Trasformazione della violenza
di Rino Genovese
Di che cosa parliamo quando parliamo di
violenza? Quanti tipi ce ne sono? Si va dalle sue varie forme
delinquenziali a quella interpersonale, che si consuma tra le mura
domestiche, fino a quella politica e del terrorismo internazionale, dai
bombardamenti con i loro traccianti luminosi alla tortura perpetrata in
qualche oscuro carcere. Il campo semantico che essa ricopre è
sterminato; a complicare il quadro, c’è perfino una violenza non fisica
ma psicologica: cosicché la questione della sua definizione teorica –
che dovrebbe sempre sforzarsi di raggruppare i fenomeni – risulta
variegata, sfuggente.
Si può dire che la violenza – di
qualsiasi tipo e di qualsiasi entità, al netto di un’efferatezza sempre
possibile che la rende irrazionale – sia un mezzo nei confronti di un
fine (che, a sua volta, può essere un altro mezzo). In questo quadro
teorico piuttosto tradizionale la violenza appare come un mezzo entro un
rapporto mezzi/fini, caratteristico della razionalità strumentale.
Legittimo o illegittimo (nella terminologia sociologica), giusto o
ingiusto (secondo la filosofia morale), poco importa. Si tratta in ogni
caso di un’azione in vista di qualcosa, di un effetto che si
ricerca e che dovrebbe prodursi, non di un fine in sé. Un educatore
(quando ciò era ancora consentito) dà uno schiaffo a un ragazzo affinché
la disciplina sia mantenuta; un agente manganella un manifestante per
ristabilire l’ordine pubblico; un militare di sentinella fa fuoco contro
qualcuno che si avvicina per rispettare la consegna… Sono esempi dal
lato del potere. Da quello dell’anti-potere, tuttavia, le cose non
stanno in modo diverso; parliamo comunque della violenza come di un
mezzo: un dimostrante scazzotta il poliziotto che presidia un
determinato obiettivo per tentare di raggiungerlo; un rapinatore spara
per sfuggire a un posto di blocco; un indio lancia frecce avvelenate
contro l’invasore per difendere il territorio… È un modello teorico
collaudato: non esiste la violenza in sé, esistono soltanto mezzi
violenti.
Punto importante: l’idea della
razionalità strumentale e il paradigma teorico dell’azione fanno
tutt’uno. Ciò è evidente nello stesso Sorel: sia la forza (che sarebbe
quella giacobina e statale) sia la violenza proletaria spontanea, che ha
il suo fulcro nel mito dello “sciopero generale”, sono essenzialmente
azione – questa seconda con tutta la sua enfasi bergsoniana. Hannah
Arendt, a sua volta, definendo il potere come un coordinamento di
azioni, e la violenza come qualcosa che sopperisce al suo deficit, si
colloca all’interno dello stesso modello. Per lei il ricorso alla
violenza avviene quando scarseggiano altri mezzi per farsi valere,
quando non si ha o la si sta perdendo la capacità di gestire il
coordinamento di azioni. Il che accade regolarmente durante una crisi e,
dalla parte dell’anti-potere, quando ci si trova in una situazione di
debolezza relativa che chiede di essere compensata. La violenza rafforza
chi è più debole o rischia di diventarlo. Ma nel caso dello sterminio
si tratta invece del rafforzamento del più forte, di chi, già detenendo
il potere, intende far piazza pulita di elementi considerati nocivi.
Anche qui la violenza dispiegata non sfugge al paradigma teorico
dell’azione e della razionalità strumentale. L’eliminazione degli ebrei
su larga scala organizzata dai nazisti, o degli oppositori politici da
questi stessi e dalle dittature sudamericane, o ancora i massacri delle
più recenti “pulizie etniche”, rientrano nel quadro.
Una prospettiva differente è quella
di Girard che, con la sua teoria mimetica, apre a una critica religiosa
della violenza. La società umana, ogni società umana, si costituisce
attorno al sacrificio di un capro espiatorio: ma la vittima sacrificale
molto speciale chiamata Gesù Cristo interrompe la catena mimetica della
violenza – la cui essenza, in questo contesto, parrebbe più ontologica
che antropologica. È una teoria della violenza che cerca di rendere
conto della sua insopprimibile aliquota d’irrazionalità. Sembra però che
il modo girardiano d’impostare la questione non sia lontano da una
teoria etologica dell’aggressività secondo cui la violenza è connaturata
all’essere animale, quindi all’essere umano in quanto animale. Lo
scarto dal naturalismo etologico all’ontologia della teoria mimetica è
minimo, ed è dato soprattutto dall’inserimento della critica religiosa
cui accennavo. Poiché, però, la riduzione della violenza implicata dal
cristianesimo (si noti, da nessun’altra delle religioni del Libro se non
dal cristianesimo) potrebbe aver luogo unicamente a patto di una
generale conversione, persistendo la varietà delle culture, la violenza
bisogna tenersela. L’universalismo pacificatorio cui la teoria
girardiana tende non soltanto è chimerico – perché le fedi sono molte e
molte resteranno –, ma ha addirittura un tratto di protervia in quanto
conferisce al cristianesimo un carattere di superiorità sulle altre
religioni.
