Poesia e perdita. Un’intervista di Gilda Policastro a Franco Buffoni
L’intervista-dialogo che segue nasce da un incontro di poesia, tenuto presso la scuola Molly Bloom nel 2017.
Poesia e perdita: quando abbiamo concordato il titolo di questo incontro ho pensato ai versi di Eliot, a Fleba il fenicio che dimentica il grido dei gabbiani, il gorgo profondo del mare e il guadagno e la perdita (the profit and the loss). Qual è stato il tuo impulso?
Dovendo tornare alla Molly Bloom, dove avevo già parlato di traduzione, ho ripensato al precedente incontro che avevo chiuso con le parole di Robert Frost: «What is poetry? What gets lost in translation». Un binomio micidiale, poesia e perdita. E non posso non pensare ad Amelia Rosselli, a quei terribili versi di Documento (1976) in cui l’albero sulla strada diventa rosso perché la base della lampada da tavolo si riflette nel vetro. Lampada per la quale l’io poetico non vuole ricordare il luogo e le circostanze dove fu acquistata, «perché anch’essi pesano». Già nella prima parte del componimento si parla di peso e perdita:
C’è come un dolore nella stanza, ed
è superato in parte: ma vince il peso
degli oggetti, il loro significare
peso e perdita.
La stanza invasa dal dolore e la finestra sono le stesse da cui vent’anni dopo Rosselli si sarebbe lasciata cadere, rendendo ancora più micidiale il binomio peso e perdita.
All’estremo opposto di Rosselli, Elizabeth Bishop, nella sua celebre L’arte di perdere tempera la disperazione per il suicidio di Lota de Macedo Soares, sua compagna per quindici anni, con l’ironia, prendendo il discorso alla lontana:
L’arte di perdere non è difficile da imparare;
così tante cose sembrano pervase dall’intenzione
di essere perdute, che la loro perdita non è un disastro.
E via con un elenco comprendente le case, l’orologio della madre, le chiavi, il tempo, un continente, due fiumi. Per concludere:
Ho perso persino te: la voce scherzosa, un gesto che ho amato.
Questa è la prova, evidente, che l’arte di perdere non è difficile da imparare,
benché possa sembrare un vero – scrivilo! – disastro.
Quindi la perdita primaria è quella della fiducia nella vita, nella possibilità di goderne come se fosse un perenne incanto, che è poi l’idea dominante che si ha della poesia. La poesia è invece il referto di una perdita?
Cerco di rispondere inquadrando il tema della perdita in un’ottica filosofica e filologica, partendo dalla distinzione di Wittgenstein tra «parole sane» e «parole malate»: parole che significano quello che c’è e parole che muoiono in quello che non c’è e che non è mai esistito. La distinzione dipende da ciò che le parole richiamano. Se richiamano troppo o non richiamano più nulla, esse si ammalano. Esemplifico con un passaggio dal mio dramma Personae appena pubblicato, in cui il personaggio Narzis ricorda come le parole nascano «traviate»:
concrete al tempo di gioghi e genitali,
muoiono in quello di coniugazioni e genitivi.
Ricordo anche agli allievi quanto sia concreto – contadino, terragno – il giogo, lo strumento di legno che “aggioga” due buoi, da cui i “coniugi”, destinati e restare per il resto dei loro giorni sotto lo stesso giogo. E come si proceda verso l’astrazione coniugando i verbi e definendo genitivo un caso.
Dunque le parole stesse, anziché consistere in un guadagno, marcano una perdita?
In un intervento che risale al 1967 Auden disse: «Siccome gli uomini sono sia individui sociali sia persone, necessitano di un codice e al tempo stesso di un linguaggio, l’uno e l’altro fatti di parole. Ma tra l’uso delle parole come segnali e l’uso delle parole come linguaggio personale c’è un abisso insormontabile». Poiché sono convinto che se non si prende coscienza di questo fatto, non si può capire il perché dell’esistenza di un’arte letteraria come la poesia – e soprattutto non se ne può comprendere la funzione – non mi resta che riflettere sull’opera del poeta che più di tutti ha coniugato il binomio poesia e perdita. Premesso che non c’è bisogno di essere linguisti per sapere che la congiunzione è un elemento fondamentale, forse addirittura l’elemento fondamentale della costruzione linguistica, come definire la scrittura di Emily Dickinson, dove le parti connettive nel migliore dei casi sono abbreviate e più frequentemente espunte? La “e”, congiunzione principe – ancora più pesante e significativa nell’and inglese – in Dickinson non compare. Al suo posto appaiono barre, separazioni, intervalli. È la stessa cosa? No, non è la stessa cosa, non può essere la stessa cosa. Perché così barrato, intervallato, separato, il dettato dickinsoniano giunge al lettore in modo nervoso, isterico. Immediatamente si coglie un dato: quella poesia comunicherà sempre asprezza, ansietà, disagio.
