Riti di Mitra, misteri
dionisiaci, saturnali e la “vera” Epifania. Ritorna “Jesus
Rex”, il capolavoro di Robert Graves.
Silvia Ronchey
Tutti gli dèi
nascosti dietro al dio chiamato Gesù
Nel 1614 Keplero,
dopo laboriosi calcoli, dimostrò che nel 7 a.C., quando dovette
grossomodo avere luogo la nascita di Gesù (che il calendario
etiopico colloca nell’8 a.C. e che comunque non poté precedere il
5 a.c., anno di morte di Erode), Giove e Saturno ebbero tre
congiunzioni ravvicinate nella costellazione del Pesce, un evento
raro che avviene ogni svariate centinaia di anni e che era stato
tuttavia già, previsto, si dice, dagli astronomi caldei.
Una di queste
congiunzioni fu nel mese di dicembre. Non che l’evento in sé
spieghi la “stella grandissima”, che secondo i testi sacri —
Matteo 2, 1-12, ma soprattutto gli apocrifi — sarebbe apparsa in
quel tempo e avrebbe segnalato ai Magi la nascita di “un re per
Israele”; o giustifichi un aumento della luminosità tale da
oscurare le altre stelle, come scritto nel Protoevangelo di Giacomo.
Né risulta compatibile con la cronologia della nascita di Gesù la
visibilità della cometa di Halley, il cui passaggio si ascrive al 12
a.C. Ma la relazione tra il formarsi del calendario liturgico
protocristiano e gli eventi astronomici che già sostanziavano i riti
delle più antiche religioni, zoroastriana anzitutto e poi romana, è
indubitabile.
La festività che nel mondo cristiano ortodosso è detta “delle Luci” ( ton Photon) accomuna in un breve giro di calendario il pellegrinaggio escatologico dell’élite pagana d’oriente e la festa solare chiamata nell’antica Roma dies natalis Solis Invicti, e ancora oggi da noi Natale; a sua volta legata sia ai Saturnali, sia alla festa di Mitra, il cui culto misterico prettamente maschile, originariamente indopersiano, romanizzato nella pratica rituale degli eserciti, era in grande espansione nel periodo in cui nacque la fortunata eresia giudaica che le scritture canoniche ed extracanoniche associano alla nascita di un “nuovo re di Israele” proprio in occasione dell’evento che qui festeggiamo il 6 gennaio e chiamiamo Epifania.
Nome a sua volta desunto dalla terminologia dei misteri greci. È l’epiphàneia di un dio, la sua sacra manifestazione, al centro della leggenda della stella e dei Magi. I tre maghi persiani dal cappello a cono del mosaico di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, i Drei Könige sulle cui magnetiche reliquie si impennò la cattedrale di Colonia,i tre savii stranieri dai nomi incerti e contorti che seguirono la stella ed ebbero l’epifania di un fanciullo divino, si prostrarono, scrive Matteo, con la rituale proskynesis che si riconosce al capo di un’altra e nuova religione, recandogli il crisma dei sommi doni sapienziali.
«I misteri religiosi
sono in gran parte connessi con le predizioni astronomiche», scrive
con apparente candore Robert Graves all’inizio della terza e
culminante parte di Io, Gesù, il capolavoro (ora ripubblicato da
Longanesi, e all’epoca intitolato Jesus Rex) che settant’anni fa
dedicò al formarsi del culto di quelli che chiama i crestiani — i
seguaci del Chrestòs, in greco “il Buono” — nell’epoca che
va appunto dalla teofania occorsa ai Magi a quello che definisce «lo
scisma dei gentili, capeggiato dal visionario Paolo di Tarso.
Un culto che sancisce —
è la grande teoria di Graves, che fa qui la sua prima comparsa —
la vittoria delle religioni dominate da divinità maschili, di cui
JHWH, il dio onnipotente del monoteismo biblico, è l’esempio
massimo, sulla religione femminile originaria, quella della Grande
Dea, cui Graves dedicherà due anni dopo il suo libro più noto, La
dea bianca. L’eclissi della divinità lunare e l’oblio del suo
culto porteranno a fraintendere l’identità storica di Gesù, che
nella ricostruzione di Graves, fantastorica, deliberatamente
fantasmagorica ma non per questo meno scientificamente probante,
riunisce in sé, per discendenza matrilineare, un’effettiva e
clamorosa regalità.
