi sembra che la
ricezione italiana si concentri troppo sulle sue posizioni politiche e
sulla sua biografia, mentre all’estero si studia di più la sua opera
(soprattutto il cinema) e le sue strategie espressive, e soprattutto si
cerca di mettere in dialogo Pasolini con alcuni nodi della cultura
contemporanea.
In un volume che riunisce diversi interventi, L’eredità di Pier Paolo Pasolini,
uscito qualche anno fa, a cura di Alessandro Guidi e Pierluigi
Sassetti, Pasolini viene definito dallo stesso Sassetti – che utilizza
un’espressione di Slavoj Žižek – “l’ovetto kinder
della cultura italiana”, in quanto, a differenza di altre illustri
icone, offre qualcosa in più, qualcosa di più accattivante. Infatti, nel
calderone culturale, un po’ tutti, da destra a sinistra, tendono ad
appropriarsi delle sue idee trasformando in bandiera il suo nome e in
manifesto i suoi enunciati più noti. Cosa pensi di questo ‘uso’ della
figura e delle idee di PPP?
Come sostiene Gianluigi Simonetti,
Pasolini oggi è diventato anche un logo: un mezzo sicuro per ottenere
successo e consenso. Ovviamente gli artisti sono spesso destinati ad
essere usati in forme lontane, o anche opposte, da quelle che avevano
pensato o teorizzato: è inevitabile, e di per sé non c’è niente di male.
Ma certo alle volte è irritante trovare citato Pasolini a sproposito,
solo per dare un’aura nobile a posizioni banali e a stereotipi,
rovesciando proprio quella che è stata la sua funzione più vitale nella
società italiana: creare conflitti, discussioni, spiazzare le attese,
sovvertire le contrapposizioni facili, insomma «lo scandalo del
contraddirmi».
Pasolini è stato spesso definito
come un intellettuale profetico, un intellettuale apocalittico,
“antimoderno”; di recente un bel libro di Pierpaolo Antonello, Dimenticare Pasolini, che hai recensito su Between, analizzando il problema della “santificazione” di Pasolini che è tutt’ora in corso, affronta il tema dell’ubi sunt
e del diffuso lamento apocalittico sulla degenerazione della propria
epoca da parte degli intellettuali. Qualcosa di simile fa un ancor più
recente intervento di Gilda Policastro su doppiozero, intitolato Pasolini ti odio. Cosa ne pensi? Come, secondo te, Pasolini potrebbe essere ‘reinterpretato’ oggi?
Il pensiero politico di Pasolini mi
sembra la parte più debole della sua opera, proprio perché presenta
tutti gli eccessi di un certo atteggiamento apocalittico così diffuso
ancor oggi nella cultura di sinistra. Un atteggiamento che si ripete
ormai da troppo tempo, e che ha il suo archetipo millenario in Esiodo:
mitizzare il passato e demonizzare il presente, quando il compito di un
intellettuale dovrebbe essere cercare di capire il proprio tempo. Certo,
Pasolini non era un primitivista: mirava al contrario a una sintesi fra
antico e moderno, ed ha sicuramento analizzato con lucidità e compreso
in anticipo alcuni problemi della società contemporanea (ecologia,
periferie, degrado urbano). Ma quando Pasolini usa una parola così forte
e così connotata come genocidio (una delle sue formule più citate) è
sicuramente eccessivo: in effetti sappiamo bene che non c’è stato nessun
genocidio culturale in Italia. Le culture locali non sono state
distrutte, si sono trasformate e ibridate con la cultura dominante,
creando fenomeni anche interessanti, come il glocal. Parlando di Sandro Penna negli Scritti corsari
a un certo punto Pasolini si fa scappare che era meraviglioso un tempo
credere che la forma della vita non sarebbe mai cambiata: e invece per
fortuna cambia e continuerà a cambiare. Il libro di Antonello e
l’intervento di Policastro mi hanno convinto: credo che Antonello abbia
ragione, bisogna certo continuare a studiare e a fruire dell’opera
multiforme di Pasolini, ma bisogna abbandonare il modello di
intellettuale veggente da lui incarnato; un modello sempre più forte
invece grazie alla santificazione tributatagli dalla stessa Italia che
lo ha perseguitato in vita.
Le stesse oscure modalità
dell’assassinio di Pasolini ne rendono la figura più misteriosa e
‘affascinante’, in un certo senso; riguardo a questo il mondo degli
intellettuali si è un po’ diviso in due parti: ‘complottisti’ e non, nel
senso che c’è chi pensa che Pasolini sia stato ucciso da poteri più o
meno occulti e chi, invece, ritiene che le cose siano andate come
racconta la ‘versione ufficiale’. Tu da che parte stai?
L’assassinio di Pasolini sembra
destinato a restare uno dei misteri irrisolti della storia italiana, ed è
difficile avere certezze a riguardo. L’unica tesi che mi sento di
scartare è quella del suicidio sceneggiato e organizzato da tempo:
quella di Zigaina. La tesi del complotto non mi ha mai molto convinto,
benché fosse sostenuta con una passione alle volte contagiosa da Laura
Betti, con cui ho collaborato e di cui sono stato amico. Mi è sempre
sembrato un modo per nobilitare ed eroicizzare una morte per violenza
omofoba come ne succedono tante, una morte che rientrava nei rischi che
la vita sessuale di Pasolini comportava (e certo la coerenza con la sua
opera spiega il fascino a cui accennavate). Sono d’accordo con quanto
sostiene Emanuele Trevi in Qualcosa di scritto: sul delitto
Mattei e su altre questioni scottanti Pasolini si rifaceva alle
inchieste dell’Espresso, non aveva scoperto nessuna nuova verità che
possa spiegare la sua morte; anche se poi non sono d’accordo su tutta
l’interpretazione di Petrolio contenuta nel romanzo di Trevi,
di cui mi sono trovato senza saperlo prima ad essere un personaggio
(comunque un bel personaggio, devo dire). Credo che ormai si possa dare
per certo che Pelosi non fosse solo, e devo ammettere che molte delle
acquisizioni recenti vanno nella direzione del delitto politico, per
cui, ripeto, non si possono avere certezze.
Hai visto Pasolini di Abel Ferrara?
Ovviamente sì. Mi sono piaciute le parti
dedicate alla vita quotidiana di Pasolini: ad esempio le scene con la
madre e con Laura Betti. William Dafoe è molto credibile e somigliante,
anche se un po’ troppo anziano. Quello che non mi ha convinto è
l’esperimento di ricostruire Petrolio e Porno-Teo-Kolossal: suona artificioso e direi totalmente fallito.
Un tuo pensiero per Pasolini, da dedicargli, oggi, a quarant’anni dal suo tragico omicidio?
Pasolini ha scritto frasi belle
sull’allegria e sull’umorismo della vecchiaia, ormai sganciata dal tarlo
del futuro. Le ha scritte cinquantenne, a un’età che oggi si considera
ancora un po’ lontana dalla vecchiaia. Mi piace immaginarlo allegro
93enne, che si diverte a sfruttare le potenzialità di Internet… Renzo Paris conclude il suo Pasolini ragazzo a vita
– una sorta di romanzo memoriale scritto per il quarantennale – con un
sogno ispirato a Rimbaud, in cui rincontra Pasolini fra i pastori Masai
in Kenya; all’Idroscalo sarebbe morta una controfigura, come il
Cacarella di Affabulazione, mentre il vero Pasolini avrebbe
trascorso metà della sua vita in giro per l’Africa, senza più il
desiderio di scrivere o filmare, libero dalla sua opprimente figura
pubblica.
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