C’è dunque un circolo che porta dal concreto della scrittura alla reazione emotiva, solitamente empatica del lettore. La perdita della congiunzione e dei nessi cos’altro implica sul piano dei significati relazionali? La nostra perdita riguarda solo chi scrive o anche chi legge, in qualche modo?
La lingua di Emily Dickinson è compressa, contratta, lacunare, perché procede from blank to blank. Proprio il procedimento da spazio bianco a spazio bianco la rende evanescente e infinitamente interpretabile, la rende unica. In pratica, con Dickinson, ci si trova quasi sempre ad avere a che fare con una mancanza “centrale”: una perdita. Da qui la necessità di ridurre le parole al minimo, di lasciare parlare gli spazi bianchi: appunto, i famosi blank, e le barre. Un procedimento sintetizzabile in due aggettivi tipicamente dickinsoniani: scant e slant. Il primo significa “secco”, “aspro”, il secondo “obliquo”: «Tell all the truth, but tell it slant», scriveva Emily, cerca di raccontare la verità, di dirla fino in fondo, ma dilla in modo obliquo, dilla “obliqua”. Se la dici chiaramente puoi offendere o uccidere. Come il sole a mezzogiorno, troppa luce può accecare, piuttosto che illuminare. In una notte di luna si vede meglio che non con il sole allo zenit. Ecco allora la necessità vitale dello slant, che potrebbe essere tradotto con la necessità di modulare il grido. Un’impresa ingaggiata da Emily con la forza della disperazione nei confronti della “parola”. Da qui la sua costante necessità di stordimento, di “estasi”. E di ricorso a un linguaggio ellittico. Dire la verità intera non si può, se non attraverso la narrazione di una serie di “estasi”. Emily Dickinson definisce questa serie di estasi “bollettini dell’immortalità”.
Perdita e distanza hanno a che fare solo con le persone, o con il compito stesso del poeta, ammesso che ce ne sia uno?
«My business is circumference»: ciò che mi concerne è la circonferenza, scrive Dickinson. Che cosa significa? Significa che io – poeta – miro al centro, bramo il centro, lo voglio raggiungere, colpire, trafiggere; il mio business è colmare questa distanza. Ma non posso farlo in altro modo se non continuando a spostarmi, scivolando sulla circonferenza, e da lì scagliando i miei dardi, i miei “strali”, verso il centro. Questi dardi, questi strali sono le millesettecento poesie che ci ha lasciato. Così, in questa poesia dickinsoniana della perdita, avviene che la particella più infinitesima («l’atomo opaco del male», scriveva Pascoli, che – se ci riflettiamo – è la vera Dickinson italiana), il punto infinitamente più piccolo, diventi un mito, un universo senza confini, tanto prossimo da poterlo toccare. E, per contro, può accadere che ciò che ci stava accanto, l’oggetto consueto, persino la persona cara, vengano proiettati a enorme distanza, tanto da non poterli più vedere né sfiorare. Dickinson è perfettamente consapevole dei limiti, delle insufficienze, della parola in genere e della parola poetica in particolare. E ne soffre perché la parola resta l’unico mezzo che ha a disposizione per mirare al centro. Certo, esiste la musica; magari – come scriveva John Keats – una «tuneless music», una musica senza suono, oppure la musica della natura, il ronzio dell’ape che – se estaticamente ascoltato – diviene più alto e armonioso della più complessa sinfonia. Ma Emily non è un musicista; Emily solo con le parole può “trattare”, quello è il suo business. E sempre nel timore per il Tempo che ci sfugge e ci impedisce di raggiungere il Centro da quella circonferenza su cui continuiamo a scivolare. Il Tempo irrimediabilmente passa, sulla Circonferenza si continua a scivolare. Ma forse non è il tempo che passa: siamo solo noi che passiamo; e forse siamo già al centro mentre crediamo di stare sulla circonferenza.
Veniamo infine all’altro tema su cui ti abbiamo sollecitato: la traduzione, di cui sei uno dei massimi esperti in Italia, non solo come traduttore (ad esempio dei Poeti romantici inglesi) e direttore della rivista “Testo a fronte”, ma anche come teorico. Cosa si perde nella traduzione?
