GIORGIO CAPRONI e PIER PAOLO PASOLINI a ROMA
di Marco Onofrio
Giorgio Caproni e Pier Paolo Pasolini sono stati buoni amici. È un’amicizia che parte anzitutto dalla lettura (ebbene sì, una volta i poeti usavano leggersi, prima di parlare o sparlare l’uno dell’altro: non come oggi). Caproni non conosce Pasolini e si ritrova tra le mani, durante la guerra, le sue Poesie a Casarsa:
«L’anno era il 1942: l’anno più chiuso a
ogni nostra speranza; e io non so ridire l’emozione, la commozione –
mentre il mio zaino era pieno di bombe e di buio – che mi colse al suono
di quelle limpide sillabe. Voltai – ma non subito, per timore d’un
disinganno – la pagina. Mi batteva il cuore: più d’una fucilata
m’avrebbe ucciso, quella notte all’addiaccio sotto una luna gelida che
pur bastava a illuminarmi la furtiva lettura, una delusione. Ma non ci
fu nessuna delusione. La seconda pagina confermava, avvalorava la prima.
E così la terza, così la quarta, così le rimanenti. Giacché era la voce
d’un poeta quella che, per un miracolo, mi aveva raggiunto in così nera
circostanza. Era la voce – viva – della vita».
Poi, quando lo conosce di persona, a
Roma, Caproni riversa su Pasolini la generosità con cui, nel ’38, lo
aveva accolto Libero Bigiaretti: come quest’ultimo lo aveva introdotto
nell’«uccelleria» dell’ambiente letterario romano, così Caproni si fa
mentore del giovane e timidissimo poeta, appena inurbato dal Friuli.
«Eravamo già in corrispondenza fin da
quando abitava ancora a Casarsa. Povero Pier Paolo, insegnava anche lui,
era allampanato e poverissimo. Arrivava con un biglietto del tram in
mano, guardava che numero aveva, sperava che gli avrebbe portato
fortuna… Abbiamo fatto insieme tante passeggiate, parlavamo anche di
poeti, ma senza dir male degli altri (…). Camminavamo in silenzio,
magari per delle ore. (…) Facevamo lunghissime passeggiate da Ponte
Mammolo a Viale Quattro Venti senza dire una parola. La sua miseria era
spaventosa ed io avevo intuito la grandissima intelligenza di quest’uomo
timidissimo. Gli presentai Attilio Bertolucci che gli fece conoscere
Penna e Moravia e di lì prese il via».
E ancora:
«Mi telefonava, chiedeva un lavoro,
andavo a trovarlo. Viveva con la madre Susanna dalle parti di Rebibbia,
una casa né urbana né rurale, un piano terra di borgata con l’unico
vantaggio di un po’ di sole. Lì la fame, anni durissimi. Chiacchierando a
piedi attraverso Pietralata, la via Tiburtina e il Verano si arrivava a
piazza di Spagna per il caffè. A Roma fui il primo a conoscerlo. Più
tardi qualche grande estimatore: Gadda, Bertolucci, Moravia, Bassani,
poi Penna, Volponi. Ricordo le cene romane e quelle primavere odorose di
pini, fuori porta, e lui timido e impacciato, cerimonioso, che si
tirava sempre indietro. Poi nel ’54 la prima casa decente, in via
Fonteiana, a Roma, e poi a via Carini nel palazzo di Attilio Bertolucci.
Si vedeva il verde, lotti vacanti, colline, cantieri, sterri, mentre a
Rebibbia viveva tra le ferraglie. (…) La disciplina dello scrivere Pier
Paolo l’ha avuta precoce, una forza incredibile di lavoro, insieme a una
salute da contadino. Tutta la sua fortuna, quel che ha pubblicato dopo,
seguiva il lavoro di quegli anni».
