Nei giorni scorsi è stato recensito
un ampio e documentato studio dello storico Jonathan
Israel secondo il quale la grande rivoluzione del
1789 avrebbe avuto origine, più che da ragioni economiche e sociali, dalle idee
illuministiche più radicali diffuse tramite giornali e riviste. Per la verità a
me non sembra questa una grande novità, dal momento che una tesi simile è stata
sostenuta, fin dai primi anni del 900, sia da Salvemini che dallo stesso
giovane Gramsci. fv
La fiaccola dei philosophes
Francesco Benigno
Dopo aver
dedicato molti anni alla trattazione dell’Illuminismo, Jonathan Israel, notissimo professore di storia moderna
a Princeton, irrompe ora con un libro, La Rivoluzione francese Una
storia intellettuale dai Diritti dell’uomo a Robespierre (Einaudi,
traduzione di Palma di Nunno e Marco Nanni, pp. 960, euro 42,00) che
promette di épater les historiens. Malgrado un paio di secoli di
investigazioni, infatti, gli storici non avrebbero capito nulla della
Rivoluzione francese, o almeno, della sua natura profonda. Le origini del
più grandioso terremoto politico dell’età moderna sono state variamente
attribuite: vuoi a una crescita economica dirompente, capace di travolgere
un sistema politico fatiscente, vuoi, all’opposto, a una crisi
congiunturale, un micidiale cocktail di finanza statale dissestata e di
carestia; allo stesso modo, il tormentato ma resiliente percorso della
Rivoluzione è stato spiegato facendo riferimento al radicalismo ideologico
giacobino, oppure, alternativamente, alle «circostanze», quel trascinamento
inesorabile indotto dalla «forza delle cose».
Dopo due
secoli e passa d’inesausta eziologia, quasi una ricerca del Sacro Graal,
si è ora diffusa – scrive Israel – una certa stanchezza e la tendenza
a propendere per una molteplicità di concause, materiali, culturali,
sociali; mentre è venuto il momento di affermare con nettezza che la
rivoluzione ha una sola vera big cause, e cioè il propagarsi, in una sezione
della classe dirigente francese, delle idee dell’Illuminismo radicale. Torna
tra queste pagine il sistema di pensiero esposto dallo storico inglese in un
precedente e assai discusso volume, Una rivoluzione della mente
(Einaudi, 2011). Negli ultimi venti anni Israel, già autore di importanti studi
sull’ebraismo europeo – Gli ebrei d’Europa nell’età moderna (Il Mulino
1991) e sull’Olanda – The Dutch Republic (Clarendon Press 1995), si
è dedicato a tratteggiare una tradizione di pensiero democratico
e critico che fa risalire a Baruch Spinoza. In una serie di poderosi
saggi è venuto delineando, così, l’evoluzione secolare delle idee
dell’Illuminismo radicale come fondatrici della tolleranza, del laicismo
e della democrazia. Proprio queste idee diventano ora la causa causans della
Rivoluzione, che dunque non sarebbe tanto – come era parso a molti
contemporanei prima ancora che a molti storici – un inatteso
e sconvolgente evento, capace di evocare la tempestosa forza della natura
(il fortunale, il cataclisma) e di modificare il mondo conosciuto dell’Ancien
régime al punto da renderlo irriconoscibile, quanto la mise en scène di un
copione già scritto, o almeno di un canovaccio per una recita
a soggetto. Le idee, insomma, precedono e rischiarano la strada agli
avvenimenti, che, come la salmeria, seguono.
