Quando il tribunale degli orrori diventò una fabbrica di stipendi. Sellerio pubblica la "Storia generale" di Pietro Tamburini che fu bollato come libro proibito. L´abolizione del Sant´Uffizio allarmava per il possibile "dissesto occupazionale". Mario Genco ne ha fatto un´antologia di reati e torture con un taglio da inchiesta
L'inquisizione in Sicilia
e la chiusura del Sant'Uffizio
di Amelia Crisantino
Per
ricordare la vera natura del Tribunale chiamato a garantire l´ortodossia,
Pietro Tamburini scrisse una poderosa "Storia generale
dell´Inquisizione": in quattro volumi, che scendendo nel dettaglio
elencavano «17.899.600 vittime della rabbia religiosa cristiana» fra il III
secolo e il primo quarto del XIX. Tamburini era giansenista, seguace di
un´eresia che nel tempo aveva sperimentato il clima di intolleranza garantito
dal sant´Uffizio, e nella sua lista degli orrori somma i morti delle crociate
alle vittime dei tanti massacri compiuti in nome della fede. Risale indietro
nel tempo perché, se le basi dell´organizzazione datano ai primi decenni del
XIII secolo, già da molto tempo e in ogni diocesi i vescovi direttamente
gestivano la repressione contro le eresie.
Con rigore tutto giansenista Tamburini scrive una sorta di storia del cristianesimo filtrata dalle diverse inquisizioni, ottenendo una «appendice di orribilità da far rabbrividire anco Satana, se pure è suscettivo di sentire orrore»: con pagine documentatissime disegna un grandioso affresco dove paura e follia s´intrecciano, sotto l´influsso paralizzante di un potere che trasforma i pensieri in reati da perseguitare.
Pubblicate soltanto nel 1862, com´era ovvio aspettarsi le denunce di Tamburini furono subito inserite nell´Indice dei Libri Proibiti, dove rimasero sino al 1948. Poi sono state dimenticate. Adesso Mario Genco ne ha tratto un´antologia, pubblicata da Sellerio col titolo "Storie dell´Inquisizione": scavando nella miniera delle 2.383 pagine originarie ha ottenuto un libro "moderno" e pure di piccolo formato, che di pagine ne conta "solo" 346 ma sembra così completo da far pensare che soltanto le ripetizioni siano state espunte.
Di quell´angosciata denuncia del «sistema fondato sul dolore» Genco ha selezionato soprattutto i brani che mostrano il quotidiano funzionamento della macchina inquisitoriale. Troviamo elenchi di reati, ci soffermiamo sugli schemi degli interrogatori, restiamo sbigottiti di fronte alla varietà delle torture e all´assortimento delle pene. Lo spazio è tutto occupato da una folla di personaggi minori, dalle regole «minuziose e spietate» perfezionate nel corso dei secoli per soffocare sul nascere ogni possibile germinare di coscienza critica. Poi, quasi ad alleggerire tanta secolare ferocia, il nuovo libro mantiene una delle attrattive della lontana prima edizione e ne ripropone le tavole fuori testo dal sapore popolaresco, dal tratto ingenuo e dai colori vivaci, in parte dipinte ad acquerello.
Genco ha seguito il proprio percorso di lettura, con competenza e rispetto s´è calato nei volumi di Tamburini mettendo a frutto la sua esperienza di giornalista di razza: uno di quelli che a Palermo hanno fatto una pluridecennale resistenza civile, raccontando ogni giorno la città. Il giornalista Genco è approdato a quella cronaca dilatata che è la storia, riuscendo a conservare il taglio ritmato delle sue inchieste. E come un´inchiesta si lascia leggere quest´antologia, a partire dall´introduzione in cui viene ricordato il pericolo appena celato in tante affannate rivendicazioni delle radici cristiane dell´Occidente, coi proclami che ciclicamente si ripetono, sorretti dall´ingenua illusione di rinvenire il segno di una spiritualità "naturalmente" superiore. Ma, scrive Genco, è bene ricordare che da storie come quella dell´Inquisizione, «da quel calderone di sangue e di orrori nacque l´Europa moderna».
