La Padova University Press ha da poco pubblicato, in edizione anastatica con un’ introduzione di Emanuele Zinato, la tesi di laurea di Andrea Zanzotto, L’arte di Grazia Deledda. La tesi è stata discussa il 30 ottobre 1942 – in pieno conflitto mondiale. Il relatore, Natale Busetto, era un docente dagli interessi storico-filologici molto tradizionali. Zanzotto invece critica duramente i crociani, coinvolge precocemente Freud, compara il caso italiano con modelli europei, si appassiona a temi che diverranno a lui cari, come perifericità e infanzia. Questa è l’introduzione di Emanuele Zinato
Tra periferie e modernità: il laureando Andrea Zanzotto
di Emanuele Zinato
I. Nei suoi anni universitari a Padova,
alla fine dei quali nel 1942 redigerà questa sorprendente tesi di
laurea, Andrea Zanzotto scopre Rimbaud, legge per la prima volta
Hölderlin, lavora come supplente tra Valdobbiadene e Treviso e scrive
alcune poesie “a macchina su minuscoli fogli di carta trasparente”. La
bufera è nell’aria: tra l’entrata in guerra dell’Italia e il blindarsi
della Fortezza Europa sotto gli stendardi del Reich.
Dell’attività di poeta, sempre reattiva
nei confronti dei traumi storici e psichici, ci restano di quel periodo i
quindici componimenti della plaquette A che valse? (Versi 1938-1942): nel
pubblicarli presso l’editore Scheiwiller come una strenna per gli amici
in trecento copie numerate, Zanzotto scelse nel 1970 un titolo
leopardiano per dar voce alla dolorosa ironia con cui guardare alla
propria giovinezza esistenziale e poetica. Il paesaggio era già
“regressione dall’oggi”,[1]
alla vigilia di un’apocalisse. Il mondo intero stava per dissolversi e
l’insieme di scoppi o di revulsioni da quel momento in poi non sarebbe
più cessato, nella discontinuità solo apparente fra Auschwitz e
Hiroshima da un lato e le mutazioni antropologiche dall’altro.
In una tesi di laurea coraggiosamente
dedicata a un contemporaneo (Deledda era morta da soli sei anni, nel
1936) ci attenderemmo di trovare gli incunaboli di Zanzotto critico,
quello dei saggi raccolti in Fantasie di avvicinamento e in Aure e disincanti.
Tuttavia, a una prima lettura, la distanza dall’oggetto, la modalità
discorsivo-dimostrativa della scrittura, il ricorso alle categorie
storico-letterarie e agli –ismi tradizionali oltre che il nome di Grazia
Deledda, del tutto assente nelle successive letture di Zanzotto,
sembrano marcare l’ estraneità di questo giovane laureando dal se stesso
più maturo. Tanto che appare pertinente estendere a Il problema critico dell’arte di Grazia Deledda,
suo primo esercizio di lettura, il quesito distanziante che l’autore
rivolgeva nel 1970 ai propri primi versi scritti prima della catastrofe:
a che valse?
Il genere “tesi di laurea”, come si sa,
esige il confronto con la critica e la disamina del tragitto
intellettuale e dei testi dell’autore considerato. In questo modo opera
anche il laureando Zanzotto, con le categorie storiche ed estetiche del
primo Novecento: dopo aver riscostruito la storia della ricezione e il “
mondo spirituale” dell’ autrice, nella parte centrale della tesi ne
attraversa tutti i libri, non omettendo una serie di giudizi di valore.
La partitura è dunque convenzionalmente cronologica: gli inizi, i primi
romanzi del periodo veristico, il tragitto dal romanzo regionalistico al
romanzo psicologico, la maturità.
Guardando meglio, tuttavia, ci si
accorge di una serie di fenomeni assai promettenti, attivi nella lettura
di tutti i testi deleddiani, forieri di futuro e riassumibili in tre
punti: 1)la larghissima messe di riferimenti comparativi alla
letteratura europea; 2)l’attenzione costante per la corporeità e per il
sottosuolo della psiche; 3) la precoce presenza delle due stelle polari
dell’infanzia e del paesaggio.