Da Daniel
Mornet in poi la storiografia ha lungamente dibattuto il tema delle origini
intellettuali della rivoluzione francese, ovvero, per dirla con Roger Chartier,
quello delle sue radici culturali. E naturalmente il nesso Illuminismo-rivoluzione,
ovvero la questione del legame fra concezioni filosofiche e morali
e sovversione politica, è stato al centro di accesi dibattiti. C’è
stato anzi chi – tra loro Robert Darnton – ha provato a legare
direttamente la diffusione della stampa clandestina, satirica
e iconoclasta, alla crisi dell’autorità politica. Mai nessuno, però (se
non, con tutt’altri intenti, la pubblicistica reazionaria), aveva collegato
tanto strettamente l’affermarsi del ruolo dei philosophes nell’imporre la
centralità della ragione illuministica e la disgregazione politica della
monarchia dei Borbone.
Ma –
e sta qui la principale innovazione proposta da Israel – queste idee, non
sono, come tante volte si è affermato genericamente, quelle
dell’Illuminismo: sono invece i ragionamenti di una sua specifica sezione,
quella radicale, corrispondente ai nomi di Diderot, del barone D’Holbach
e di Helvétius: idee perciò democratico-repubblicane, materialiste
e atee, le sole capaci di ispirare e attrezzare la leadership
rivoluzionaria sia politicamente, sia sul piano filosofico e logico.
Per rendere
credibile la sua tesi, Israel deve dimostrare come la pattuglia di
intellettuali alla guida della rivoluzione sia stata, sin dal 1788, di
orientamento democratico-radicale e repubblicano: ipotesi invero azzardata
e, a dirla tutta, malgrado l’inesausta erudizione sfoggiata, priva di
sostegni documentari.
Piuttosto
che immaginare la rivoluzione come un calderone di esperienze capaci di
trasformare gli individui, inducendoli a divenire rivoluzionari, Israel ha
bisogno di sostenere che alcuni fra loro, i leader della rivoluzione, lo
fossero in qualche modo sin dall’inizio, e che costoro coincidano
esattamente con chi si era dotato di «buone» letture. Israel sostiene infatti
che la rivoluzione «progressista», quella repubblicana, dell’emancipazione
e dei diritti umani, discende direttamente dalle idee dell’Illuminismo
radicale e si invera nel filone girondino prima e in quello degli
idéologues, poi. Le idee dell’Illuminismo moderato, da Voltaire a Montesquieu,
nutriranno invece la corrente «inglese» ovvero monarchico-costituzionale
e liberale, mentre da quelle di Mably e di Rousseau originerà il
populismo autoritario dei giacobini e in primo luogo di Robespierre.
C’è dunque
una corrispondenza precisa e anzi meccanica tra riferimenti intellettuali
e scelte politiche, una coincidenza avanzata con l’intenzione esplicita di
privilegiare il gruppo degli amici di Brissot, qualificati come gli unici veri
democratici perché capaci di attingere al filone ideale «giusto»; mentre
a destra come a sinistra scelte politiche errate dipenderebbero da
letture filosofiche improprie. Questo eccessivo schematismo, man mano che la
trattazione procede, non si attenua, e anzi tende ad accentuarsi.
Liquidata la
stagione monarchico-costituzionale come passatista, il panorama che emerge
all’indomani del 10 agosto 1792, la journée che segna l’avvento della
Repubblica, è quello di un drammatico bivio. Da una parte c’è l’unica
rivoluzione che possiamo ancora rivendicare – insinua Israel ammiccando al
lettore contemporaneo – quella dei veri philosophes, e con loro dei
diritti umani, delle libertà civili, dell’emancipazione degli ebrei, della
rivendicazione della cittadinanza femminile e dell’abolizione della
schiavitù. Mentre dall’altra c’è la rivoluzione sanguinaria inaugurata coi
massacri del successivo settembre e sfociata poi nel Terrore. La prima
è l’opera esclusiva di una pattuglia di filosofi e politici
idealisti, chiamati brissotins o girondini, sostenitori del cosmopolitismo
e dell’uso della ragione in politica, laddove la seconda è il
prodotto di una deriva sciovinista, dispotica e demagogica di cui sono
responsabili i giacobini, adoratori della volonté générale.