La legittima successione
del trono di Davide, ossia dell’antica Israele, e di Erode, ossia
della Giudea romana, gli è assicurata da Maria, vergine di sangue
regale consacrata al Tempio, che ha però segretamente sposato uno
dei figli di Erode, avuto dalla prima moglie, di altrettanto
impeccabile discendenza idumonea. È alla luce dell’effettivo
status di aspirante Rex Iudaeorum che Graves interpreta, nel finale
del libro, l’udienza personale concessa da Pilato a Gesù, il suo
straordinario favore, l’inusuale titulus, INRI, apposto per suo
ordine alla croce; così come il successivo, irrazionale e
imprevedibile svolgersi del fatti, la catena di fraintendimenti,
censure, tendenziosità che plasmeranno, in un sincretismo assoluto e
a tratti costernante, la nuova religione maschile destinata a
pervadere i confini dell’impero romano, dal medio oriente giudaico
all’estremo occidente celtico, di quella gelosa idea di elezione e
linearità, legata a un’inquietante promessa di “al di là”,
che si sostituirà alla preesistente idea femminile di ciclicità
della storia come della natura del cosmo.
Al bene informato Agabo, alter ego narrante di Graves nell’ipotetico anno Domini 93 d.C. cui la narrazione è ascritta, il nuovo culto si presenta dominato da un rito conosciuto col nome di eucarestia e adibito «a comodo ponte tra il giudaismo e i culti misterici greci e siriani, in cui il sacro corpo di Tammuz viene mangiato sacramentalmente e sacramentalmente bevuto il sacro sangue di Dioniso», il dio “Figlio della Duplice Porta”, nato prima a sua madre Semele e poi al padre Zeus, cui Gesù somiglia anche nell’avere due date astronomiche di nascita: a quella del solstizio d’inverno, che coincide con la nascita del sole, si aggiunge quella estiva cui si riconduce il suo battesimo — rappresentato con matematica perfezione neoplatonica da Piero della Francesca — che coincide con la levata eliaca di Sirio, la stella messianica del versetto di Isaia.
In Io, Gesù Graves, superbo esperto di mitografia greca ed ebraica, dipana il sincretismo fin dalla Natività. Se la Vergine Madre dalla veste azzurra e dalla corona di stelle d’argento è necessaria ipòstasi di Iside, nella grotta la mangiatoia dov’è adagiato il Bambino ripropone quella usata allo stesso scopo nei misteri delfici ed elusini e il bue e l’asino, cui già allude Isaia, simboleggiano i due messia promessi, il figlio di Giuseppe e il figlio di Davide, che il neonato adorato dai Magi riunisce. La sua storia ha tratti in comune con quella di Pèrseo, che il re Acrisio tenta di uccidere in fasce.
Nella narrazione di
Graves, ironicamente accademica, irresistibilmente sacrilega,
implacabilmente laica, i Magi non sono nulla di ciò che per due
millenni l’esegesi dei teologi cristiani o degli storici delle
religioni o tanto meno degli esoteristi e teosofi in voga in quegli
anni ha abilmente e spesso fondatamente congetturato, ma solo tre
ebrei damasceni della tribù di Issa- char, che nel palazzo di Erode
a Gerico si presentano come astrologi appartenenti alla nuova setta
degli “alleanzisti”: hanno stipulato una nuova alleanza con Dio
attraverso la mediazione di uno spirito chiamato “Colui che viene”
ovvero “la Stella”, che secondo la loro previsione si incarnerà
quanto prima sotto spoglie umane e darà a Erode gloria eterna.
Ma Erode stesso ha basato
la sua politica e il suo regno sulla congiunzione astrale di Giove e
Saturno individuata da Keplero nel 1614. Dal fallimento del piano
dinastico di Erode, che in Graves si snoda in sostanziale aderenza a
Matteo, ascende l’astro del nuovo re che i tre astrologi giudei
hanno correttamente individuato e adorato, ma che non sarà scorto in
vera luce dai gentili. I suoi Atti e detti, originariamente scritti
in aramaico, riceveranno, riferisce il beffardo Agabo, versioni
multiple di una traduzione greca «erronea, a volte goffa e di tanto
in tanto fraudolenta », cosicché i fondatori delle chiese gentili
fraintenderanno «così stranamente la sua missione da fare di lui la
figura centrale di un nuovo culto che, se lui oggi fosse vivo,
giudicherebbe solo con avversione e orrore».
Lo vedranno come un
giudeo rinnegato che «unendo la propria sorte a quella degli
gnostici greci aspirò a una sorta di divinità apollinea, per di più
fornendo credenziali che devono essere accettate per cieca fede —
suppongo perché nessuna persona ragionevole», aggiunge Agabo,
«potrebbe mai accettarle in alcun altro modo».
La Repubblica – 6
gennaio 2016
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