II. Per quanto riguarda il primo punto,
su tutti i modelli stranieri prevalgono di gran lunga i francesi e i
russi: gli eroi deleddiani, dominati da una colpa misteriosa, secondo
Zanzotto agiscono in un universo che “ha un conto da saldare con Dio” e
questo ne spiega il successo in terra di Francia là dove “il problema
del male come originato dalla caduta era stato, da Pascal a Baudelaire,
continuamente agitato” (p.9). Del resto, Zanzotto nota acutamente come
il tema oscuro della colpa abbia – fin dalle opere giovanili di Deledda –
un suo corrispettivo formale nella struttura narrativa con
“l’impaludarsi dell’azione drammatica nella monotonia della realtà
quotidiana (…) o addirittura nella mancanza di una conclusione”. Già
nelle prime novelle deleddiane si rileva infatti una “realtà fluente,
tagliata da un punto a un altro, quasi a caso; fatti che nell’accadere
non presentano quel tessuto logico di cause e di effetti, come nel
romanzo classico”: di modo che l’unità dell’opera sembra scaturire “da
un ordine poetico-epico più che, appunto, logico.” (p. 12). Questo
prevalere del caso sulla logica è un dato di grande rilievo
narratologico, che oggi diremmo consustanziale o preparatorio alle
poetiche del modernismo, messo in luce da Zanzotto un attimo prima di
ridimensionarlo: poiché Deledda gli pare anche “lontanissima da coloro
che portano alle massime espressioni queste forme d’arte e di visione
della vita: un Proust o, con intenzioni anche critiche, Bontempelli,
Huxley, Gide” (pp. 9-10). E se fra i grandi narratori russi, oltre a
Tolstoj e a Gogol’, domina indiscussa in Deledda la presenza di
Dostoevskij, anche quel modello è assunto prima per analogia e subito
dopo per differenza: “manca ancora nella Deledda quanto di infernale, di
torvo, di disumano si trova nell’opera del grande russo”. (p. 14)
Riguardo al secondo punto, cioè
l’attenzione costante per il “sottosuolo” psichico e per il mondo delle
pulsioni, nella lettura di Zanzotto Dostoevskij (non solo come “fonte”
ma quale strumento interpretativo della potenza del desiderio, sempre
all’opera nell’autrice sarda) si ibrida già, sia pure per negazione, con
Freud.
Ella oscilla tra lo
spiegare il fatto artistico come un “bisogno fisico” e invece il dargli
quel sommo, autonomo valore che ha. (…) Così ancora in Cosima
parlando di sé stessa; «Scrive per un bisogno fisico, come le altre
adolescenti corrono per i viali dei giardini e vanno a un luogo loro
proibito» oppure «scrivono fin da allora per un bisogno istintivo» .(…) E
nella novella Magda (in La regina delle tenebre) dopo
un intimo sconvolgimento di indole erotica, la protagonista «si sentì
artista, sentì che racchiudeva nell’anima una potenza formidabile, il
muto riflesso della natura e delle cose». Freud anticipato? No certo. È
inutile volere da lei delle teorie sull’arte: queste sono le due
esperienze personali candidamente riferiteci. Una prova in più questa
della istintività dell’arte deleddiana: per lei l’arte era davvero una
attività irriflessa. (p. 7)
Analogamente, la forza della passione
che spinge l’eroe a trasgredire le regole della società, della famiglia e
della tradizione, raffigurata così frequentemente dalla presenza
simbolica del vento nei romanzi di Deledda[2], è descritta da Zanzotto per comparazione con il linguaggio dei grandi simbolisti europei:
Ella non ha mai la
forza dei simbolisti francesi e fiamminghi che mediante opportuni
accorgimenti s’inducono a vedere e sentire questa identità tra concreto
ed astratto (Rimbaud: “Elle est retrouvée –quoi? L’ éternité- c’est le
mère allé-avec le soleil”) ella si accontenta di denunciarci la cosa di
bel principio tralasciando ogni preparazione. E su questa affermazione
incongruente costruisce a volte la vicenda del romanzo. Ma bisognerà
invece rispondere affermativamente alla seconda domanda, se ciò che la
D. abbia creato un suo simbolismo che sia poesia. Ella ottiene un
effetto chiaramente simbolico col presentarsi come già vedemmo in
“Marianna Sirta” ed anche in “Canne al vento” i personaggi e le cose in
un certo modo particolare in una certa luce per cui improvvisamente noi
li vediamo come simboli, li sentiamo significazioni anche senza che ciò
sia denunciato (p. 59).