Arrivo allora al titolo di questo mio intervento: in che cosa consiste la trasformazione della violenza?
Si tratta di una sua trasformazione storica o di un mutamento nella
teoria? Di entrambe le cose, evidentemente. È un cambiamento che non
permette più di pensare la violenza in termini strumentali, cioè come azione-mezzo,
e neppure in termini naturalistici o ontologici come qualcosa di
connesso in modo originario all’essere umano. La violenza va vista
piuttosto come una contingenza dentro un contesto comunicativo.
Mi spiego. Una dose di pre-violenza è insita nella minaccia e nella
deterrenza, che sono chiaramente aspetti della comunicazione: “Se non ti
comporti in un certo modo, ne subirai le conseguenze…” Questa frase (il
messaggio di qualsiasi don Rodrigo al suo don Abbondio) è la forma
elementare della minaccia nucleare, dell’equilibrio del terrore, di una
“coesistenza pacifica” basata sulla deterrenza. Ai tempi del mondo
diviso in blocchi, che si presentavano l’uno come l’anti-potere
dell’altro, la potenza reciproca di Stati Uniti e Unione Sovietica era
misurata dall’eventuale capacità di far seguire alla minaccia i fatti.
Il piano comunicativo – quello della propaganda e dei mezzi di
deterrenza esibiti come in una parata minacciosa – restava distinto da
quello dell’azione bellica possibile. Del resto anche l’anti-potere
espresso dai movimenti di liberazione anticoloniali, dotati di una controviolenza
– così la definiva Fanon – rispetto a quella dei dominatori, si muoveva
nello stesso senso: “Se non ve ne andate dall’Algeria, ne subirete le
conseguenze…” Nel passaggio all’azione, il Fronte di liberazione
algerino faceva esplodere le sue bombe nei caffè frequentati dai
francesi. Alla minaccia seguivano i fatti. Ma l’azione violenta poteva
ancora essere distinta dalla minaccia preventiva.
La mia tesi è che la violenza stessa
rientri ormai pressoché senza residui nella comunicazione. Azione
violenta e minaccia tendono a saldarsi. Ciò significa che la violenza,
quella attuale (nel senso dell’azione) e quella meramente possibile (nel
senso della minaccia), possono essere entrambe ricomprese sotto il
concetto più generale della comunicazione (e nella stessa parola
“comunicazione” non è forse insita la parola “azione”?). In che senso si
può oggi vedere la violenza nei termini di una “normale” forma di
comunicazione, che si fa abituale come qualsiasi forma di vita? Quale il
presupposto per il passaggio – addirittura a livello planetario – dalla
minaccia come premessa al testo dispiegato, diciamo così, della
violenza?
Sono mutate le condizioni politiche
internazionali, o se si vuole geopolitiche. Non c’è più quel mondo
diviso in blocchi contrapposti che fu già lo sfondo storico di una
teoria che distingueva il potere dalla violenza in quanto effetto,
quest’ultima, di una sua mancanza. In una situazione del pianeta come
quella contemporanea, in cui nessuno detiene l’egemonia (per usare il
termine gramsciano, che indica l’unione di forza e consenso, cioè un soft power),
la minaccia diventa un fatto, e il fatto è immediatamente assorbito
nella dimensione comunicativa. Quando Israele o gli Stati Uniti operano
un omicidio mirato contro un esponente di Hamas o contro un jihadista
internazionale, non si preoccupano di rompere un equilibrio, e neppure
del vulnus alla legalità internazionale: lo fanno e basta. C’è
l’eliminazione di un nemico e c’è il messaggio inviato alla controparte –
ai palestinesi, ai gruppi terroristici – “non sperate di farla franca”;
c’è inoltre un segnale di rassicurazione verso il proprio campo. Ciò
che talvolta viene denunciato come “terrorismo di Stato” s’inscrive in
questa trasformazione della violenza (di cui Arendt non avrebbe potuto
rendere conto per la semplice ragione che la scena storica, dai suoi
tempi a oggi, è mutata). La violenza tende a diventare integralmente
comunicazione.
