Giorgio Amico
Dialogo con un amico sulla Resistenza e la memoria
Verso il 25 aprile. Vedo che su alcuni profili fb vengono proposte le immagini dei martiri della Resistenza, sottolineando il sacrificio a cui si sono consapevolmente sottoposti, lottando per la libertà contro un nemico spietato e dalla forza militare soverchiante. Sono perplesso che queste forme di comunicazione (le stesse da 70 anni) siano adeguate per far comprendere qualcosa alle nuove generazioni (funzionavano forse ancora con la mia che adesso ha cinquant'anni suonati). Credo che sia necessario cambiare linguaggi e modalità. Preciso, a scanso di equivoci, che non ritengo i giovani d'oggi "rincoglioniti" dai social: ma la società, la cultura, le mentalità sono cambiate profondamente in questi ultimi decenni. Il martirologio non serve (anche perché i fascisti del 21. secolo controbattono con il loro, e conta poco che sia falso o decontestualizzato). Pero' cambiare cosa, come? Ci rifletto da molto tempo ma non so cosa rispondere.
Marco B.
Caro Marco,
una volta, quando ero giovane, pensavo che i fatti parlassero da soli e che bastasse ricordarli per farli rivivere. Sbagliavo. I ricordi hanno colore e sapore solo per chi ha vissuto in prima persona quei momenti. Il racconto, fatto da altri, quando diventa celebrazione, inevitabilmente scade nella retorica e nel banale. Il culto dei morti, come collante della “Nazione”, è parte integrante del processo di nazionalizzazione delle masse, che proprio il fascismo portò alle sue estreme conseguenze, rendendolo non solo grottesco, ma rendendo così impossibile il reale superamento/realizzazione degli ideali del Risorgimento a cui pure dichiarava di ispirarsi. Che anche il Risorgimento, ricordiamolo, fu tempo di amori e odi, guerra civile e pure feroce.
Mi son sempre chiesto cosa pensassero davvero i vecchi garibaldini, portati a sfilare in camicia rossa nelle manifestazioni “patriottiche” del regime. Mi è capitato spesso di pensarlo negli ultimi anni dei partigiani, ormai novantenni. Da quando mi chiamano a parlare ai giovani del '68 conosco la risposta. La leggo negli occhi dei giovani che ascoltano, magari con interesse, il mio racconto.
È destino dei vecchi che i loro ricordi siano letti come favole. Davvero la fabbrica del mito non cessa mai di operare. La portiamo radicata nell'angolo più profondo del nostro inconscio.
Questo sul piano personale. Sul piano storico il discorso non è poi molto diverso.
È destino delle rivoluzioni essere tradite. Furono traditi i garibaldini e con loro i contadini del Sud. Garibaldi e Mazzini furono resi icone inoffensive erigendo loro migliaia di lapidi e monumenti mentre si sparava su chi lottava per il pane e la dignità. Lo furono i partigiani, lo fu anche la mia generazione. Ma lo fu anche il rabbi Jeshua. Tanto che quello che noi chiamiamo cristianesimo è opera di Paolo, che neppure lo conobbe, né partecipò a quegli eventi, ma che seppe però trasformare una predicazione di cui sappiamo molto poco in un mito salvifico e in una Chiesa che ancora oggi regge.
Perché una rivoluzione è il tempo dell'Avvento, e parteciparvi una conversione, il momento della scoperta del senso autentico delle cose, dove tutto assume un altro significato e si guarda il mondo con occhi diversi. Una esperienza totalizzante per chi la vive. È la follia amorosa di Orlando, ma anche del partigiano Milton. Per questo non esiste memoria né rievocazione storica che possa trasmetterla davvero, se non a chi l'ha a sua volta vissuta.
Poi lo strappo si ricuce, la vita quotidiana riprende i suoi spazi. La normalità ritorna padrona. Resta la nostalgia in chi ha partecipato di una stagione irripetibile, di un momento in cui tutto era chiaro e la libertà esperienza di ogni attimo e non una parola. La nostalgia, ma anche il rimpianto. Perché una rivoluzione è l'isola che non c'è, perduta e mai più ritrovata.
Come si fa a trasmettere tutto questo a chi non c'era, a chi non l'ha vissuto sulla sua pelle? Non ho risposte da darti. Ma comunque un paio di cose credo ormai alla mia età di averle capite. La memoria non può essere trasmessa a forza, perché lo richiedono i programmi ministeriali o perché è giusto in astratto. I giovani non sono contenitori vuoti da riempire usando le ricorrenze come imbuti. Il giovani non sono piante, è uno slogan del '68, da allevare in serra preservandoli dal caldo o dal freddo eccessivo. La realtà e contraddittoria. Lasciamo dunque che le contraddizioni esplodano. In questo aveva ragione il vecchio Camus a sostenere che, se sono rari i tempi della rivoluzione, è invece sempre tempo di rivolta. E l'oggi non fa eccezione.
Nessun commento:
Posta un commento