L’epoca in cui
viviamo ha esaltato la figura raccontata da Ovidio come emblema di un
soggetto che basta a se stesso e che vorrebbe annullare la dipendenza
dall’Altro. L’Io è diventato il nuovo idolo pagano altrettanto
superstizioso di quelli che la ragione critica dell’illuminismo è
riuscito a smascherare.
Massimo Recalcati
Caravaggio, seguendo il mito raccontato da Ovidio, ci presenta il giovane Narciso affacciato sulle acque che gli restituiscono — in una perfetta simmetria avvolta dal buio — la sua immagine adorata. La bellezza di Narciso contiene, si capisce, una trappola mortale: la fascinazione per se stessi può essere fatale. È quello che accade anche nel mito: nel tentativo di afferrare la propria immagine riflessa il giovane Narciso sprofonda nell’abisso delle acque perdendo la propria vita.
Freud aveva coniato da
questo mito una figura fondamentale della clinica psicoanalitica: il
narcisista è colui che perde la propria vita restando alienato
nell’infatuazione esaltata ma sterile per la propria immagine. Nel
mito di Ovidio Narciso è, infatti, colui che suscita ammirazione e
amore, ma che non può, a sua volta, né provare, né ricambiare in
nessuna forma. L’anestesia affettiva è un tratto anche clinico
della personalità narcisistica che segnala la sua impossibilità di
entrare in una forma di legame con l’altro in quanto tutta la sua
libido appare sequestrata dal proprio Io.
Non a caso per Freud l’Io
è il primo oggetto di investimento libidico, il suo “serbatoio”
originario. Il che significa che l’essere umano non nasce
predisposto all’altruismo, ma, casomai, al culto di se stesso. Il
narcisismo definisce la tendenza egocentrica dell’uomo che
contrasta radicalmente con la tesi aristotelica dell’uomo come
animale sociale: il nostro Io è il primo grande e insidioso idolo
alla cui potenza immaginaria la nostra vita si consacra.
Caravaggio, Narciso
L’illusione narcisistica vorrebbe cancellare il tabù della dipendenza dell’uomo dall’Altro. Il suo fantasma è partenogenetico, esclude ogni fecondazione dell’Altro. Il suo disegno è quello dell’auto-costituzione, dell’auto-fondazione, dell’auto-realizzazione. Mai nessun tempo come il nostro ha esaltato a dismisura la figura di Narciso come emblema di un soggetto che basta a se stesso, indipendente, autonomo. È una patologia non solo individuale.
Narciso può, come nel
mito di Ovidio, innamorarsi solo di ciò che gli assomiglia, solo
della propria immagine ideale; egli non conosce l’alterità, non
conosce l’amore come esposizione assoluta verso il dissimile. Il
fantasma di autoconsistenza che governa la vita di Narciso ispira da
capo a piedi il mito neo-liberale del “farsi un nome da sé”.
Esso domina le nostre vite come una vera e propria forma pagana di
idolatria. L’ideale seduttivo dell’auto-generazione vorrebbe
negare ogni debito, ogni provenienza dall’Altro nutrendo la
credenza folle dell’Io che basta a se stesso.
Tuttavia, il mito di Narciso non si limita a mostrare la potenza seduttiva dell’illusione di farsi un nome da sé, ma ne evidenzia anche il rischio mortale. Narciso vorrebbe cancellare la distanza che lo separa da se stesso, reintegrare il suo doppio che vede riflesso, negare quella divisione che attraversa tutti noi impedendoci di credere troppo al nostro Io. Nessuno di noi, infatti — salvo i grandi paranoici — può pensare di coincidere perfettamente con l’Io che crede di essere.
Nel tentativo di
realizzare questa coincidenza, Narciso perde la sua vita. Per questa
ragione Lacan ha messo in evidenza il carattere profondamente
suicidario del narcisismo umano: idolatrando la propria immagine,
perseguendo il sogno onnipotente di cancellare l’alterità, il
sogno di Narciso naufraga nell’abisso oscuro delle acque. Credere
di essere un Io è, infatti, la malattia umana per eccellenza, la
follia più grande, la forma più subdola e pericolosa di idolatria.
Se la modernità ha
segnato il tempo della giusta emancipazione dell’Io dagli
oscurantismi irrazionali della superstizione, se la voce di Kant ha
definito la stagione dei lumi come l’uscita necessaria dell’uomo
dal suo stato di minorità, l’epoca ipermoderna, quella in cui
viviamo, non ha forse trasformato l’Io stesso in un nuovo idolo
pagano, altrettanto superstizioso di quelli che la ragione critica
dell’illuminismo ha smascherato nella loro impostura? Bisognerebbe
forse rileggere in questa luce un testo di immutata attualità com’è
la Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer per cogliere
sino in fondo la portata di questo ribaltamento epocale: l’Io si
emancipa dalle ombre della superstizione religiosa per trasformarsi
esso stesso in un’ombra altrettanto inquietante.
Massimo Recalcati
Lacan lo diceva a suo
modo: il problema non è più quello di distinguere la preda
dall’ombra, di emanciparsi dall’ombra, ma di essere tutti noi
prede della nostra stessa ombra. Narciso è l’ombra spessa di cui
l’uomo ipermoderno è preda. La sua passione furiosa, la sua
superbia capricciosa, vorrebbe annullare lo scarto che lo separa da
se stesso negando ogni forma di dipendenza dall’Altro. Questa è la
sua follia mortale che il nostro tempo ha elevato ad una sorta di
nuovo comandamento sociale.
Senza dimenticare però
che le forme forse più nocive del narcisismo sono quelle passive,
della falsa umiltà, del rigetto dell’ambizione, della vita schiva,
ma avvelenata. Si tratta, in realtà, solo del retro di una stessa
medaglia: lo sguardo torvo del risentito — scolpito magistralmente
da Nietzsche ne La genealogia della morale — odia la vita capace di
realizzarsi invocando l’umiltà e il nascondimento solo come segni
grigi della sua impotenza rabbiosa. In essa dimora più che mai lo
spettro narcisistico che anima, al suo fondo, ogni forma di invidia
umana.
La Repubblica – 17
gennaio 2016
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