Non vanno diversamente le cose dal lato
dell’anti-potere. Quella che il terrorismo nostrano degli anni settanta
chiamava “propaganda armata” diviene la regola. Non ci sono avvertimenti
preliminari, e si viene attaccati per quello che si è più che per
quello che si fa. Il messaggio tuttavia è chiaro – “vi credete forti ma
siete deboli” – ed è indirizzato soprattutto ai propri simpatizzanti
attuali e potenziali, che ne sono ammirati e galvanizzati. I kamikaze
danno a questa violenza il sapore di una testimonianza, di un martirio,
che amplifica enormemente l’effetto comunicativo. Non si tratta, come ai
tempi della controviolenza teorizzata da Fanon, di scacciare il
dominatore straniero dalla propria terra, infliggendo perdite al nemico
ma cercando di salvare se stessi secondo una logica basata su un
rapporto mezzi/fini; si tratta di costruire sul piano mondiale le
condizioni di una riscossa religiosa e politica, all’interno della quale
si comunica prima di tutto con Dio, attribuendo a lui – comunicatore
universale, grazie proprio al suo silenzio – quella volontà di
rovesciamento di una situazione che è il portato di secoli di sconfitte e
frustrazioni, e, da ultimo, di un processo di decolonizzazione mal
riuscito che ha visto, lungo i decenni, il dominio di élites tecnoburocratiche e militari completamente staccate dai loro popoli.
Bisogna rifarsi, per comprendere questo
passaggio, a una teoria che vede nel ricevente e non nell’emittente il
centro motore di qualsiasi comunicazione. Se, come nel caso di una
rivelazione divina, ovviamente interpretata da un ricevente, il
messaggio è un appello alla “guerra santa”, quest’ultima sarà un comando
indiscutibile. La radice del fanatismo non è puramente mentale, non
dipende da un difetto di percezione della realtà; è l’effetto di una
determinata comunicazione con Dio moltiplicata da quella tra i fedeli. I
predicatori della violenza – gli imam radicali – fungono da mediatori:
ma, nell’esperienza di qualcuno che si fa saltare in aria con una
cintura esplosiva, si stabilisce un rapporto diretto con la divinità
vissuto come la risposta di un ricevente a un appello. Dal punto di
vista dell’emittente – posizione in cui, facendosi esplodere,
purtuttavia ci si colloca – il messaggio è dato dalla testimonianza
rivolta a coloro che sapranno coglierne il contenuto esemplare.
Comunque lo si consideri, dunque, il
martirio appare un fenomeno comunicativo: lo era ai tempi dei primi
cristiani e lo è nel caso del jihadista contemporaneo. È una
comunicazione con Dio e, insieme, l’autoinserimento in un contesto che è
quello dei credenti, o meglio dei co-credenti. Esporsi alla violenza
mortale, non fare nulla per sfuggirla, o produrla attivamente, sono
varianti misurabili, di volta in volta, sulla contingenza comunicativa
che viene a realizzarsi. Come lo snob nei confronti del gruppo di
appartenenza, solitamente borghese, così il martire rompe una routine:
ma questi – a differenza dello snob, che è un mondano e per lo più non
mette in gioco la vita – lo fa in direzione oltremondana, bruciando la
propria attesa messianica nella smania di testimonianza.
Per chi proviene dalle banlieues
francesi o belghe, cioè dall’interno di un sistema di esclusione,
trovare la morte alla maniera di un kamikaze, specialmente se in passato
non si è stati nulla più che dei piccoli criminali privi di
prospettive, può diventare una soluzione di vita. Questo è tutt’altro
che nichilismo: è spargere il sangue, compreso il proprio, per una
causa. Ma il momento comunicativo fine a se stesso, caratteristico di
questa violenza, la distingue dal contenuto di emancipazione che la
controviolenza teorizzata da Fanon intendeva esprimere con le sue
azioni. Seppure siano arabi, e magari proprio algerini, o appunto
discendenti di arabi e di algerini in un mondo cosiddetto
post-coloniale, presentandosi oggi come combattenti celesti anziché terrestri,
essi vivono condizioni molto diverse rispetto a quelle della lotta
anticolonialista degli anni cinquanta e sessanta del Novecento. Se la
speranza di emancipazione terrena si è eclissata, n’è apparsa tuttavia
un’altra, di riscossa identitaria e religiosa. In essa minaccia e
violenza dispiegata si saldano in un unico processo comunicativo. Così
anche la “propaganda armata” può cambiare volto: non più semplice
propaganda ma testimonianza in quanto martirio.
