Ancòra, il nuovo
romanzo dello scrittore turco Hakan Günday, racconta l’inferno dei
migranti e dei trafficanti di clandestini.*
Domenico Quirico
Il viaggio al termine della notte è una nuova vita in Europa
Una volta in una stradina di un villaggio nigeriano, Paese dell’Africa da cui partono a migliaia i migranti, ho visto fabbricare una cassa da morto. Un vecchio e un ragazzo ci lavoravano attorno, alacremente, squadrando con cura le assi, inchiodando, dando forma. Come fosse un mobile qualsiasi, un tavolo o una credenza. La scena mi torna in mente ogni qualvolta sento parlare dei «passeur», dei mercanti che trasportano uomini da una terra ad un’altra terra in cambio di denaro e di violenza.
E mi è venuta in mente
quando ho chiuso l’ultima pagina di Ancòra, il nuovo duro,
vibrante romanzo dello scrittore turco Hakan Günday (in libreria
dalla prossima settimana). Giovane talento che usa, santamente, la
letteratura come esplosivo, per mettere a nudo le viscere marce del
mondo: in particolare della sua Turchia a cui dedica nel libro una
definizione fulminante: «la differenza tra l’oriente e l’occidente
è la Turchia…»
Il protagonista Ahad, un bambino, è appunto un passeur in erba: con il padre trasporta i migranti in un camion dalle frontiere del dolore e della guerra fino agli imbarchi sulle rive dell’Egeo, verso quella che chiamiamo la «rotta balcanica».
Ho pensato a quella scena perché trasportare l’umanità della Migrazione, farne un «lavoro» redditizio, è in fondo come fabbricare casse da morto. Davanti a una simile scena e a simili storie puoi avere due atteggiamenti: uno alla Amleto di considerazioni sulla vita e la fugacità di essa. L’altro di interesse per quel lavoro, i suoi riflessi economici e sociali, il guadagno che se ne trae, le possibilità di impiego (poiché i migranti sono molti, milioni, quasi quanto sono i morti rispetto ai vivi).
Ho conosciuto i migranti. E ho conosciuto i «passeur», a decine : tunisini e maliani, nigeriani e libici, siriani e turchi. Sono loro e soprattutto i loro inermi, fragili «clienti» che stanno riscrivendo la storia del terzo millennio, dal suo inizio. Gli uni e gli altri potrebbero essere la parabola di come nell’uomo si celino insieme il Bene e il Male, e una sola parabola così sarebbe sufficiente. Ma né Ahad ne le sue vittime sono esempi unici del nostro tempo. Non sappiamo quanti migranti siano morti e quanti torturatori continuino a lavorare proficuamente a quella bara. Scrivere della Migrazione come della guerra è una iniziazione alla vertigine.
Dopo averli incontrati (e di alcuni sono stato anche ospite e cliente) con sincerità devo dire che non comprendo questi uomini. A punzecchiarli con uno spillo, sanguinano? E’ la stessa domanda di chi alla fine ripensa a questo libro, un Viaggio al termine della notte del nostro presente, anche se di Céline in fondo manca la maggiore magia, che sono la lingua e lo stile.
Dunque il piccolo Ahad porta uomini: afgani e pachistani, siriani e iracheni, folla indifferenziata che conosce una sola parola di turco «daha», «ancòra»: ancòra acqua cibo aria, che chiede per non morire. Lui li chiude nel camion o in una cisterna-prigione, alcuni per indifferenza o malvagità li lascia anche morire. Già, perché mentre il padre è un vero passeur, un professionista, in fondo Ahad è una creatura vigorosamente romanzesca, totalmente romanzesca. Personaggio, non persona. Di fatto non esiste, non può esistere. Il padre infatti considera i migranti oggetti: gli sono affidati , viene pagato per spostarli intatti, vivi. Non sono per lui esseri umani con sentimenti dolori speranze: sacchi di farina, bidoni di benzina, cose come scrive sui falsi documenti del suo camion a cui il capo dei gendarmi turchi finge di credere in cambio di denaro.
Ma l’economia non è tutto e la tragedia di molti profughi e fuggiaschi non è fare la fame nei loro paesi di origine: è il fatto che le loro menti e i loro cuori fanno la fame. Durante il viaggio e quando, e se, arrivano. Sono degli alieni.
Ahad i profughi li usa: per una sorta di educazione al Male e per scoprire se stesso e il mondo, violenta le ragazze in cambio di un pezzo di pane, costringe gli uomini a battersi tra loro come animali, costruisce all’interno dell’infernale cisterna un mondo di potere in miniatura che attraverso telecamere osserva come un entomologo osserverebbe un formicaio.
Questo un passeur non lo farebbe mai. Perché in realtà, terribile verità, non è un aguzzino che cerca vittime. è un capitalista ligio alle regole del profitto e della organizzazione.
I passeur che ho conosciuti trasferiti in qualsiasi Borsa del mondo si farebbero largo senza problemi, non dovrebbero imparare nulla: conoscono a menadito le regole per fare denaro. E forse un giorno dietro fortune molto rapide e misteriose scopriremo un’ attività di «trasporti», nel Sahel o nel Mediterraneo, o tra le montagne del Kurdistan… Non è a caso se Robinson, esempio dell’uomo bianco e della sua capacità di modificare il mondo anche il più vuoto e ostile, era un... mercante di schiavi!
Scrivere un libro sulla Migrazione è impresa ardua, fatale. Forse basterebbe pubblicare i verbali polizieschi, gli interrogatori dei passeur arrestati, pochi, molto pochi. Eppure i reportage, i saggi, la realtà non bastano. Ci annoia sentirci ricordare l’agonia di un popolo, e i migranti sono il popolo nuovo di questo tempo. La morte della immaginazione, la morte del cuore sono malattie fatali. O forse temiamo di sapere perché temiamo di dover esaminare le nostre coscienze, prendere atto delle nostre responsabilità e del nostro immenso egoismo. Sì, la morte e il dolore di uomini innocenti appartengono al nostro tempo.
Dobbiamo sapere tutto, dobbiamo riconoscere ogni sintomo, ogni segnale. Ancòra appartiene a quel piccolo numero di libri in cui, superata la linea di una scrittura estrema, al limite del brutale, finite le forti impressioni, si comincia a soffrire e a capire.
La Stampa – 23 gennaio
2016
*Le illustrazioni sono tratte da "Abissi di speranza" di Claudio Carrieri, ciclo pittorico dedicato alla tragedia dei migranti.
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