14 gennaio 2016

G. GALASSO INTERVIENE NEL DIBATTITO INTORNO ALLA LUNGA DURATA DELLA STORIA


Giuseppe Galasso

La storia non si fa col calendario

Torniamo a parlare della «durata», la categoria che tanta parte ha avuto, e continua ad avere, negli studi storici dalla metà del Novecento in poi. Non per parlare, però, ancora una volta, del peso che l’adozione di questa categoria ha avuto rispetto alla storia politica e alla massiccia «invasione» (come alcuni la definiscono) del suo campo da parte delle discipline sommariamente (e approssimativamente) indicate come «scienze umane». Un peso certamente non fausto, e ancor più fuorviante, se si considera il dato incontestabile che quella che si intende per «storia politica» non ha mai presentato una tipologia unica. Ognuno dei suoi grandi autori differisce dall’altro, in una varietà impressionante e altamente istruttiva di moduli euristici e narrativi, che formano l’incommensurabile ricchezza, non solo culturale, della storiografia occidentale (per stare solo a essa) dai tempi di Erodoto a oggi.

Quando si parla quindi della storia politica come pura storia degli eventi, dei fatti militari, politici, diplomatici, istituzionali e simili, bisognerebbe, quindi, avere ben chiaro che questa storia è stata l’opera di autori che nei loro rispettivi moduli storiografici e letterari, e per i valori e le idee che li hanno ispirati, rappresentano ciascuno un mondo diverso. Tanti storici politici, insomma, tanti tipi o casi di storia politica.

Ma — ripetiamo — non è di questo che vogliamo parlare qui, bensì della famosa «durata». La sua distinzione in breve e lunga è di immediata percezione. L’alternativa posta dai due aggettivi sembra non lasciare spazio alcuno a una composizione della loro così netta antinomia. A guardare le cose più da vicino si scopre, però, che non è del tutto così, e per almeno due serie di ragioni.

La prima serie dovrebbe essere di più semplice approccio. Si tratta della facile constatazione che lunga e breve durata non sono due universi chiusi in se stessi, incomunicanti e incomunicabili nella loro azione e proiezione storica. In altre occasioni ho parlato di Alessandro Magno, di Giulio Cesare, di Carlo Magno, ma sono innumerevoli gli esempi possibili di condottieri, guerre, conquiste, dominazioni che dimostrano quanti e quali possano essere i rapporti, non sospettabili di primo acchito, tra lunga e breve durata. In questi casi l’azione di breve durata — una guerra, una conquista, l’avvio o le variazioni di dominazioni e imperi o regni di nuova istituzione, l’imposizione di determinate leggi e ordinamenti, e così via dicendo — pone le premesse e stabilisce le condizioni per svolgimenti e realtà della lunga durata.

Bisogna, inoltre, precisare che, quando parliamo qui di lunga durata, non ci riferiamo, come dovrebbe essere ovvio, alle lunghe durate di imperi e di Stati o di determinati equilibri politici. Ci riferiamo ai processi strutturali, antropologici etc. che in quei dati politici hanno solo una premessa o condizione. Tali processi — nella teorizzazione più autentica della lunga durata — si svolgono, infatti, sostanzialmente per propria natura e con propria logica; e sono essi a imporsi, in ultima analisi, nel fluire sotterraneo di mentalità e atteggiamenti, ai quadri politici in cui si ritrovano.

Più complessa e, soprattutto, più importante è la seconda serie di ragioni. La durata, lunga o breve che sia, è sempre un elemento temporale. Il tempo storico non è, però, il tempo del calendario. Non si misura, cioè, solo con il numero dei secoli o degli anni o dei giorni. Il tempo storico ha misure ancora più essenziali nella densità, nella qualità, nella velocità, nella complessità, negli effetti, nel tono, nella rilevanza degli eventi che in esso hanno luogo e nella sensibilità e mentalità con la quale il tempo è percepito e vissuto.

Perciò anche nel linguaggio corrente si dice spesso che certi giorni contano più di molti anni. Perciò uno storico del valore di Jacques Le Goff distinse acutamente fra il «tempo della Chiesa» e il «tempo del mercante». Perciò Adolfo Omodeo amava parlare di «primavere storiche». Perciò parliamo immaginosamente di «secoli bui» e di «secoli d’oro». Perciò la mentalità economica moderna ha introdotto la massima che «il tempo è denaro». Perciò una volta si sproloquiava sulla differenza fra la concezione orientale del tempo (incline più alla meditazione che all’azione) e quella occidentale (attivistica, rapida, frenetica: si ricordi il persiano di Montesquieu a Parigi).

Sono modi — questi, e gli altri, numerosissimi, citabili al riguardo — più o meno stringenti e pertinenti di considerare ed esemplificare questa materia. Valgono, comunque, indubbiamente, a darne un’idea schietta e sintetica. Soprattutto, poi, permettono di affermare e provano che l’antinomia di breve e lunga durata è più parziale e meno sostanziale di quanto si pensi. In quell’antinomia irrompe sempre, sottomettendola a sé, la forza discriminante del tempo storico in tutta la complessità degli aspetti che sono suoi.
Ciò significa, in ultima analisi, che il tempo non è determinato dal calendario, ma dalla storia. E non soltanto questo. Anche per il tempo storico vale, infatti, ciò che del tempo ci hanno detto da due secoli a questa parte filosofi come Kant, scienziati come Einstein e coloro che hanno sviluppato o modificato le loro vedute (non molto, comunque, né sostanzialmente, a mio sommesso avviso). In altri termini, e un po’ alla grossa, il tempo storico è puramente e semplicemente tempo, ma diventa un tempo particolare non tanto perché è teatro di «quella guerra illustre contro il tempo», che, secondo lo pseudo-anonimo manzoniano, impone alla caducità del tempo nella sua successione calendariale la memoria imperitura della storia. Lo diventa perché è una dimensione essenziale e primaria, costitutiva e imprescindibile — non calendariale e non filosofico-scientifica — del mondo umano nel suo divenire storico.

Da questo punto di vista l’antinomia di breve e lunga durata è un criterio di merito e di metodo assai debole rispetto alla essenzialità del tempo storico, che le compenetra entrambe, ed entrambe piega alle sue logiche e alle sue dinamiche. Né, con ciò, quell’antinomia perde tutto il suo senso e la sua utilizzabilità. Viene soltanto ricondotta nei limiti che sono suoi, mentre una terza durata non c’è, e terza durata non è in alcun senso il tempo storico in cui sia la breve che la lunga sono inscritte.


Il Corriere della sera – 12 dicembre 2015

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