Del resto – era già chiaro in Fanon – se
l’utopia o la speranza di emancipazione sociale perdono terreno, ne
guadagna l’influenza del marabutto, oggi nelle vesti dell’imam radicale.
È un gioco a somma zero. L’intreccio virtuoso di politica e religione è
il caso più raro: piuttosto accade che, con la caduta della politica,
la religione stessa riguadagni terreno e si faccia politica. L’islam,
con il suo tradizionalismo, è particolarmente attrezzato per collocarsi
dentro questa de-differenziazione delle sfere che, nullificando
l’autonomia della politica e spingendo verso la teocrazia, altro non è
che un aspetto dell’ibridazione dei tempi storici e delle culture in cui
si caccia la modernità in generale. Gli islamismi radicali, al plurale,
sono un effetto della crisi di egemonia della cultura – starei per dire
della filosofia – occidentale, o una reazione alla sua presenza ancora
diffusa e pervasiva? Probabilmente l’una e l’altra cosa. La
controtendenza rispetto alla differenziazione moderna è visibile infatti
anche in Occidente. Ciò che da parte occidentale appare come
ibridazione, dall’altra è creolizzazione, ossia una risposta creolizzante in cui è implicita una ricerca identitaria. Nelle banlieues, come si può vedere nei ritmi del rap, si parla una lingua creola, né arabo né francese, che mutatis mutandis
è un fenomeno analogo a quello del miscuglio di tradizionalismo
oltranzista e uso della tecnologia moderna nelle zone dominate
dall’organizzazione detta Stato islamico. La comunicazione sociale – nel
senso più ampio, dalla conversazione con il vicino a Internet – è il
campo entro cui si agitano figure al tempo stesso sradicate,
radicalizzate o radicalizzabili, e agognanti un’identità tanto più
evanescente quanto più forte.
Sono gli stessi processi comunicativi,
specialmente se intensificati grazie ai nuovi media, a rinviare a delle
posizioni identitarie – anche se queste sarebbero più dei segnaposto
(come il nickname che si usa su Internet) che delle identità
culturali. La cultura rafforza ciò che sarebbe destinato a restare
debole, allo stesso modo in cui l’adesione a una prospettiva
messianico-religiosa riempie di senso una vita. È l’attribuzione di
significato a un messaggio, da parte di un ricevente, che al tempo
stesso gli dà senso mediante un’interpretazione, e un senso
all’interprete. Le basi della violenza si collocano qui, in questa lotta
per la vita che la comunicazione sociale implica. Quanto più vige il
regime dell’ibridazione, tanto più le differenti appartenenze culturali –
come accade agli immigrati o ai loro discendenti – possono creare
miscele e cortocircuiti esplosivi, smentendo così i teorici irenici del
multiculturalismo.
È caratteristico, d’altronde, che le due
più importanti teorie della comunicazione della seconda metà del
Novecento – quelle di Habermas e di Luhmann – abbiano espunto entrambe
da sé il problema della violenza. Si potrebbe quasi vederla come una
prova e contrario del discorso che sto cercando di fare: finché
esisteva, nel mondo diviso in blocchi, una chiara distinzione tra la
minaccia sul piano della comunicazione e il passaggio all’azione
violenta, la questione teorica di una violenza in se stessa comunicativa
non si poneva. Sia Habermas sia Luhmann sono in sintonia con Arendt su
questo punto. Nel primo l’agire comunicativo (espressione in se
stessa anfibia, che iscrive la comunicazione nel dominio dell’azione)
assume un valore normativo: comunicando seconde regole e norme, ci si
porrebbe al di fuori della violenza e del potere. È una teoria
controfattuale: la si direbbe fondata sull’ideale di un’assemblea di
saggi che discutono e prendono decisioni soppesando con cura l’argomento
migliore. Più strano è che l’espunzione della violenza si riscontri
anche nella concezione di Luhmann, descrittiva, “realistica”, priva di
contenuto etico. Nella vasta opera di questo autore, presentata come una
teoria generale della società, non c’è una parola sulla guerra; la
violenza vi compare solo come qualcosa che fuoriesce dalla comunicazione
propriamente detta (un “meccanismo simbiotico”), che non ha nulla a che
fare con la sfera del potere considerato, insieme con altri, un mezzo di comunicazione simbolicamente generalizzato.
