Un cittadino su sei rinuncia alle terapie. Colpa dei reparti chiusi, dei medici che mancano e dei ticket cresciuti del 20 per cento in pochi anni. Tutto questo per pagare superstipendi a manager (di nomina politica) inefficienti e spreconi, lucrare sugli appalti e le forniture, mantenere con l'avallo sindacale logiche corporative, fornire servizi gratuiti a chi non ne avrebbe diritto (evasori fiscali, falsi invalidi, ecc). Lo specchio insomma di un paese marcio tanto in alto (politici e imprenditori) quanto in basso.
Roberto Petrini
Costi molto alti gli
italiani non si curano più
Gli italiani, che secondo un comune clichè sarebbero ipocondriaci e ansiosi, stanno cambiando atteggiamento e hanno cominciato a trascurare la propria salute. Colpa dei costi troppo alti dei ticket, dell’eccessiva distanza dei presidi sanitari e delle liste d’attesa. Esasperati dalla crisi e con sempre meno soldi in tasca rinunciano al dentista. Tra le fasce più povere della popolazione fino al 15 per cento degli italiani si priva delle cure.
A lanciare l’allarme non è un semplice centro di studi sociologici e di monitoraggio delle tendenze degli italiani, ma l’Ufficio parlamentare di bilancio, il ferreo presidio di ricerca che ha il compito di fare da cane da guardia ai conti pubblici sulla scorta delle regole europee. I dati riguardano il 2013, prima dell’esecutivo Renzi, e risentono soprattutto delle politiche di austerità messe in atto da Monti tra il 2011 e il 2012, ma suonano comunque come un monito rispetto ai potenziali effetti dei tagli al Fondo sanitario nazionale praticati con la nuova legge di Stabilità 2016.
Dalle statistiche fornite dall’Upb, e firmate Eurostat, si scopre che il 7,1 per cento degli italiani rinuncia a farsi visitare perché – queste le motivazioni addotte – il costo della prestazione è troppo alto, la lista d’attesa è troppo lunga oppure l’ospedale è troppo distante. Con il diminuire del reddito il disagio cresce: la rinuncia alla cura sale al 14,6 per cento nel caso in cui gli interpellati appartengano al 20 per cento più po-vero della popolazione italiana.
Non è sempre stato così. Prima della Grande crisi del 2007-2009 e della Grande austerità europea del 2011-2012, gli italiani che facevano a meno di curarsi erano in numero assai inferiore: nel 2004, ad esempio, solo il 3,6 per cento rinunciava per eccesso di costi e si arrivava al 5,2 per cento considerando anche gli altri elementi di disagio, come la distanza o la lista d’attesa. A preoccupare è anche il dato delle cure dentistiche: il 18,6 per cento, circa un quinto dei più poveri, ha dovuto scartare l’idea di farsi curare i denti.
Le spiegazioni che gli italiani danno del proprio comportamento sono realistiche? Purtroppo sì, e gli economisti dell’Upb confermano la correlazione tra tagli alla sanità e aumento dei tassi di trascuratezza nei confronti della salute. Già in termini generali la spesa corrente per la sanità non è alta come comunemente si crede: siamo a due terzi di quella tedesca, a tre quarti di quella francese e addirittura il 60 per cento di quella Usa.
Il rigore degli ultimi
anni è stato pesante: la spesa sanitaria corrente, che tra il 2003 e
il 2006 cresceva in media del 5,8 per cento, tra il 2007 e il 2010 è
salita solo del 2,8 e addirittura nel periodo 2011-2014 è cresciuta
a tasso “zero” (dati della Ragioneria generale dello Stato).
A fare le spese dei tagli e della caccia alle risorse ci sono proprio le voci che sembrano stare a monte del disagio denunciato dai cittadini. Ad esempio il numero dei posti letto negli ospedali è diminuito dal 4 per mille nel 2005 al 3,4 nel 2012 contro una media europea di 5,3 per mille. La riduzione delle degenze avrebbe dovuto essere compensata dai day hospital, ma – come segnala il rapporto Upb – è sempre di più la gente che si affida al pronto soccorso per superare file e risparmiare.
Contribuisce a limitare
l’offerta anche la riduzione del personale: è stata dell’1,8 per
cento tra il 2007 e il 2013 e di un ulteriore 0,6 nei primi mesi del
2014. Vale la pena citare le parole dell’Upb che sintetizzano il
senso dello studio diffuso nei giorni scorsi: «Emergono alcuni segni
di limitazione dell’accesso fisico (razionamento) ed economico
(compartecipazioni) e tracce di una tensione nell’organizzazione
dei servizi, legata alla limitatezza delle risorse finanziarie e
umane, che potrebbero rivelarsi insostenibili se prolungate nel
tempo». Linguaggio tecnico, ma inequivocabile.
Gli ampi passaggi dello studio degli uffici del Parlamento italiano, che riguardano i ticket, confermano la situazione di allarme. L’Upb spiega che per molte prestazioni l’aumento delle compartecipazioni ha «reso conveniente optare per il settore privato ». Del resto il rincaro c’è stato ed è evidente: i ticket sono aumentati del 33 per cento tra il 2010 e il 2014. Se si guarda alla sola spesa per ticket farmaceutici l’aumento è stato del 50 per cento, mentre sulla specialista ambulatoriale, a seguito del superticket da 10 euro per ricetta, è salito al 19 per cento nel biennio 2001-2012.
Tagliare ulteriormente e in modo indiscriminato può portare conseguenze disastrose, se non si interviene sull’obiettivo principale: gli sprechi che, come segnala opportunamente l’Ocse, non a caso citata nel rapporto Upb. Basta guardare alla spesa per beni e servizi, prodotti farmaceutici compresi, che è l’unica a continuare a correre. La spending review dovrà servire anche per reindirizzare verso i servizi quello che oggi ingrassa spesso rendita e malcostume.
La Repubblica – 19
gennaio 2016
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