Quella di Tamburini è l´inquisizione di Spagna - alle dirette dipendenze del sovrano - istituita nel 1478 e presto diventata la più capillare e tremenda organizzazione di potere del mondo. La Sicilia faceva parte del sistema imperiale spagnolo, la nuova organizzazione ci mette poco ad arrivare. Il primo Inquisitore è il domenicano Antonio La Pegna e nel 1481 troviamo un auto da fè: la vittima è Eulalia Tamarit, ebrea originaria di Saragozza.
Con rigore tutto giansenista Tamburini scrive una sorta di storia del cristianesimo filtrata dalle diverse inquisizioni, ottenendo una «appendice di orribilità da far rabbrividire anco Satana, se pure è suscettivo di sentire orrore»: con pagine documentatissime disegna un grandioso affresco dove paura e follia s´intrecciano, sotto l´influsso paralizzante di un potere che trasforma i pensieri in reati da perseguitare.
Pubblicate soltanto nel 1862, com´era ovvio aspettarsi le denunce di Tamburini furono subito inserite nell´Indice dei Libri Proibiti, dove rimasero sino al 1948. Poi sono state dimenticate. Adesso Mario Genco ne ha tratto un´antologia, pubblicata da Sellerio col titolo "Storie dell´Inquisizione": scavando nella miniera delle 2.383 pagine originarie ha ottenuto un libro "moderno" e pure di piccolo formato, che di pagine ne conta "solo" 346 ma sembra così completo da far pensare che soltanto le ripetizioni siano state espunte.
Di quell´angosciata denuncia del «sistema fondato sul dolore» Genco ha selezionato soprattutto i brani che mostrano il quotidiano funzionamento della macchina inquisitoriale. Troviamo elenchi di reati, ci soffermiamo sugli schemi degli interrogatori, restiamo sbigottiti di fronte alla varietà delle torture e all´assortimento delle pene. Lo spazio è tutto occupato da una folla di personaggi minori, dalle regole «minuziose e spietate» perfezionate nel corso dei secoli per soffocare sul nascere ogni possibile germinare di coscienza critica. Poi, quasi ad alleggerire tanta secolare ferocia, il nuovo libro mantiene una delle attrattive della lontana prima edizione e ne ripropone le tavole fuori testo dal sapore popolaresco, dal tratto ingenuo e dai colori vivaci, in parte dipinte ad acquerello.
Genco ha seguito il proprio percorso di lettura, con competenza e rispetto s´è calato nei volumi di Tamburini mettendo a frutto la sua esperienza di giornalista di razza: uno di quelli che a Palermo hanno fatto una pluridecennale resistenza civile, raccontando ogni giorno la città. Il giornalista Genco è approdato a quella cronaca dilatata che è la storia, riuscendo a conservare il taglio ritmato delle sue inchieste. E come un´inchiesta si lascia leggere quest´antologia, a partire dall´introduzione in cui viene ricordato il pericolo appena celato in tante affannate rivendicazioni delle radici cristiane dell´Occidente, coi proclami che ciclicamente si ripetono, sorretti dall´ingenua illusione di rinvenire il segno di una spiritualità "naturalmente" superiore. Ma, scrive Genco, è bene ricordare che da storie come quella dell´Inquisizione, «da quel calderone di sangue e di orrori nacque l´Europa moderna».
Quella di Tamburini è l´inquisizione di Spagna - alle dirette dipendenze del sovrano - istituita nel 1478 e presto diventata la più capillare e tremenda organizzazione di potere del mondo. La Sicilia faceva parte del sistema imperiale spagnolo, la nuova organizzazione ci mette poco ad arrivare. Il primo Inquisitore è il domenicano Antonio La Pegna e nel 1481 troviamo un auto da fè: la vittima è Eulalia Tamarit, ebrea originaria di Saragozza.
