L' amica Giuseppina Bosco continua a proporci ritratti di autrici siciliane che meritano di essere lette e meglio conosciute. fv
Maricla di Dio Morgano vive a Calascibetta (Enna) e
appartiene ad una famiglia di artisti, il padre era attore, scrittore e
drammaturgo, la madre, Elisa Contoli, era attrice dell’omonima Compagnia, che
rimase attiva fino ai primi Anni ‘60. Maricla più che la recitazione ha amato
la scrittura e nonostante i successi teatrali ha preferito dedicarsi alla
letteratura.
È autrice di diversi
romanzi: “L’ultimo giorno d’estate”, “Il respiro del vento”, “Lena”, “Dalla
parte del torto”, “L’isola”, e ha ricevuto numerosi premi letterari. Di
notevole successo l’ultimo romanzo del 2015 “La siciliana”, che ha
letteralmente conquistato Catena Fiorello. Molte sue opere sono state recensite
da personalità di spicco del mondo culturale: Vincenzo Guerrazzi, Sveva Casati
Modigliani, Rosa Alberoni, Catena Fiorello e tanti altri.
Con l’ultimo romanzo
“Donne di sabbia”, l’autrice ha raggiunto una maturità espressiva analizzando
con grande capacità introspettiva i personaggi, mettendo in luce i variegati
recessi dell’animo. Ma diamo a Maricla di Dio Morgano la possibilità di parlare
del suo nuovo romanzo con questa intervista. (G. B.)
Giuseppina Bosco:
D: Nei romanzi in cui
l’io narrante ripercorre le tappe di un dramma personale, incentrato sul
rapporto madre-figlia, il coinvolgimento emotivo è inevitabile, soprattutto se
chi narra deve fare i conti con il più tragico degli eventi: il coma vegetativo
della propria figlia (Carla) a causa di un incidente . È su questa vicenda che
si apre il romanzo di Maricla di Dio Morgano, “Donne di sabbia”. Il titolo
oltre a sottolineare la diversa dislocazione geografica dei personaggi
femminili, i quali hanno vissuto nelle città della costa africana (Egitto)
attraversata dal deserto, potrebbe connotare
la fragilità della condizione umana?
Maricla di Dio:
R:
La sabbia è sinonimo di aridità. Ma nelle profondità del deserto, scorre acqua.
L’apparente aridità è un tema fondamentale in questo romanzo, legato
soprattutto al personaggio di Sonia (ma non solo). L’incapacità di esternare
emozioni e sentimenti è una prerogativa di questa donna dalla vita non comune
ed è la motivazione dalla quale scaturiscono i sensi di colpa che danno
spessore all’intero tessuto narrativo.
La pluralità del titolo in “donne” non è uno sterile riferimento a madre
e figlia, ma l’estensione all’intero universo femminile e alle sue infinite
sfaccettature e problematiche.
G.
Bosco:
D: Il personaggio di Sonia è ben delineato nella
sua complessità: è una donna che lotta per mantenere il suo fragile equilibrio,
messo a dura prova dalle situazioni della vita e soprattutto dal rapporto
problematico con la figlia. Quanto è presente l’autrice nel carattere della
protagonista del romanzo?
M.
Di Dio
R: Io e Sonia siamo
diverse caratterialmente. Mentre le vicissitudini che riguardano il mio
personaggio hanno plasmato una donna fragile e insicura, le mie vicissitudini,
i grandi dolori della vita, le prove, le delusioni, hanno determinato una certa
fermezza. In Sonia ho trasferito comunque cenni di un personale disagio subito in
seguito a un capovolgimento del mio vissuto, scaturito nel momento in cui ho
dovuto identificarmi con un luogo fisso
di residenza. L’angoscia del senso di Appartenenza
e Identità che tormenta Sonia e ne
determina tutta la complessità del suo essere donna, ha riferimenti
personali. Il mio felice mondo infantile
e adolescenziale si è svolto nel cerchio di una straordinaria e inconsueta
famiglia (provengo da intere generazioni di attori che con le loro Compagnie di
prosa, giravano tutto l’anno in lungo e in largo l’Italia). Nessuna origine
territoriale ha disciplinato la prima parte della mia di vita. Ero (eravamo)
totalmente estranei a qualunque concezione di appartenenza. Solo mio
padre vantava origini “normali”, provenendo da una famiglia siciliana di
piccoli tenutari da cui fuggì, lasciando gli studi, per rincorrere un ambizioso
obiettivo: diventare un attore. L’incontro con la Compagnia di prosa di mia
nonna, fu fatale. Raggiunse i suoi sogni e si innamorò di mia madre (donna di
straordinaria bellezza e bravura). Quando mia madre in seguito a dolorosi
eventi culminati con la morte di mio padre, ha scelto stoicamente di lasciare
il teatro e sciogliere la Compagnia interrompendo l’antichissima tradizione
artistica e ritirandosi in Sicilia (unico posto in cui esistevano radici e proprietà immobiliari), la
nostra vita è stata catapultata in una realtà lontanissima da quella in cui
avevamo da sempre vissuto. Non è stato per niente facile inserirsi nella
piccola, angusta ed emarginata realtà di un mondo colmo di consuetudini come quello di un piccolo paese del centro Sicilia. Non è
stato facile riconoscerne le peculiarità, identificarsi in esso. Mia madre non ci ha neppure provato, chiudendosi
in casa. Noi ragazzi dovevamo tessere la nostra vita cominciando un percorso
sconosciuto e astruso. Ci sono voluti anni e anni…
Adesso vivo serenamente
in questo arroccato paese. Ho imparato ad amarlo e ad amare la mia Sicilia e se “l’identificazione”
non è mai totalmente avvenuta per complessi misteri genetici, non ha più
importanza. Non cambierei questo piccolo paese per nessun altro al mondo.
