Pledge of Allegiance
Dopo il Kilt scozzese
(inventato nel Settecento da un mercante di stoffe inglese), ora è
la volta del saluto romano che sembra sia stato inventato negli USA nel
1892. Crolla un altro mito identitario. Forse è il caso di
farlo sapere ad Alemanno.
Livia Capponi
Il gesto a noi
noto come «saluto romano»
Il gesto a noi noto come «saluto romano», con il braccio destro teso alzato a circa 135 gradi dal corpo, e con le dita della mano unite, adottato dal regime fascista e poi dal nazismo, si presentava esplicitamente come un revival dell’eredità di Roma. Ma esisteva davvero quel gesto specifico di saluto nel mondo antico? La più comune forma di saluto nella Grecia classica era una semplice stretta di mano. A Roma i legionari battevano il palmo o il pugno sul petto, come è stato efficacemente rievocato dal cinema. I gladiatori si afferravano l’avambraccio destro al di sopra del polso. Sorprendentemente, esisteva anche un saluto militare simile a quello odierno, che a torto si credeva un’invenzione medievale.
I soldati romani, i barbari e gli imperatori raffigurati a Roma, sugli archi di Tito e di Costantino e sui fregi di argomento storico delle colonne di Traiano e di Marco Aurelio, si sbracciano in svariati gesti, il cui preciso significato non è sempre chiaro. In molti casi, sia i soldati che l’imperatore salutano alzando la mano aperta, come faremmo noi. Altre volte, l’imperatore alza leggermente anche il braccio, ma, come notano Andrea Giardina e André Vauchez nel libro Il mito di Roma (Laterza, 2008), è un gesto che spesso accompagna un augurio o un discorso rivolto ai legionari, con il palmo della mano verticale e le dita aperte.
Il grande fregio storico che avvolge a spirale, come la pellicola di un film, la colonna Traiana, innalzata per celebrare la conquista della Dacia da parte di Traiano fra il 101 e il 106 d.C., e studiato da Filippo Coarelli in La colonna Traiana (Colombo, 1999), mostra diverse scene di incontro fra l’imperatore, i soldati e i barbari. Nel fregio 65, l’imperatore a cavallo è salutato da alcuni barbari con le braccia stese o piegate in segno di sottomissione. Nel fregio 103, Traiano riceve una delegazione nemica: un Dace leva il braccio verso l’imperatore in segno di supplica. Nel fregio 75, Traiano arriva a un forte romano in Dacia, e viene salutato da un gruppo di legionari e ufficiali romani; il saluto non è sempre uguale ma con il braccio più o meno piegato, mai teso.
Nella monetazione e nella scultura romana ci sono molte scene di arringa, acclamazione, arrivo e partenza, dove il braccio alzato può esprimere benedizione, saluto o potere, e il più delle volte non è ricambiato. Un famoso esempio è l’Augusto di Prima Porta, raffigurato come un generale vittorioso che si rivolge alla folla, il braccio leggermente piegato in un movimento nobile e controllato, il corpo per niente sull’attenti ma, al contrario, bilanciato da una torsione contrapposta delle gambe divaricate e flesse, secondo i canoni derivati dalla Grecia classica.
La celebre statua bronzea
nota come l’ Arringatore , dedicata al notabile etrusco Aulo
Metello alla fine del II secolo a.C. e oggi a Firenze, presenta lo
stesso gesto del braccio appena piegato con la mano alzata, nell’atto
di chi chiede solennemente l’attenzione del pubblico prima di
cominciare a parlare.
Secondo il libro di
Martin M. Winkler The Roman Salute. Cinema, History, Ideology (Ohio
state university press, 2009), l’archeologia, come pure tutta la
letteratura latina, non ci mostra una sola immagine chiara del gesto
specifico adottato dal fascismo. Winkler sostiene che il saluto
romano fu associato all’antica Roma retrospettivamente e in tempi
moderni. Un passaggio cruciale fu il dipinto di Jacques-Louis David
Il giuramento degli Orazi , realizzato nel 1784 e oggi al Louvre.