Pasolini
ricambia, appena può, la benevolenza con cui Caproni lo ha accolto a
Roma. Un suo articolo del 1952, uscito su «Paragone» e poi raccolto in
Passione e ideologia, contribuisce a far uscire la poesia di Caproni dal
mormorio dei consensi “sottotraccia”. La vicinanza (Caproni abita in
viale Quattro Venti) favorisce le occasioni di incontro: per un certo
periodo si vedono quasi tutti i giorni. Pasolini va a vivere nello
stesso palazzo dove abita Gadda. Anche Bertolucci vive a Monteverde, in
via Carini. A distanza di pochi isolati abitano dunque Caproni, Gadda,
Bertolucci e Pasolini. Non solo la vicinanza agevola le frequentazioni
(alle quali Gadda si abbandona a stento, tra mille riserve mascherate in
forma cerimoniosa), ma anche l’ambiente letterario, più spazioso e
arioso di com’è oggi, giacché fondato su rapporti di colleganza e
rispetto tra scrittori e artisti anche molto diversi fra loro, per cui
«ci si riconosceva a distanza di chilometri quando ci si vedeva». Scrive
Sandra Petrignani in Addio a Roma (2012): «Nei primi anni Cinquanta
c’erano tutti, a Roma, e stringevano fra loro amicizie in alcuni casi
affettuosissime, e a un certo punto Caproni, Bertolucci e Pasolini si
trovarono ad abitare nello stesso quartiere, Monteverde, e dal ’59 al
’63 Pier Paolo prese addirittura casa in via Carini al 45, stesso
palazzo di Attilio, e si affezionava ai suoi giovani figli, il piccolo
Giuseppe e il più grande Bernardo che avrebbe mosso con lui i primi
passi nel cinema, sul set di “Accattone”».
Pasolini si fa strada rapidamente,
azzecca le mosse giuste, e insomma gioca bene le sue carte per la
conquista del “centro”. Con Caproni non maschera le sue ambizioni:
«Quando abitavo in Viale Quattro Venti
non voleva mai che imbucassi le lettere nella cassetta rionale. “No, tu
devi imbucare in centro”, mi diceva, “tu hai la mania della
marginalità”. C’era già in lui l’idea di diventare un protagonista. Una
volta eravamo in Piazza di Spagna, stanchissimi perché si arrivava da
Ponte Mammolo e una Mercedes, passandogli accanto, lo urtò: “Giorgio” mi
disse, “ti giuro che diverrò un potente”».
L’abbrivio scandalistico che a un certo
punto fa decollare la vita Pasolini, mettendola sotto i riflettori e –
quasi sempre a suo discapito – sotto la lente d’ingrandimento
dell’opinione pubblica, finisce inesorabilmente per allontanarli.
Pasolini è afferrato da un vortice di impegni, è ormai uno scrittore
noto, che appunto fa notizia. Caproni è a sua volta riconosciuto (vince
due volte il “Viareggio” e pubblica con Garzanti), ma resta per sua
natura schivo e solitario: viaggiano su binari differenti e dunque hanno
meno occasioni di frequentarsi. In una
lettera a Betocchi del 5 agosto 1957, Caproni scrive: «Io di Pasolini,
di quel Pasolini che non mi piace, ammiro il coraggio e quasi lo
invidio. Tenta strade nuove, e dunque è giovane, beato lui. Anche se mi
fa incazzare». Pasolini, tuttavia, lo vuole nei suoi film. Il 14 gennaio
1965 Caproni viene operato di ulcera gastrica, e il ricovero gli
impedisce di recitare nel “Vangelo secondo Matteo” (la parte di Caproni
passa ad Alfonso Gatto). Dieci anni dopo Pasolini lo chiamerà
urgentemente a Roma – mandandolo a prendere con una macchina in piena
estate, durante le vacanze tra i monti della Val Trebbia, in Liguria,
senza spiegargli il motivo – per doppiare la voce del vescovo in “Salò o
le 120 giornate di Sodoma”: sarà il loro ultimo incontro, prima della
tragica morte di Pasolini.
L’amicizia, ombratasi un po’ negli anni ’70, ha avuto tempo e modo di lasciare tracce nelle rispettive opere. Eccole.
Pasolini su Caproni (“A Caproni”, 1958-59):
«Anima armoniosa, perché muta e, perché scura, tersa:
se c’è qualcuno come te, la vita non è persa».
se c’è qualcuno come te, la vita non è persa».
Caproni su Pasolini (“Pasolini”):
«Quanto celeste, quanto
bianco, quanto
verdeazzurro vedo
nel tuo nome uno e trino».
bianco, quanto
verdeazzurro vedo
nel tuo nome uno e trino».
Caproni su Pasolini post mortem (“Dopo aver rifiutato un pubblico commento sulla morte di Pier Paolo Pasolini”):
«Caro Pier Paolo.
Il bene che ci volevamo
– lo sai – era puro.
E puro è il mio dolore.
Non voglio pubblicizzarlo.
Non voglio, per farmi bello,
fregiarmi della tua morte
come d’un fiore all’occhiello».
Il bene che ci volevamo
– lo sai – era puro.
E puro è il mio dolore.
Non voglio pubblicizzarlo.
Non voglio, per farmi bello,
fregiarmi della tua morte
come d’un fiore all’occhiello».
Marco Onofrio
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