Lo scenario
storico che ne discende, malgrado l’enorme mole di fonti mobilitate in quasi
mille pagine di testo, suona artificiale, senza sfumature, una sorta di
rassicurante film western d’antan in cui tutto il bene sta da una parte
e tutto il male dall’altra.
Israel non
sembra preoccuparsi troppo dei rischi di anacronismo interni a una simile
contrapposizione e anzi arriva al punto di affermare che il populismo
autoritario di Robespierre prefigurerebbe «il moderno fascismo». Ora, mettere
sulle spalle dell’avvocato di Arras, oltre alle sue personali, indubitabili colpe,
anche il gravoso fardello dei mali di ciò che sarebbe divenuto «il socialismo
reale», sembra già – all’altezza di questo nostro 2016 – inappropriato; ma
aggiungerci quest’ultimo gravoso peso è davvero troppo.
C’è poi
un’altra insidia che Israel sceglie intemeratamente di non considerare, ed
è la dichiarata approvazione dell’aggressivo imperialismo francese, prima
repubblicano e poi napoleonico; l’idea cioè che esso vada non solo capito
ma creduto nella sua pretesa di essere indirizzato a donare la fiaccola
della ragione a paesi sprofondati nelle tenebre dell’ignoranza
e della superstizione religiosa. Israel difende insomma, con convinzione,
la diffusione per via militare delle idee rivoluzionarie, facendone una sorta
di precorritrice dell’idea attuale dell’esportabilità con la forza della
democrazia, e della cosiddetta responsibility to protect. Dunque, non solo
approva acriticamente la scelta brissottina di lanciare il paese in una guerra
sanguinosa e interminabile – portatrice di infiniti lutti e, in ultima
analisi, della trasformazione della prima repubblica in una dittatura militare
e poi in una monarchia imperiale – ma accredita la spedizione del generale
Bonaparte in Egitto come finalizzata a convertire gli egiziani e le
popolazioni arabe confinanti agli ideali dell’Illuminismo. La propaganda
bonapartista diviene così canone interpretativo.
Ora, come si
sa, il risveglio nazionalistico che infiammò l’Europa nel primo ventennio del
XIX secolo non discese soltanto dal nuovo concetto di popolo-nazione ma anche
dall’inaudita invasione delle armate napoleoniche in molti paesi del vecchio
continente, dove (in Germania, in Tirolo e soprattutto in Spagna) avrebbe
dato luogo all’apparizione in grande stile di ciò che i teorici militari
settecenteschi chiamavamo «piccola guerra» e che da allora si sarebbe
chiamata guerriglia. Meno noto è il fatto che la presenza di truppe
straniere produsse effetti simili anche in Egitto. Israel, sulla scia di
Napoleone, non nasconde la sua delusione per la scarsa penetrazione in Medio
Oriente degli ideali democratico-radicali e per la contrarietà di quelle
popolazioni a farsi «illuminare»; e sorvola sul fatto che anche in
Egitto i francesi si trovarono a mal partito nel fronteggiare una tenace
guerriglia, ispirata dalla «jihad» ordinata dal Califfato e rilanciata
dagli ulema.
Già il
giorno successivo al suo sbarco, il 2 luglio 1798, in una viuzza di
Alessandria Napoleone fu ferito a un piede da un cecchino. Era solo
l’inizio: la resistenza politica, ma anche religiosa, dei locali – rafforzati
da combattenti giunti dall’Arabia – lo condusse in ottobre a ordinare di
bombardare la città e la moschea di El-Akzar, centro spirituale della
sollevazione. Tornano alla mente le famose, irreverenti domande di Brecht: «Su
chi trionfarono i Cesari?», «chi ne pagò le spese?».
Da IL MANIFESTO ALIAS 24 gennaio 2016
Matteo Troiano: condivido.La crisi finanziaria e la crisi economica dovuta ai cattivi raccolti e altre doleances hanno fatto da detonatori ma l'orizzonte era costituito dalle idee illuministe.
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