G. Bosco:
D: La storia narrata
fin dalle prime pagine richiama alla mente un altro romanzo: “Paula” di Isabel
Allende. Ho riscontrato sul piano psicologico la stessa angoscia di una madre
che tenta di comunicare con la figlia in coma per una incurabile malattia,
ricordando i momenti più intensi della loro vita e sperando in un miracoloso
risveglio. Anche se in Paula l’autrice unisce il dolore per la malattia della
figlia ad un’altrettanto dolorosa esperienza: il colpo di stato di Pinochet del
1973 e l’uccisione di Salvator Allende, che ne segnano la vita. Un’altra
differenza consiste nel genere narrativo. Se il romanzo dell’Allende è
costruito come un diario autobiografico, “Donne di sabbia” rivela la struttura
di un giallo. Il lettore deve cogliere alcuni
indizi nei vari capitoli del libro per trovare il filo che unisce la
storia. Condivide tali parallelismi?
M. Di Dio:
R: Ho letto Paula tanti
anni fa e non ho voluto rileggerlo durante la stesura del romanzo, (come non ho
voluto leggere altri testi che trattavano la stessa amara realtà (come quello
recente su Eluana Englaro), per non essere troppo coinvolta e influenzata da
sensazioni ed emozioni realmente vissute sulla pelle degli autori. “Donne di sabbia” è pura invenzione. Nulla,
dal punto di vista prettamente “umano”, che possa confrontarsi alla straziante
partecipazione della Allende e del padre della giovane Eluana.
La struttura narrativa
di Paula- per quanto io possa ricordare- è sicuramente molto diversa. Il mio
romanzo come Lei ben dice, a differenza del testo della Allende, non è un
diario. E’ stato concepito come un percorso storico-esistenziale che elabora le
tipiche caratteristiche del racconto. Non mi sorprende del tutto il riferimento
alla struttura di un giallo. Anche il prof. Grimaldi ha iniziato
la premessa del romanzo con la frase: “Si legge come un thriller.” Forse è
insito, nel romanzo, una logica
giallistica che riconduce un passo dopo l’altro - in percorsi necessari e
strutturati- a verità e conclusioni
ineluttabili, seppure in un contesto narrativo lontano dal classicismo giallo.
Il tutto, comunque, non è una scelta programmata, ma casuale (per quanto possa
essere “casuale” un indirizzo narrativo).
G. Bosco:
D: Alla base dei
conflitti tra Sonia e Carla vi è senza dubbio la loro distanza generazionale:
quest’ultima non ha mai accettato la duplicità della madre, divisa tra
l’atavica rassegnazione delle donne meridionali, la mancanza di volontà nelle situazioni e la
dinamicità di una donna moderna. Sonia, in realtà, ha avuto l’esempio di una
madre forte e determinata come quelle del Sud Italia: lei era nata a Locri, in
Calabria, terra intrisa di cultura greca e araba al contempo. Sonia nasce
,invece,nella casa colonica di Gars Garabulli, un villaggio libico, insieme ai
suoi fratelli, sostenuti dalle forti
braccia materne e dipendenti dalla sua saggezza. È forse la determinazione materna ad indurre
i propri figli ad accettare di vivere in quella terra straniera, in funzione di
un futuro migliore, poco comprensibile ad una generazione come quella di Carla?
