Elsa Morante, artista sublime e tremenda
Antonio Gnoli
“Quando ho conosciuto
Elsa nel ' 37 era una donna di una dolcezza addirittura smielata, la
dolcezza ingannevole dell' innamoramento. Poi questa dolcezza
scomparve anche se ha continuato ad amarmi, si può dire, fino alla
morte”. C' è in questo sfumato ricordo di Alberto Moravia, tratto
dalla più recente biografia, buona parte del mondo di Elsa Morante.
Un mondo composto di poche certezze che sopravvissero a una certa
furia devastatrice che la Morante aveva nel suo carattere e che gli
anni ingigantirono, fino ad alienarle amicizie e affetti. Però
Moravia restò nel suo orizzonte sentimentale, malgrado lei fosse
ingiustamente convinta che il grande scrittore, perché tale lo
reputava, la odiasse.
Poi c'erano i gatti, i
bambini, i poeti fra questi ultimi soprattutto Sandro Penna e Umberto
Saba ad addolcirle il paesaggio. Questo piccolo mondo fatto di grida,
di versi, di miagolii echeggiò a lungo nella casa di via dell'Oca,
un attico romano proprio dietro piazza del Popolo dove la scrittrice
abitò a lungo negli ultimi tempi. Elsa Morante era nata a Testaccio,
un quartiere popolare di Roma nel luglio del 1912, da una famiglia di
modeste condizioni. Ancora adolescente scoprì la sua strada di
scrittrice e la percorse con ostinazione e furia. Occorrerà tuttavia
attendere gli anni Trenta, vederla alle prese con settimanali e
periodici, per intuirne il talento. I suoi articoli e, soprattutto, i
suoi racconti, scritti un po' per necessità e un po' per vocazione,
furono ospitati per lo più dal settimanale “Oggi”, diretto da
Arrigo Benedetti e Mario Pannunzio.
Il primo romanzo fu
Menzogna e sortilegio, uscì nel 1948 e vinse il premio
Viareggio. Il manoscritto era giunto nelle mani di Natalia Ginzburg,
allora redattrice della casa editrice Einaudi: “Lo lessi d' un
fiato e lo amai immensamente. Percepivo la grandezza di quel romanzo,
anche se non ne colsi subito tutte le implicazioni. Da lungo tempo,
però non avevo letto nulla che mi desse tanta vita e felicità. Fu
come se nessuno se l'aspettasse”.
La critica - ricostruisce
Cesare Garboli nell' introduzione al secondo volume delle opere della
Morante che sta per uscire nella collana I Meridiani di Mondadori -
fu attendista o manifestamente ostile. Pochi allora compresero la
grandezza che il disegno narrativo abbracciava. Tra questi ci fu Geno
Pampaloni. “Per me quel libro fu una grande novità”, ricorda
oggi Pampaloni: “La qualità della scrittura era altissima. Si
modellava su vari registri: c'era realismo, lirismo, illuminismo
razionale. C'era anche qualcosa di più misterioso: la sensazione di
non sapere a quali modelli letterari Elsa si fosse rifatta. Tutta la
ramificata attività linguistica della Morante sembra contraddire
l'idea convenzionale che ogni autore debba avere necessariamente un
padre. Lei, semmai, ne ebbe diversi. Stendhal e Rimbaud i suoi due
grandi amori letterari Aveva molto amato Kafka, ma a un certo punto
si stancò delle atmosfere opprimenti che il grande praghese
allestiva. Fu fedele a Rimbaud, un poeta in qualche modo omogeneo
alla sua visione del mondo: di donna che osava vedere ciò che altri
non avevano visto”.
“Mi capitò una volta -
racconta Pampaloni - di definire L'isola di Arturo, un romanzo
stendhaliano; ed Elsa mi inviò una lettera in cui mi diceva che
Stendhal era uno dei pochissimi suoi grandi amori letterari.
L'attraevano la leggerezza e, insieme, la complessità del Rosso e
il nero e della Certosa di Parma. L'isola di Arturo,
che apparve nel 1957 e vinse il premio Strega, fu il suo secondo
romanzo. L' anno dopo seguì Alibi, una raccolta di splendide
poesie che Garzanti sta per ripubblicare con una introduzione di
Cesare Garboli (nelle pagine che seguono ne anticipiamo una sintesi).