L’acquisizione deleddiana “irriflessa”
delle leggi psichiche del profondo, così come il confronto con gli
scrittori europei, si articola insomma nei rilievi di Zanzotto in due
momenti: prima per somiglianza e poi contrastivamente. Il movimento
costante della tesi su Deledda si direbbe consista dunque in una sorta
di stop and go: grazie al quale si riconosce alla narratrice
sarda la forza disvelante e visionaria dei grandi scrittori che hanno
fondato la coscienza della modernità (da Baudelaire a Rimbaud, da
Dostoevskij a Proust) solo grazie alla funzione “salvacondotto”
dell’attenuazione che ne limita la portata entro coordinate istintive,
inconsapevoli, arretrate o provinciali.
III. La terza fra le costanti
“promettenti” della tesi riguarda il paesaggio e l’infanzia, cioè due
tra i nuclei tematici ossessivamente più presenti nell’intera scrittura
di Zanzotto maturo. Significativamente in queste zone del suo elaborato,
egli entra in polemica con Croce e con l’idea, diffusa nella critica
crociana, che la lettura di un testo debba basarsi sulla distinzione del
non estetico dall’autentica poesia di un autore:
Ci fu un tempo in
cui ci si affannò a mostrare che il problema se la Deledda abbia o no
interpretato la Sardegna ha ben poco a che vedere con la sua arte:
infatti la descrizione della realtà sarda sarebbe problema interessante
più per la geografia, la storia o la folkloristica che l’arte.
Interprete massimo il Croce. (p. 14)
Per Zanzotto, invece, il dato concreto
della perifericità insulare e del paesaggio specifico è figura
indispensabile della scrittura deleddiana, valorizzata proprio in quanto
capace di dar conto, più di ogni trattato etnografico, della vita
periferica, materiale e simbolica, e della cultura sarda:
Verissimo tutto ciò:
ma si deve riconoscere che prescindendo dalla ‘sardità’ dell’animo
deleddiano, non si arriverà mai a capirne l’arte. D’altra parte poi non è
vero affatto che la Sardegna si debba ‘conoscere’ solo attraverso la
‘storia’ e la ‘geografia’. Noi conosciamo l’essenza dell’italianità
attraverso le opere dei grandi italiani, così la più vera e profonda
manifestazione dell’anima sarda si avrà per l’appunto nell’arte della
sarda Deledda. E non è proprio quest’anima sarda che noi cerchiamo di
conoscere della Sardegna, come quella che ne ha creato la particolare
forma di vita, di storia, di civiltà? Nessun trattato di storia o di
folkloristica sarda mi farà capire la Sardegna come un romanzo della
Deledda. Ma ciò naturalmente interesserebbe poco il crociano puro, che
pretende di librarsi, nei suoi giudizi, al di sopra della storia e della
realtà. (14)
L’ultima fase della scrittura di Deledda
è altresì valorizzata per la comparsa di un genere ibrido come
l’autobiografia che permette l’irruzione della tematica dell’infanzia.
In questa zona conclusiva della tesi, in cui il giovane laureando (senza
aver ancora ovviamente acquisito la nozione saussuriana del segno o la
teoria lacaniana del significante) si concede le incursioni più
originali, relative alla geologia della psiche umana e al suo intimo
legame con il linguaggio, tema cardinale della scrittura di Zanzotto nei
decenni avvenire.
Ma negli ultimi
tempi ella comincia ad interessarsi di fanciulli e di animali, di esseri
cioè che vivono al di qua di questo mondo profondamente umano.(…).
