09 gennaio 2016

SINCRETISMI. Passato e presente



Guido Araldo, ricercatore del folklore e studioso delle tradizioni popolari, nel suo ultimo libro, Mesi Miti Mysteria, tratta delle radici profonde della nostra cultura. Una storia “altra” delle credenze più popolari che rivela la continuità sotterranea di un sapere primordiale attraverso il succedersi di epoche e culture.

Guido Araldo

Sincretismo: quando su novella pianta gemmò un fiore antico



La “globalizzazione” antica, quella dell’impero romano, andò in frantumi dopo un lungo periodo d’agonia, al quale non fu estraneo il cristianesimo che, nonostante il suo integralismo originario, dovette “venire a patti” con le credenze tradizionali del mondo contadino (da pagus: villaggio e quindi paganesimo). Credenze legate soprattutto alle pratiche agresti e alle stagioni dell’anno agricolo. Qualcosa di molto più profondo nell’animo umano delle favole sugli Dei dell’Olimpo.

Il primo cristianesimo si era sviluppato in ambito urbano, palesando un totale disprezzo verso le credenze contadine intrise di magia e consuetudini vecchie di millenni. In seguito, però, la grave decadenza delle città fece sentire i suoi riverberi anche sul nuovo culto vincente; e il mondo sempre più ruralizzato dei secoli VI, VII e VIII si rivelò meno propenso a lasciarsi plasmare dalla nuova religione trionfante, di quanto lo furono le grandi città dell’impero nei secoli precedenti.

Le credenze e usanze contadine erano indubbiamente molto più antiche delle divinità olimpiche, peraltro rimodellate dall’ellenismo e rimaste remote al mondo agreste. Accadde così che, mentre divinità come Giove o Cerere abbandonavano per sempre l’orizzonte culturale degli umani, non altrettanto successe per il frammentato universo di pratiche e credenze popolari legate alle divinità delle semine, dei raccolti, delle sorgenti, delle stagioni. Inoltre, conversioni in massa d’interi popoli germanici, come nel caso del re franco Clodoveo, si riducevano a gesti simbolici e superficiali: atti politici che non determinavano profondi e immediati mutamenti culturali.

Nonostante l’innovativa teocrazia cristiana provasse un autentico disgusto, se non orrore, nei confronti dei culti pagani delle campagne, si assistette a una progressiva stratificazione tra nuova religione e antiche tradizioni archetipali.

Nei secoli IV e V la società risultò stravolta moralmente e psicologicamente: tutti i momenti più importanti della vita umana erano stati occupati, impregnandoli della sacralità e dei simboli ultraterreni che caratterizzavano il nuovo messaggio della “buona novella”. In questo processo, veramente rivoluzionario, una casta sacerdotale inglobò l’anno terreno in un tempo mistico e i vecchi calendari, con le loro calende e idi, furono sostituiti dalle settimane, dalle domeniche (i giorni del Signore) con festività innovative come la Pasqua, l’Ascensione, la Pentecoste collegate alla luna piena di marzo.

In seguito, però, nonostante questi radicali mutamenti, le autorità civili ed ecclesiastiche dovettero accettare il substrato culturale atavico, contadino. In molti casi fu necessario plasmare i santi cristiani su antiche divinità, fino ad acquisirne le caratteristiche; e fu persino opportuno ricorrere agli stessi miti antichi, per quanto modificati. Accadde che i miracoli evangelici, così sobri e discreti, venissero resi mirabolanti da schiere di martiri sempre più numerosi, dalle storie più inverosimili. Lo stesso culto delle reliquie, osteggiato inizialmente dalla “Chiesa dotta”, dilagò inarrestabile, sfumando addirittura nel feticismo e rendendo sempre più labile il confine tra religione e magia.

Quanti luoghi sacri della tarda romanità e del primo medioevo corrispondono a templi di divinità agresti, se non olimpiche, cristianizzate in fretta e furia? Quanti santi popolarissimi sono personaggi mitici recuperati alla fede cristiana con formule compromissorie?

Il tentativo di questo libro, forse velleitario, è di raccattare briciole di un’eredità arcana, nascosta, ancestrale: perle della nostra più profonda “anima europea”. Un’identità che potrebbe rivelarsi preziosa nell’imminente civiltà planetaria. Un’identità atavica coinvolgente anche la Grande Madre Russia e, soprattutto, le terre del “Nuovo Mondo”, modellate sull’eredità del “Vecchio Mondo”. Ci sono radici profonde in ogni individuo e anche nei popoli che rimandano ad archetipi collettivi.

Sembra quasi che in Europa sussista un atavico “genius loci” che, diversamente da altri luoghi del bacino del Mediterraneo, risparmiò le sue contrade da deliri in grado d’estirparne l’identità più profonda, relegandole in un limbo della Storia senza passato e senza futuro.

Un “genius loci” insito nei nostri geni, che ci protegge? Un inconscio collettivo che può sembrare sfuggente, remoto, quasi un riflesso in un gioco di specchi; ma che affiora nell’etimologia delle parole, in miti e leggende che si rinnovano, si rimodellano e quando sembrano perduti, ricompaiono in nuove forme dalla sostanza immutabile. Un “genius loci” difficile da estirpare. Basta volgere lo sguardo verso il cielo stellato e ritrovare lassù, tra gli astri, magnifici miti ellenici, se non addirittura sumeri, caldei, minoici, micenei. La stessa misurazione del tempo rientra in questo “gioco di specchi” che sembra eterno e che si rinnova inalterato di stagione in stagione; con i suoi mesi, le sue feste, le sue leggende, i suoi eroi, i suoi santi e i loro segreti.
Oggi noi abbiamo perso il “tempo mistico liturgico” che per secoli e millenni ha segnato il ritmo della civiltà contadina, in un armonioso divenire ciclico annuale. Un ciclo che inglobava le stagioni, dove i santi acquisivano il ruolo di “marcatori del tempo” all’interno di un’immensa ruota che correva verso il Giudizio Universale; nella prospettiva della salvezza finale dell’umanità e della sua redenzione.


Quest’armonia temporale millenaria si è spezzata negli ingranaggi della nuova dimensione culturale generata dalla società industriale e post industriale. Non resta che raccogliere le tracce di tanto passato, per quanto possibile; allo scopo di ricomporre in un poetico mosaico un’eredità sempre più flebile e remota, senza la quale il nostro spirito boccheggia come pesce fuori dall’acqua.
 

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