Se le teorie di Habermas e Luhmann
riflettono ambedue l’epoca storica in cui sono state concepite (quella
del primo anche l’illusione, successiva al 1989, di un mondo infine
governato dalla ragione attraverso uno sviluppo della diplomazia e il
ruolo accresciuto dell’Onu), solo la seconda si presta però –
opportunamente aggiornata – a leggere il mondo contemporaneo nei termini
di una comunicazione integrale entro cui sia ricompresa la violenza.
L’idea tipicamente sociologica di un’evoluzione, mediante il processo di
civilizzazione e la progressiva differenziazione della società, da un
mondo antico o arcaico, in cui tutto era fuso in una sorta di originaria
indistinzione (si pensi alla funzione centrale del rito, terapeutica,
politica, religiosa…), verso forme di vita che prendono sempre più le
distanze dalla violenza, ha una corrispondenza molto limitata nella
realtà. La violenza appare tanto più presente quanto più la modernità
viene mescolandosi con il suo “altro” in una maniera che, in fin dei
conti, non è né puramente moderna né puramente arcaico-tradizionale. È
nella condizione spuria che essa appare come un mezzo di comunicazione
simbolicamente generalizzato, dotato di un suo codice basato su uno
schematismo binario – colpisco / non colpisco – entro cui la
minaccia stessa è riassorbita nella forma di un’incertezza prodotta ad
arte e incessantemente riproposta. Il terrorismo – sia quello di
qualsiasi anti-potere, sia quello di Stato con gli omicidi mirati e
l’uso dei droni – ne costituisce l’esempio lampante. Il gioco consiste
nel tenere l’avversario continuamente sotto tiro, colpendolo “a rate”
per diffondere il panico tra le sue file nell’attesa dell’attacco
successivo. La guerra così, seppure a bassa intensità, tende a diventare
infinita.
D’altronde nel caso di una violenza più
circoscritta, come quella perpetrata tra le mura domestiche ai danni
delle donne, il pestaggio regolare a cui il partner femminile è
sottoposto appare la minaccia di qualcosa di perfino più grave che
potrebbe accadere, e infatti talvolta accade. Su questo piano – a
livello di ciò che può essere descritta come una “lotta dei sessi”, nel
senso di un’emancipazione della donna cui si oppone il tradizionale
potere maschile – le radici della comunicazione violenta, che può
arrivare fino a distruggere la comunicazione stessa con l’omicidio,
affondano nella duplicità arcaico-tradizionale e moderna in cui è presa
la vita affettiva, come del resto le forme di vita in generale. La
collisione tra princìpi differenti, abitare in maniera disarmonica il
passato e il presente, sono tra le cause più sicure di una comunicazione
violenta a livello interpersonale.
La mescolanza dei tempi storici e delle
culture, con i conseguenti progressi e regressi rispetto a orientamenti
valutativi che intendano stabilire che cosa sia “meglio” e che cosa
“peggio”, induce tuttavia non ad abbandonare le aspirazioni
illuministiche all’emancipazione in ogni sua forma – e quindi anche
verso una riduzione della violenza –, quanto a ricollocarle in un quadro
teorico mutato. Se si prende atto che l’ibridazione è il retroterra
della comunicazione contemporanea, si può comprendere perché il modello
del conflitto sociale, che nel Novecento era apparso il motore di ogni
progresso civile, appaia invecchiato. La stessa prospettiva giacobina
dell’uso della forza – che, perfino quando messa da parte, restava sullo
sfondo come un’opzione disponibile rispetto alla via gradualista e
riformista — risulta oggi semplicemente cancellata in una violenza
comunicativa non più distinta dall’azione. Una certa visione del
progresso, che scontava dentro di sé la violenza come “levatrice della
storia’, ha fatto il suo tempo. Il conflitto sociale andrà quindi
ripensato come una modalità di comunicazione che, tramite l’acquisizione
di potere in quanto capacità d’influenza, riesca a spostare nella
posizione dell’emittente soggetti che, diversamente, sarebbero destinati
a restare in quella di riceventi più o meno passivi. Ciò può avvenire
sia all’interno di un contesto dato sia modificandolo. Non sta nella
forsennata mediatizzazione, nella sua spettacolarizzazione e diffusione
anche attraverso i nuovi media, il cuore del problema della violenza; è
proprio in quanto mezzo di comunicazione in se stesso che essa designa
una contingenza comunicativa, né ontologica né connaturata all’essere
umano, che rinvia ad alternative possibili.
Da http://www.leparoleelecose.it
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