M. Di Dio:
R: Credo che ogni
generazione abbia conflittualità in famiglia. E’ inevitabile. Ma la figura di
Anna Greco, madre di Sonia, è del tutto diversa da Sonia stessa e diverse sono
le dinamiche educative. Mentre Anna
è la roccia alla quale tutta la famiglia si aggrappa, Sonia vive un
ruolo condizionato dagli eventi senza la forza e la determinazione propria
della madre. L’educazione che cercherà di impartire a Carla è plagiata dalla
conflittualità e dalla nebulosa consapevolezza del proprio “io” nel quale non
riesce a scindere i ruoli che la vita stessa impone: donna-madre-moglie. La sua
incapacità scaturisce sempre dalla confusa “appartenenza” (origine
italiana-nascita e infanzia in Libia dove assimila e subisce il fascino del
Nord Africa- trasferimento in Egitto in seguito agli eventi bellici del ‘47 e
infine –già donna e madre- l’approdo in Italia). “Ero senza un’identità precisa……”
G. Bosco:
D: Le descrizioni dei
luoghi vissuti si traducono in immagini di potente realismo, con uno stile
lirico ed evocativo di atmosfere, soprattutto quando la protagonista
descrive la città del Cairo, dove si
trasferisce: <<L’Egitto aveva qualcosa della Libia, gli stessi odori, gli
stessi tramonti. Scoprimmo un po’ alla volta tra stenti, fame, stracci,
baracche, suk, fogne a cielo aperto,
urla di bambini cenciosi, piaghe di malati e puzze, le infinite meraviglie di
una terra colma di misteri.>> .Questo modo di scrivere ha come modello Cesare Pavese de “La casa in
collina” o di “Paesi tuoi”? Si nota anche l’essenzialità e la semplicità della
sintassi, con periodi breve e molto fluidi nella forma. È una particolarità della sua scrittura?
M. Di Dio:
R: Amo Pavese. Sono cresciuta con “Verrà la
morte e avrà i tuoi occhi” che ha innestato in me il profondo interesse per la
poesia e ho letto infinite volte “Prima che il gallo canti” “La luna e i falò”
e altre opere del grande e sfortunato scrittore. Restano tra le più care
letture giovanili che hanno lasciato in me il fascino della scrittura e
l’incanto del “racconto” ma non ho mai avuto un modello che abbia determinato
il mio stile. Condivido però il pavesiano simbolismo della campagna, la ricerca
di radici, il mito della solitudine. La mia scrittura è piuttosto l’esito di
un’infanzia trascorsa tra testi teatrali e letteratura. Una caotica,
affascinante miscela di storie e personaggi in un vortice di sensazioni
imbrigliate nella conoscenza. Da ogni autore ho attinto qualcosa, da ogni opera
ho inconsciamente conservato embrionali essenze.
G. Bosco:
D: Sonia è una donna
che matura la sua affettività dopo il matrimonio con un archeologo italiano,
che sposa perché è un’opportunità da non perdere. La personalità dell’uomo
viene analizzata attraverso il filo della memoria, a cui lei si aggrappa per
comunicare con la figlia, sperando in un suo risveglio. In questa sequenza del
romanzo Sonia rievoca le lunghe assenze di lui come quella volta in cui mancò
per più di un mese dopo l’incarico ricevuto per la salvaguardia del tempio di
Ambu Simbel dall’inondazione della diga di Aswan. Quanto la professione del
padre condizionerà le scelte lavorative della figlia, sempre in viaggio per il
mondo, e la sua instabilità psichica?
M. Di Dio:
R: La figura del padre, per Carla, (al di là di
architetture edipiche freudiane), colma le lacune del rapporto madre-figlia. La
professione avventurosa e per certi versi misteriosa dell’uomo, esercita un
fascino inevitabile sulla complessa personalità di Carla che-in ogni caso- soffre
enormemente per le eccessive assenze del padre.
L’amore per l’archeologia della bambina finirà quando questa provocherà
la morte dell’uomo, ma resta in lei l’ossessivo interesse per la conoscenza del
mondo. L’instabilità psichica scaturisce dall’infanzia inquieta, carente di
riferimenti affettivi e si acuisce con la brutalità degli eventi propri della
professione scelta: corrispondente di guerra.
G. Bosco:
D: Il tempo storico
nella narrazione parte da quello del regime fascista in Italia e della
colonizzazione della Libia del 1934, con riferimenti alla guerra del ‘43, fino
ai nostri giorni. Anche la perdita delle colonie italiane del 1947 s’intreccia
con le vicende dei personaggi e vi sono anche accenni alla rivoluzione del
1959, quando Gheddafi prese il potere e rese indipendente la Libia. Perché
invece il riferimento al presente non è molto contestualizzato?