Alfonso Berardinelli che ha frequentato la scrittrice negli ultimi
anni della sua vita sottolinea un aspetto che in genere, quando si
ricostruisce la personalità della Morante è trascurato. Accanto
alla travolgente vocazione artistica, c'erano in lei una capacità di
intuizione, una finezza di analisi intellettuale, una curiosità
davvero rare. E del resto chi oggi apra gli scritti raccolti sotto il
titolo Pro o contro la bomba atomica (pubblicati da Adelphi e
ora riproposti da Mondadori nel secondo volume dei Meridiani), potrà
verificare la sottigliezza saggistica di questa scrittrice; come pure
il lettore che si soffermi sul bellissimo Diario 1938
(stampato da Einaudi e ripreso ora da Mondadori) potrà cogliere la
grande finezza psicologica di molte pagine.
È stato spesso anche
notato che la Morante fu scrittrice discontinua. Soprattutto le sue
ultime prove narrative La storia (1974) e Aracoeli
(1982) divisero aspramente la critica. “Non ho apprezzato Aracoeli
e ho amato solo la prima parte della Storia - osserva ancora
Pampaloni - però, di questa scrittrice, come di ogni grande, occorre
prendere i pieni e non i vuoti”.
Ma in che cosa consiste
la grandezza della Morante? Nella sua inattualità, precisa
Berardinelli, più esattamente nel suo desiderio titanico di
reinventare il romanzo. La sua scrittura porta con sé qualcosa di
sublime e, insieme, di ironico. Elsa volle dunque riappropriarsi del
grande romanzo nel momento di massimo tramonto per questo genere. Una
prova? Se analizzassimo la sua scrittura vedremmo che non è né
realistica, né lirica. Essa è piena di risonanze complicate che
vanno indietro nella tradizione italiana, ma hanno sotto gli occhi le
macerie letterarie del Novecento. “Io so - dice Berardinelli - che
quando scrisse Aracoeli Elsa leggeva Dante e Proust, cioè due
grandissime costruzioni narrative. Lavorava con metodica
professionalità. Cominciava a scrivere al tramonto e poteva andare
avanti fino a notte fonda. Viveva, attraverso i suoi quadernetti
ordinati, una vita parallela. Scriveva e scrivendo entrava nel
romanzo come si entra in un altro mondo: lontano dalle passioni,
dalla malattia”.
Fu nel 1983, dopo
Aracoeli, che le venne diagnosticata una grave forma di
senescenza e fu dunque ricoverata in una clinica. Dopo "Aracoeli"
si sentì invecchiata di colpo Elsa era stata a suo modo bella:
solare e inquietante. Con il viso largo di certi gatti e l' ombra
amara che talvolta segnava il suo sguardo. La Morante degli ultimi
anni è una donna decrepita, sfinita, chiusa in una letargica
malinconia. Giovinezza e vecchiaia. E in mezzo niente. L'idea che ci
assale è quella di una donna sfuggita alla mediazione del lento
decadere, dell'invecchiare dolcemente. Si immerse di colpo in un'età
più grande e più remota. Aveva tentato di suicidarsi ma fu salvata
in tempo.
In una rara intervista
così si spiegò: “Volevo veramente morire perché ero troppo
infelice, ero troppo ammalata, ero disperata... A sessant'anni ne
dimostravo trentacinque; e poi improvvisamente Aracoeli mi ha
fatto invecchiare: di colpo sono diventata vecchia. Le vicende degli
ultimi tempi si depositarono in una certa cronaca ossessiva che fece
della Morante un caso ridotto a un' insulsa diatriba con Moravia e lo
Stato e su chi avrebbe dovuto accollarsi le costosissime spese della
degenza. Nelle lunghe giornate passate a letto, in clinica, Elsa
riconosceva sempre meno le persone e sempre più distanti erano i
brevi intervalli di lucidità. Durante uno di essi, dice la Ginzburg,
manifestò il desiderio di scrivere un nuovo romanzo. Elsa venne
operata nell'estremo tentativo di ridarle una normalità che forse
neppure più desiderava. Le tagliarono i capelli a zero. Non so chi
disse allora che quei lineamenti, quel cranio calvo, quegli occhi
disperatamente assenti ricordavano Renée Falconetti, la
straordinaria interprete di Passione di Giovanna d'Arco di
Carl Theodor Dreyer. Quell'essere passionale, quello stare agli
estremi, quella mancanza di mediazione, mancanza che si trasferì
nella società letteraria che la giudicò, vennero meno. Elsa cadde
in una sorta di semplicità biologica. Una semplicità che ritrovava
in suggestioni infantili e che a un certo punto credette di aver
perso: “E adesso o voi che avete ascoltato queste canzoni - scrisse
nel congedo di quello straordinario libro che è Il mondo salvato
dai ragazzini - perdonatemi se sospiro ripensando a quanto era
stata semplice la mia vita”.
“la Repubblica”, 1
dicembre 1990
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