Manifesto del Neoclassicismo, l’opera trae spunto da una leggenda
romana, di cui parla Tito Livio, secondo cui, durante il regno di
Tullo Ostilio (672-640 a.C.) per decidere l’esito della guerra tra
Roma e Alba Longa, tre fratelli romani, gli Orazi, sfidarono a duello
tre fratelli di Alba, i Curiazi. Dei Curiazi non sopravvisse nessuno,
mentre uno degli Orazi riuscì a ritornare, decretando la vittoria
dei Romani. La scena rappresenta il padre degli Orazi nell’atto di
dare loro le spade, che innalza in un gesto di augurio.
Il gesto dei tre fratelli non è un saluto ma un giuramento di fedeltà a Roma, fatto in due casi con il braccio sinistro. L’atteggiamento dei corpi e i colori delle vesti simboleggiano i valori di libertà, uguaglianza e fraternità della Francia rivoluzionaria. Tuttavia, il dipinto può essere considerato un punto di svolta nel graduale processo che vide la reinvenzione del gesto, progressivamente percepito come un saluto più che un giuramento.
Un altro probabile
precedente fu il saluto a braccio alzato alla bandiera, o Pledge of
Allegiance , creato da Francis Bellamy nel 1892 e adottato nelle
scuole degli Stati Uniti fino agli anni Trenta, e poi copiato dal
fascismo. La controversa associazione, come ha messo in luce il
ricercatore statunitense Rex Curry, ha poi fatto sì che il gesto
fosse sostituito dalla mano sul cuore, per volere di Franklin Delano
Roosevelt.
Ma a riportare
davvero in vita i Romani per un pubblico di massa fu il cinema del
primo Novecento, che reinventò i gesti, oltre che i costumi, degli
antichi, prendendo spunto dal repertorio di convenzioni fissato dal
teatro preesistente. Il film Cabiria di Giovanni Pastrone (1914), il
più grande kolossal del cinema muto italiano, che vantava Gabriele
d’Annunzio come sceneggiatore e autore delle didascalie, consacra
il gesto come simbolo della romanità: difatti in chiave politica
viene usato per la prima volta dai legionari fiumani dello stesso
d’Annunzio nel 1919. In Scipione l’Africano di Carmine Gallone
(1937) il saluto ricorre ossessivamente a richiamare l’associazione
romanità-fascismo.
Il successivo cinema del
dopoguerra ha ormai interiorizzato questa visione di Roma, e la
popolarità dei grandi kolossal hollywoodiani di argomento religioso
conferisce ulteriore credibilità ai dettagli in essi contenuti.
Ben-Hur di William Wyler (1959) e Quo Vadis di Mervyn LeRoy (1951)
fanno esplicito riferimento a Roma come metafora del fascismo, e agli
Ebrei e ai Cristiani come simbolo della libertà degli Stati Uniti.
Il saluto romano di Peter Ustinov nei panni di Nerone scimmiotta
mostruosamente bene i grandi dittatori. Nei film più recenti, fino
alla televisione di Star Trek , il saluto romano non è più
esplicitamente associato al fascismo o al nazismo ma è comunque
usato per evocare regimi autoritari.
L’assenza di prove inconfutabili sull’esistenza del saluto romano nel mondo antico è l’esempio di come una narrazione potente sia in grado di produrre una storia irreale e di farla accettare come una verità storica dal grande pubblico, incapace o disinteressato a cogliere il paradosso. Mistificare un fatto inventato spacciandolo come realmente accaduto, o riempire il passato di contenuti attuali, d’altra parte, è un vecchio trucco narrativo, quello, sì, utilizzato fin dai tempi dei Romani.
Il Corriere della sera –
17 gennaio 2016
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