Tutta questa letteratura infantile o infantileggiante che ama le
cantilene, i balbettii, le espressioni falsamente candide o
coreograficamente ingenue non deve esser confusa con altra di più solide
basi anche se pure non del tutto scevra della stessa malattia. Non si
può considerare del tutto decadente, per il solo fatto che analizza e
rivive l’anima infantile. Letteratura non solo di bambini, dissi, ma
anche di animali. Per questa forma ricordo i bellissimi racconti di Jack
London o di Colette, le poesie per il proprio cane di Francis Jammes,
il Peter Pan di Barrie e certi racconti della Lagerlof in cui vivono
insieme fanciulli ed animali, Il libro della giungla di Kipling o il Cucciolo della Rawlings o perché no? Le avventure di Pinocchio. (p. 80)
Tirando le somme: la tesi di Zanzotto va
contestualizzata e le esigenze dimostrative e consequenziali
dell’elaborato determinano l’andamento piano e tradizionale
dell’argomentazione, lontanissimo dal procedere, come in Fantasie di avvicinamento,
per scavi o prospezioni, e per accumulo, a sbalzi-sussulti. Tuttavia,
anche qui i testi indagati nella tesi sono portati a “galleggiare” nella
doppiezza che li rende vivi. [3] Il moto di stop and go
con il quale si riconosce alla narratrice sarda la forza visionaria dei
moderni grazie al lasciapassare di sminuimenti e attenuazioni, ne
costituisce un esempio sul piano della retorica discorsiva. Le stesse
coordinate istintive, inconsapevoli, arretrate o provinciali che
caratterizzerebbero nel bene e nel male la scrittura di Deledda a ben
guardare sono percepite da Zanzotto come intimamente bifide e come
veicoli di possibile identificazione. E questo probabilmente perché, in
Deledda come sarà in Zanzotto, “la via verso la modernità è certo
bloccata, ma bloccato risulta anche qualsiasi tentativo di ritorno
indietro”.[4]
Il paesaggio periferico e premoderno non costituisce dunque solo il
polo positivo arcaico e mitico, fuori dal tempo delle mutazioni: le
interconnessioni abbaglianti del circuito infanzia, inconscio,
linguaggio, paesaggio, periferia, fatte le debite differenze, sono sia
nel laureando che nell’oggetto del suo studio più simmetriche di quanto
non appaia al primo sguardo.
Si può dunque, in conclusione, azzardare una risposta al quesito a che valse’?
che abbiamo voluto lasciar aleggiare, in analogia con il titolo delle
coeve poesie giovanili, intorno al senso odierno di una tesi ancora non
consapevole dei traumi avvenire. Insomma, valse: perché il
ventenne Zanzotto, nella tragedia che incombe su tutti i personaggi
deleddiani misura già a suo modo, ricorrendo a Rimbaud e a Dostoevskij, a
Freud e perfino a Wagner(p 49 e 58 ), l’esperienza ulcerante della
modernità e il rapporto tra inconscio e storia[5].
Note
[1] Luigi Milone, Per una storia del linguaggio poetico di Andra Zanzotto in “Studi novecenteschi”, IV, nn. 8-9, 1974, p. 208.
[2] Stefano Brugnolo, Perché tira tanto vento nei romanzi di Grazia Deledda, in Grazia Deledda e la solitudine del segreto,
Atti del Convegno nazionale di studi, Sassari, 10-12 ottobre 2007, a c.
di Marco Manotta e A. M. Morace, Isre edizioni, Nuoro, 2010, p. . 53.
[3] Pier Vincenzo Mengaldo, Profili di critici del Novecento, Bollati Boringhieri, Torino, 1998, p. 71.
[4] Stefano Brugnolo, Perché tira tanto vento nei romanzi di Grazia Deledda, cit., p. 65.
[5] Franco Fortini, Zanzotto 2, in Breve secondo Novecento, in Id. Saggi ed epigrammi, a. c. di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2003, p. 1191
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Documento ripreso | pubblicato il 22 gennaio 2016
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Documento ripreso | pubblicato il 22 gennaio 2016
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