Se siamo partiti dalla definizione di poesia di Robert Frost, possiamo citare ora quella di Josif Brodskij: «Poesia è traduzione. Traduzione di verità metafisiche in linguaggio terrestre». Esemplifico con una mia traduzione da un altro testo fondamentale di Dickinson, “To tell the Beauty would decrease”:
Raccontare la bellezza significa svilirla,
Definire l’incantesimo intaccarlo;
C’è un mare senza sillabe
Di cui bellezza e incanto sono segno.Con la volontà mi sforzo invano
Di ricreare la parola giusta,
Ma sempre poi me la rapiscono
Miniere di pensieri introspettivi…
Il mare senza sillabe è come la musica senza suono di Keats che citavi prima? I poeti romantici che hai tradotto nell’antologia uscita per Bompiani nel ’97 e poi ripubblicata negli Oscar nel 2005, come si confrontano col tema della perdita?
Riprendo proprio dalla citazione tratta dall’ Ode on a Grecian Urn di John Keats: «Heard melodies are sweet, but those unheard /Are sweeter»: se dolce è la melodia che s’ode, ancora più dolce è quella senza suono. I flauti sono incisi nel marmo: suoneranno per sempre la musica più dolce, così come i due amanti staranno per sempre sul punto di baciarsi e i rami degli alberi saranno per sempre fioriti. Aggiungo un riferimento all’altro grande romantico della seconda generazione, P.B. Shelley, che sintetizzò il concetto di perdita nell’imperativo Lift not the Painted Veil:
Non sollevare il velo dipinto:
Quelli che vivono lo chiamano vita,
Anche se mostra immagini irreali
E simula ciò che vorremmo credere
Con i colori sparsi a capriccio.
Dietro stanno in agguato i destini gemelli
Della Paura e della Speranza, a tessere
Le loro ombre sull’orrido mostruoso (…).
Gli allievi a questo punto vorranno sicuramente sapere come la perdita si sia fatta tema nella tua opera. Puoi leggerci qualche testo?
Posso citare un passaggio da Guerra – il libro è uscito nel 2005 – ricordando «le voci dei bambini / Separati dai padri / all’ingresso dei campi»:
[…] si può dire ciò che è bello
E ciò che è brutto
Si può dire anche ciò che è molto bello.
È il troppo brutto
Che non si riesce a dire
Perché esistono tutte le parole
Ma sono lunghe e finisce
Che assorbono
Dei pezzi di dolore.
Nei miei libri più recenti la perdita è l’indicibilità che rimane «lì sotto» (così in Jucci, del 2014); oppure ancora una volta storica, come «lo strappo sintattico» che restituisce «l’intraducibile» nella poesia tratta da La linea del cielo (Garzanti 2018), dedicata a Christine Koschel, poetessa e traduttrice nata a Breslavia nel 1936, attualmente a Roma.
L’autobus dei bambini morti
È quello che Christine Koschel
Vide a Berlino nel quarantacinque,
Alcuni ancora vivi, molti infanti
Tutti assolutamente soli
Abbandonati in una fuga dal nulla al nulla
Durante l’avanzata dei sovietici.
Da qui gli occhi per sempre
Che l’orrore hanno visto
Di Christine
Intraducibile se non
Nello strappo sintattico.
Le parole non esistono, dicevi prima, ma se mi consenti un gioco facile, da poeta sei addirittura diventato “paroliere”, di recente. Com’è successo?
Tutto parte da un testo che s’intitola “Perché so delle cose che so” (dalla raccolta I tre desideri, del 1984) e dice:
Perché so delle cose che so
E non ti posso spiegare
Perché non esistono tutte le parole
Ci sono solo le distanze e il tempo
Tra quello che io so
E tu dovrai
Si tratta di un testo (e un libro) che si chiudono così, senza punto o puntini di sospensione. Proprio a significare dickinsonianamente la perdita: recentemente la poesia è stata musicata e incisa dal cantautore romano Riccardo Sinigallia. Curiosa la storia: quando scrissi quella poesia, all’inizio degli anni Ottanta, la lessero due amici, Milo De Angelis e un giovanissimo Aldo Nove. Milo mi suggerì di togliere il «non», trasformando il terzo verso in «Perché esistono tutte le parole». Non lo feci, ma vent’anni dopo, nel testo di Guerra che ho citato poco fa, evidentemente recuperai il consiglio, se al quart’ultimo verso scrivo: «Perché esistono tutte le parole». Antonello (come si chiamava allora Aldo Nove) imparò a memoria quei versi, inventandosi una variante e con quella variante li citò trent’anni dopo a Riccardo Sinigallia, che se ne innamorò e volle musicarli. Così va il mondo, con la poesia e i suoi abitanti.
Testo tratto da: Franco Buffoni, Il triangolo immaginario (Secop Edizioni, 2021)
Pezzo ripreso da https://www.nazioneindiana.com/2021/04/10/poesia-e-perdita-intervista-franco-buffoni/
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