Oltre l’immaginario del dominio
Paolo Cacciari 11 Aprile 2021 Articolo ripreso da https://comune-info.net/uscire-dallimmaginario-del-dominio/Quelli di sopra hanno deciso: per affrontare le crisi profonde che viviamo occorre affidarci alle grandi imprese e alle fondazioni filantropiche. Per questo parlano di transizione senza dire dove andare e come farlo. Tuttavia, esperienze e tentativi di vivere senza creare ogni giorno il capitalismo esistono ovunque. Di certo, ricorda Paolo Cacciari, «non basta una semplice giustapposizione di rivendicazioni… Per fuoriuscire dall’economicismo capitalista, ci spiegano i movimenti femministi, bisogna uscire dall’immaginario del dominio (antro e androcentrico) e entrare nell’ordine di idee della cura di sé stesse/i, degli altri/e, del pianeta…»
Partiamo dalla diagnosi, per capire se siamo d’accordo sulla prognosi. La crisi che sta attraversando il mondo occidentale, e non solo, è profonda, strutturale, di senso. Lo ammettono persino le elite tecnocratiche globalizzate che detengono il potere economico concentrato in una manciata di super conglomerati, trast transnazionali, che si sentono franare il terreno sotto i piedi. Non basta “mitigare” gli impatti più negativi del sistema termoindustriale sull’ambiente e “adattare” i comportamenti umani alle nuove condizioni – secondo la filosofia cara ai vertici della UE. Serve un reset capitalism, dicono i ceo, i manager e i loro intellettuali riuniti in ristretti think tank, come quello che si riunisce tra Davos e Singapore. Per reset (letteralmente “azzeramento”) intendono una nuova grande trasformazione guidata dalle delle grandi imprese, supportata da un salto tecnologico (più di una semplice rivoluzione energetica e di una ristrutturazione degli apparati industriale) generatrice di un organico riassetto dei dispositivi di controllo sociale. Secondo questo progetto il perno dell’intero sistema socioeconomico, delle politiche di sviluppo e di welfare, dovrà essere la sola grande impresa, direttamente e attraverso le sue fondazioni “filantropiche” saltando le mediazioni dell’inservibile orpello statale. Il modello Bill Gates docet: primo finanziatore dell’Oms, primo investitore in cooperazione e sviluppo in Africa, garante dei monopoli sui brevetti sulla proprietà intellettuale, promotore di tutte le tecnologie digitali, di geo-ingenering, agro-pharma e food-sistem. Bezos, Musk, Gates, “i tre cavalieri del futuro”, come li chiama Federico Rampini, ci stanno preparando nuvole artificiali create con aerosol allo zolfo per aumentare la riflessione solare, oceani fertilizzati con sali di ferro per catturare il carbonio, piante geneticamente “migliorate” grazie alle nuove tecniche di evoluzione assistita NBT, geni programmati (gene drive) per estinguere specie di microrganismi indesiderati, una nuova “Rivoluzione verde 4.0” con l’impiego di droni, api-robot impollinatrici, ecc., ecc. La pandemia (al pari e più ancora della crisi climatica) è un acceleratore potente della tecnoscienza. Tanto che, dal nostro punto di vista, potremmo dire, parafrasando Mackenzie Wark, che “il peggio lo dobbiamo ancora vedere”!
Transizione è un vocabolo molto di moda, ma neutro; per dargli un senso qualitativo bisognerebbe stabilire verso dove si intende andare. Per prima cosa, quindi, se vogliamo riprendere un cammino di mobilitazione che non si fermi alla pur necessaria resistenza (fabbrica per fabbrica, scuola per scuola, quartiere per quartiere, strada per strada… come si diceva una volta e come esortano Castellina e Landini (Il tempo nuovo del sindacato, il manifesto del 5 aprile) è indispensabile esplicitare quale sia “l’altro mondo possibile”, “quale sia la forma di società che desideriamo” (Roberto Mancini, Idee eretiche , Altreconomia, aprile 2021). E qui sta il “vuoto di pensiero” politico o, perlomeno, le reticenze e i tatticismi, che secondo Guido Viale, spiegano “il fallimento delle sinistre a livello mondiale” (Come ritrovare il senso di un anticapitalismo ecologico). Servirebbe una visione (una utopia concreta) all’altezza della sfida lanciata dal reset capitalism.
Non propongo di aprire un dibattito astratto sulla natura degli anticapitalismi comunista, socialista, anarchico, cristiano-sociale… Ma su quali devono essere i principi-presupposti-criteri di riferimento di una società concretamente post-capitalista.
■ Il lavoro: quale attività socialmente utile che va oltre la prestazione mercificata. L’ecologia: quale relazione che supera la dicotomia natura/cultura.
■ La tecnologia: quali ausili allo sviluppo delle capacità umane.
■ La democrazia: quale sistema di relazioni paritarie e orizzontali. Lo stato: quali istituzioni comunitarie capaci di autogoverno.
E così via, fino a definire quale deve essere lo spazio del dominio sulla società dell’impresa, della proprietà, del mercato, del denaro. Il compromesso sociale tentato dal costituzionalismo post bellico e dalle Carte internazionali sui diritti umani, non hanno retto all’urto neoliberale e neoliberista.
La logica del capitale – quella della “accumulazione permanente”, diceva Rosa Luxemburg – non concepisce limitazioni; né nell’estrazione di risorse vergini naturali, né nello sfruttamento del lavoro umano. Andrebbero allora edificati più solidi baluardi. Continuare ad appellarsi alla “responsabilità” sociale, ambientale, morale… dell’impresa di capitali (cioè ai suoi consigli di amministrazione, magari affiancati da comitati etici come propone l’Economy of Francesco, sfiorando il ridicolo) è persino controproducente. La si accredita ad esercitare un mestiere che non è e non potrà mai essere il suo. L’obiettivo del bene comune deve essere esercitato in solido (cioè solidalmente) dalle popolazioni della Terra. Non dai proprietari dei mezzi di produzione, delle tecnologie, del denaro.
Non è un confronto (solo) teorico. Esperienze, tentativi e buone pratiche di affrancamento dalle logiche del capitale ce ne sono moltissime – come ricorda Viale. C’è un popolo in marcia ovunque (pensiamo ai movimenti contadini in India, e non solo, a cui giustamente Greta Tumberg ha prestato la sua attenzione). Una loro convergenza si potrà realizzare nell’ambito di una presa di coscienza generale, di una “casuazione ideale” (diceva Pietro Barcellona a proposito della dimensione antropologica e spirituale dell’umano). Non basta una semplice giustapposizione di rivendicazioni (un po’ di clima, un po’ di vaccini, un po’ di salari, un po’ di diritti…). Per fuoriuscire dall’economicismo capitalista, ci spiegano i movimenti femministi, bisogna uscire dall’immaginario del dominio (antro e androcentrico) e entrare nell’ordine di idee della cura di sé stesse/i, degli altri/e, del pianeta.
Sabato 10 aprile in una ventina di città e a Roma ci è stata una piccola prova di convergenza tra movimenti e gruppi attivi della società di fronte ad ospedali, a mercati contadini, centri sociali e beni comuni… (societadellacura.blogspot.com). Una rete che è “politica prima”. Chissà se la “politica seconda”, quella che si occupa della rappresentanza, se ne accorgerà.
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