M. Di Dio:
R: Le vicende politiche
italiane non coinvolgono Sonia e non ne condizionano la vita. La scoperta
dell’Italia è un fattore emozionale puramente estetico. L’identità territoriale
di Sonia non si rivela come aveva sperato, con il suo arrivo nel suolo di
origine. A differenza degli eventi vissuti in Libia che hanno determinato la
stessa esistenza della famiglia, l’Italia non porta sconvolgimenti. Lei non ne
interiorizza gli eventi socio-politici, non segue le dinamiche di un territorio
che in effetti non sente totalmente suo. Continua a il suo vivere “in superficie, nella schiuma delle cose”.
G. Bosco:
D: Molti personaggi
secondari, dai beduini del deserto, ai pastori, alle donne dei villaggi, con i
quali Sonia e Carla si relazionano, fanno parte di un mondo diverso, con
tradizioni, rituali, cultura, lontani da quelli occidentali. Ad esempio Zira è
una contadina in cui è contenuta tutta la saggezza e al contempo tutta la
rassegnazione delle donne arabe, considerate alla stregua delle bestie, schiavizzate
prima dal padre e poi dal marito; condizione inaccettabile per una mentalità
emancipata e moderna come quella della protagonista. La figura di Zira però è
quella di una grande donna, dotata di un’incommensurabile forza morale, il cui
ricordo costituisce un arricchimento interiore e un insegnamento di vita. Nel
costruire questo personaggio, si è ispirata
ad esperienze personali?
M. Di Dio:
R: Amo l’Africa e ho visitato molti suoi Paesi.
Sono una viaggiatrice che “ruba ciò che vede e sente. Mi intrufolo nella vita
degli altri, cerco di carpirne i desideri, le speranze, le difficoltà e le
gioie. Questo mi è molto servito nell’elaborare romanzi e novelle anche se la
mia esigenza non è professionale, ma puramente istintiva.
-Ho conosciuto diverse donne che potrebbero
assimilarsi a Zina. Rappresenta l’anima
della donna araba. Ne incarna tutta la fragilità e la forza, in un chiaroscuro di difficile comprensione per
la nostra civiltà, ma di profondo spessore seduttivo.
G. Bosco:
D: A proposito della
narrativa dei grandi scrittori siciliani, quali Pirandello, Tomasi di Lampedusa
e altri, Sciascia ha introdotto la categoria di “sicilianità”, che si rivela
nella problematicità dei personaggi descritti, sempre alla ricerca di un
“altrove” o di una possibile identità. In un passo del romanzo, e precisamente
in uno dei tanti soliloqui di Sonia, c’è questa
amara riflessione: <<Ero senza un’identità precisa: italiana,
libica, egiziana […] io non ero una, ma tante, nessuna.>> In che modo la
sicilianità è presente nella scrittura di Maricla di Dio Morgano?
M. Di Dio:
R: Tra i moltissimi
autori con i quali ho condiviso infanzia e adolescenza, Pirandello era il mio
idolo. La sicilianità è sicuramente
presente in molti testi ambientati in Sicilia (Lena, L’Isola, La Siciliana, La
coda del diavolo, Donne… e una moltitudine di novelle.) In “donne di sabbia”
l’ambientazione e i profili dei vari personaggi sono molto lontani da quella
che potrebbe essere la mia ormai dichiarata sicilianità, ma se ne riscontra la
presenza proprio nel nucleo del racconto, ovvero, il tema dell’altrove nel
paradosso fuga-ricerca esistenziale, ed è infine, dichiaratamente
pirandelliana, la sintesi finale: l’allontanamento dalla realtà e il
progressivo accostamento alla follia.
G. Bosco:
D: La conclusione del
romanzo sembra aprire le porte alla speranza e rimanda ad un “altrove” come
luogo non definito, in cui finalmente Sonia e Carla possano incontrarsi e
restare per sempre insieme. Quale messaggio in realtà l’autrice ha voluto
trasmettere ai suoi lettori?
M. Di Dio:
R: Vi sono dolori che
la fragilità umana non supera e non trovano via d’uscita se non in quella sfera
(maledetta o sublime), detta follia. La follia potrebbe essere il luogo dove
rifugiarsi e ritrovarsi quando ogni altra speranza è vana. Un’opzione alla
morte fisica (che Sonia rifiuta per la figlia, non accettando la possibilità
dell’eutanasia). Cosa resta, quindi, se non
la follia che già serpeggia
nella povera mente di questa madre stremata da una inutile speranza, da anni
d’insonnia, dall’abbandono di se stessa?
Follia come unico, estremo rifugio. Il mondo estraneo a ogni realtà nel
quale portare con sé la sua creatura “ti porterò in un posto colmo di luce. E’
una strada facile. Dritta... Ecco il
cerchio magico dove tutto è possibile. Anche trovare un’assurda, impossibile
felicità.
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