Guido
Araldo, ricercatore del folklore e studioso delle tradizioni
popolari, nel suo ultimo libro, Mesi Miti Mysteria, tratta delle
radici profonde della nostra cultura. Una storia “altra” delle
credenze più popolari che rivela la continuità sotterranea di un
sapere primordiale attraverso il succedersi di epoche e culture.
Guido Araldo
Sincretismo: quando su
novella pianta gemmò un fiore antico
La “globalizzazione”
antica, quella dell’impero romano, andò in frantumi dopo un lungo
periodo d’agonia, al quale non fu estraneo il cristianesimo che,
nonostante il suo integralismo originario, dovette “venire a patti”
con le credenze tradizionali del mondo contadino (da pagus: villaggio
e quindi paganesimo). Credenze legate soprattutto alle pratiche
agresti e alle stagioni dell’anno agricolo. Qualcosa di molto più
profondo nell’animo umano delle favole sugli Dei dell’Olimpo.
Il primo cristianesimo si
era sviluppato in ambito urbano, palesando un totale disprezzo verso
le credenze contadine intrise di magia e consuetudini vecchie di
millenni. In seguito, però, la grave decadenza delle città fece
sentire i suoi riverberi anche sul nuovo culto vincente; e il mondo
sempre più ruralizzato dei secoli VI, VII e VIII si rivelò meno
propenso a lasciarsi plasmare dalla nuova religione trionfante, di
quanto lo furono le grandi città dell’impero nei secoli
precedenti.
Le credenze e usanze
contadine erano indubbiamente molto più antiche delle divinità
olimpiche, peraltro rimodellate dall’ellenismo e rimaste remote al
mondo agreste. Accadde così che, mentre divinità come Giove o
Cerere abbandonavano per sempre l’orizzonte culturale degli umani,
non altrettanto successe per il frammentato universo di pratiche e
credenze popolari legate alle divinità delle semine, dei raccolti,
delle sorgenti, delle stagioni. Inoltre, conversioni in massa
d’interi popoli germanici, come nel caso del re franco Clodoveo, si
riducevano a gesti simbolici e superficiali: atti politici che non
determinavano profondi e immediati mutamenti culturali.
Nonostante l’innovativa
teocrazia cristiana provasse un autentico disgusto, se non orrore,
nei confronti dei culti pagani delle campagne, si assistette a una
progressiva stratificazione tra nuova religione e antiche tradizioni
archetipali.
Nei secoli IV e V la
società risultò stravolta moralmente e psicologicamente: tutti i
momenti più importanti della vita umana erano stati occupati,
impregnandoli della sacralità e dei simboli ultraterreni che
caratterizzavano il nuovo messaggio della “buona novella”. In
questo processo, veramente rivoluzionario, una casta sacerdotale
inglobò l’anno terreno in un tempo mistico e i vecchi calendari,
con le loro calende e idi, furono sostituiti dalle settimane, dalle
domeniche (i giorni del Signore) con festività innovative come la
Pasqua, l’Ascensione, la Pentecoste collegate alla luna piena di
marzo.
In seguito, però,
nonostante questi radicali mutamenti, le autorità civili ed
ecclesiastiche dovettero accettare il substrato culturale atavico,
contadino. In molti casi fu necessario plasmare i santi cristiani su
antiche divinità, fino ad acquisirne le caratteristiche; e fu
persino opportuno ricorrere agli stessi miti antichi, per quanto
modificati. Accadde che i miracoli evangelici, così sobri e
discreti, venissero resi mirabolanti da schiere di martiri sempre più
numerosi, dalle storie più inverosimili. Lo stesso culto delle
reliquie, osteggiato inizialmente dalla “Chiesa dotta”, dilagò
inarrestabile, sfumando addirittura nel feticismo e rendendo sempre
più labile il confine tra religione e magia.
Quanti luoghi sacri della
tarda romanità e del primo medioevo corrispondono a templi di
divinità agresti, se non olimpiche, cristianizzate in fretta e
furia? Quanti santi popolarissimi sono personaggi mitici recuperati
alla fede cristiana con formule compromissorie?
Il tentativo di questo
libro, forse velleitario, è di raccattare briciole di un’eredità
arcana, nascosta, ancestrale: perle della nostra più profonda “anima
europea”. Un’identità che potrebbe rivelarsi preziosa
nell’imminente civiltà planetaria. Un’identità atavica
coinvolgente anche la Grande Madre Russia e, soprattutto, le terre
del “Nuovo Mondo”, modellate sull’eredità del “Vecchio
Mondo”. Ci sono radici profonde in ogni individuo e anche nei
popoli che rimandano ad archetipi collettivi.
Sembra quasi che in
Europa sussista un atavico “genius loci” che, diversamente da
altri luoghi del bacino del Mediterraneo, risparmiò le sue contrade
da deliri in grado d’estirparne l’identità più profonda,
relegandole in un limbo della Storia senza passato e senza futuro.
Un “genius loci”
insito nei nostri geni, che ci protegge? Un inconscio collettivo che
può sembrare sfuggente, remoto, quasi un riflesso in un gioco di
specchi; ma che affiora nell’etimologia delle parole, in miti e
leggende che si rinnovano, si rimodellano e quando sembrano perduti,
ricompaiono in nuove forme dalla sostanza immutabile. Un “genius
loci” difficile da estirpare. Basta volgere lo sguardo verso il
cielo stellato e ritrovare lassù, tra gli astri, magnifici miti
ellenici, se non addirittura sumeri, caldei, minoici, micenei. La
stessa misurazione del tempo rientra in questo “gioco di specchi”
che sembra eterno e che si rinnova inalterato di stagione in
stagione; con i suoi mesi, le sue feste, le sue leggende, i suoi
eroi, i suoi santi e i loro segreti.
Oggi noi abbiamo perso il
“tempo mistico liturgico” che per secoli e millenni ha segnato il
ritmo della civiltà contadina, in un armonioso divenire ciclico
annuale. Un ciclo che inglobava le stagioni, dove i santi acquisivano
il ruolo di “marcatori del tempo” all’interno di un’immensa
ruota che correva verso il Giudizio Universale; nella prospettiva
della salvezza finale dell’umanità e della sua redenzione.
Quest’armonia temporale
millenaria si è spezzata negli ingranaggi della nuova dimensione
culturale generata dalla società industriale e post industriale. Non
resta che raccogliere le tracce di tanto passato, per quanto
possibile; allo scopo di ricomporre in un poetico mosaico un’eredità
sempre più flebile e remota, senza la quale il nostro spirito
boccheggia come pesce fuori dall’acqua.
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