L´insediarsi di un nuovo organismo di potere disturba
equilibri già precari, ma nessun effetto sortiscono i reclami del viceré e dei
supremi magistrati di Sicilia. Se il papa e il re concordano sulla necessità di
combattere l´eresia, diffusa nell´isola «allo stesso modo che la peste», tutti
gli ufficiali del regno sono tenuti ad aiutare l´Inquisitore. Gli ebrei sono i
primi perseguitati, il 1492 è l´anno in cui vengono espulsi con grave danno per
l´economia futura: però con enormi guadagni immediati, dal momento che i loro
beni vengono confiscati dal fisco.
Il tribunale dell´inquisizione
condiziona in mille modi ogni aspetto della vita siciliana, ma a fine
Settecento quella organizzazione che aveva riunito i potenti dell´isola ai loro
clienti e servitori era ormai decaduta dalle sue paurose funzioni, ridotta
l´ombra di se stessa. All´inizio del suo regno - nel 1736 - Carlo III aveva
ottenuto dal papa che il Tribunale siciliano fosse indipendente da quello
spagnolo, e alla fine del secolo sembrava che l´inquisizione siciliana servisse
solo a garantire una moltitudine di impieghi e pensioni. In pratica, il
tribunale che aveva impaurito il mondo funzionava come un odierno carrozzone
governativo e in tanti rifiutano l´idea di abolirlo. La Deputazione del Regno,
che per suo compito vegliava sui privilegi della Sicilia, scrive allarmata alla
Corte sottolineando il «dissesto occupazionale» derivante dal fallimento
dell´antico tribunale, addirittura lascia intravedere probabili disordini e
definisce l´inquisizione «una delle più antiche e singolari grazie a questo
regno concedute». Ma non c´è niente da fare, il re firma e il Tribunale viene
eliminato.
Il 12 marzo 1782 il consultore Simonetti si reca nelle carceri dello Steri, crede di essere il benvenuto visto che sta per annunciare ai prigionieri la sospirata libertà. Ma «di tali infelici non trovò egli che soli tre, o per dir meglio tre sole femmine streghe» perché i maschi erano stati liberati qualche mese prima. E il marchese di Villabianca annota come una delle tre donne rifiutasse di lasciare il carcere, perché dopo tanti anni in quelle segrete il mondo le appariva ostile non avendo più una sua casa né il modo di sostenersi.
Il 27 marzo 1782 il viceré Caracciolo ordina la chiusura delle carceri, la distruzione di stemmi e insegne, l´eliminazione delle gabbie di ferro utilizzate per esporre le teste dei ribelli sulla facciata del palazzo. Caracciolo era un illuminista, credeva nella ragione. Ma, scrive Vito La Mantia nel suo classico studio sull´inquisizione in Sicilia, gli erano tutti contro: i nobili, la Deputazione del Regno, i vescovi di Sicilia e il Senato di Palermo. E nel suo diario di quel giorno il principe di Torremuzza annota: «Questa giornata fu veduta con occhio indifferente da tutto il pubblico».
Il 12 marzo 1782 il consultore Simonetti si reca nelle carceri dello Steri, crede di essere il benvenuto visto che sta per annunciare ai prigionieri la sospirata libertà. Ma «di tali infelici non trovò egli che soli tre, o per dir meglio tre sole femmine streghe» perché i maschi erano stati liberati qualche mese prima. E il marchese di Villabianca annota come una delle tre donne rifiutasse di lasciare il carcere, perché dopo tanti anni in quelle segrete il mondo le appariva ostile non avendo più una sua casa né il modo di sostenersi.
Il 27 marzo 1782 il viceré Caracciolo ordina la chiusura delle carceri, la distruzione di stemmi e insegne, l´eliminazione delle gabbie di ferro utilizzate per esporre le teste dei ribelli sulla facciata del palazzo. Caracciolo era un illuminista, credeva nella ragione. Ma, scrive Vito La Mantia nel suo classico studio sull´inquisizione in Sicilia, gli erano tutti contro: i nobili, la Deputazione del Regno, i vescovi di Sicilia e il Senato di Palermo. E nel suo diario di quel giorno il principe di Torremuzza annota: «Questa giornata fu veduta con occhio indifferente da tutto il pubblico».
La Repubblica, Palermo 20 marzo 2008
Nessun commento:
Posta un commento