DUE CONTRO DANTE
di Lorenzo Renzi
I giornali e gli altri media hanno dato un certo risalto a un lungo articolo su Dante apparso il 25 marzo 2021 sul quotidiano tedesco “Frankfurter Rundschau”.[1] L’articolo, a firma del giornalista e scrittore tedesco Arno Widmann, è stato poco gradito non ai dantisti italiani, che, a quanto pare non sollecitati da nessuno, tacciono nei loro studi (può darsi che nel frattempo qualcuno abbia parlato o che lo faccia prendendo tempo), ma a molti giornalisti, ai social media italiani, alla TV, che hanno ritenuto l’articolo lesivo della figura di Dante, se non anche dell’onore nazionale. Offendendo Dante, l’autore dell’articolo avrebbe offeso tutti gli italiani. Tra i politici, Salvini commenta “Su Dante parole incredibili e insensate”, Giorgia Meloni “Parole inaccettabili e senza alcun fondamento”. Tralascio il resto delle loro dichiarazioni, che si trovano facilmente in rete. Ma anche dal centro-sinistra, il ministro della cultura Dario Franceschini twitta, certo senza informarsi troppo: “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. Intanto il direttore degli Uffizi, Eike Schmidt, tedesco in servizio in Italia, parla ai microfoni di Lady Radio, respingendo le argomentazione di Widmann su Dante, accusandolo di “completa ignoranza sull’argomento”, e di “ripetuti atteggiamenti provocatori”[2] (ma la prima cosa non è certamente vera, come vedremo presto).
Non tutti contro Widmann
Tutti contro Widmann, dunque? No. Una breve dichiarazione a suo favore, riportata da molti media, viene dal corrispondente dall’Italia della “Frankfurter Allgemeine Zeitung” già presidente della stampa estera in Italia, Tobias Piller: “Non ho letto da nessuna parte né arrivista né plagiatore [parole che molti media attribuiscono a Widmann]. Mi sembra un articolo che inquadra Dante nel suo tempo e ne spiega la grandezza ai tedeschi”. Dato il ruolo di chi scrive è forse un po’ una difesa di ufficio.
Una chiara difesa di Widmann appare invece tempestivamente sul “Corriere della sera” a firma, imprevedibilmente, di Roberto Saviano[3]. Secondo Saviano quelli che protestano hanno letto male l’articolo di Widmann, e se l’hanno letto non l’hanno capito. L’articolo di Widmann non è affatto contro Dante, e noi italiani abbiamo perso una buona occasione per far vedere che non siamo più provinciali e sciovinisti. Se pur l’avevamo letto: su questo punto, Saviano ha certamente ragione. In Internet l’articolo di Widmann si trova in numerosi riassunti in italiano, già interpretati e orientati, come una batteria d’artiglieria, contro l’attacco tedesco. Si trova, a cercarlo, anche in tedesco, ma il tedesco, si sa, “non legitur”, come si diceva del greco nel Medioevo (a proposito del Medioevo rimando alle opinioni del secondo presunto accusatore di Dante, Piergiorgio Odifreddi, vedi avanti). Così dà lui, Saviano, una controlettura dell’articolo tedesco. L’articolo di Saviano è accompagnato da un’intervista allo stesso Widmann, sempre di Saviano, che si dovrebbe interpretare come una conferma di quanto scritto da Saviano, ma, come vedremo, lo è solo fino a un certo punto.
Nel suo articolo Saviano riprende e illustra, si potrebbe dire controillustra, gli argomenti danteschi trattati da Widmann per mostrare al lettore che sono tutte questioni di peso e che Widmann li ha trattati con competenza e esprimendo opinioni accettabili. Nel ricordare che Dante ha scritto sulla scia della poesia provenzale, l’autore tedesco non fa che ricordare una cosa nota, non ha minimamente l’intenzione di sminuire l’originalità di Dante, come cercano di far credere i suoi detrattori che lo trattano da plagiario (termine largamente usato dalla stampa italiana). Nello stesso modo una possibile conoscenza da parte di Dante del “Libro della scala” islamico, che tratta del viaggio di Maometto fino al più alto dei cieli, non sarebbe invocata per accusare di plagio Dante o per diminuirne l’originalità, ma, secondo Saviano, per mettere in luce un tratto positivo della cultura medievale: “un ebreo traduce dall’arabo, e un cristiano (Dante) trova la sua traduzione interessante”. Del resto, aggiunge giustamente Saviano, nessuno ha mai trovato niente da dire sul fatto che il viaggio di Dante nell’oltretomba, oltre ai precedenti classici, riecheggi qua e là anche quello di Bonvesin da Riva. Infine Saviano, questa volta senza un appiglio diretto a Widmann (c’è stato forse un taglio redazionale?) ricorda la dirittura morale di Dante non solo nell’esilio ma già al tempo in cui ricopriva cariche nel comune di Firenze e si era impegnato a fondo nel “combattere la corruzione e nel bloccare sistematicamente tutti i finanziamenti al corrottissimo e rapace Bonifacio VIII”. Qui purtroppo bisogna registrare che gli studi recenti, compreso l’ottimo Dante di Alessandro Barbero (Laterza 2020), danno un quadro ben più problematico del comportamento del Dante politico, a Firenze come in esilio. Problematico sia nel senso che spesso non sappiamo bene che cosa abbia fatto Dante in certe circostanze, sia che ci è spesso difficile capire qual era il vero significato politico delle sue azioni. Ma nel complesso negli studi recenti sulla vita di Dante, la figura verticale del poeta esce ridimensionata, anche nel rapporto tra quello che sembra aver fatto e il modo in cui racconta le cose nelle sue opere e in particolare nella Commedia. Qui Saviano appare poco informato, e del resto le novità sono abbastanza recenti e cominciano ad entrare solo adesso nel dominio non specialistico. Saviano riflette ancora la vulgata “ghibellina” di Dante eroe della lotta contro il Papato corrotto, in cui forse vede con compiacimento, ma con un certo anacronismo, un riflesso di fatti più recenti. In questo modo Saviano ha passato in rassegna brevemente, alcuni punti del suo articolo di Widmann, non tutti (erano certamente troppi), assolvendo Widmann dopo averlo riassunto sempre correttamente, ma direi anche appiattendolo un po’ con l’eliminazione di alcune punte a sorpresa che Widmann aveva riservato al lettore.
Accanto al suo articolo di difesa del collega tedesco, appare il testo di una sua intervista in cui lo steso Saviano offre l’occasione a Widmann di difendersi dagli attacchi della stampa italiana. In realtà Widmann non si difende affatto. Dice di aver “sempre amato Dante” e ne dà per ragione che è stato un poeta dell’esilio, come molti tra i migliori scrittori e poeti europei che lo hanno sempre interessato. Resiste ostinatamente a rispondere alle domande di Saviano su cosa preferisca in Dante: alla fine finisce per ammettere che da ragazzo amava la “Vita Nova” e l’episodio di Ulisse, da vecchio, adesso, preferisce alcune parti del Paradiso. Spiega in modo singolare la preferenza per Ulisse: Dante, facendolo parlare in modo così nobile per noi, criticherebbe Dio per averlo messo all’Inferno condannando in lui l’illimitata “curiosità” (alla quale aveva alluso anche nell’articolo). In realtà, scolasticamente, Ulisse sarebbe all’Inferno come consigliere di frode, cioè per avere indotto i compagni al viaggio sacrilego oltre le colonne l’Ercole. Noi, lettori moderni, possiamo certamente andare più avanti davanti a un personaggio che ci è presentato come degno della massima ammirazione (lo stesso succede con Francesca) e che Dante, in nome di Dio, ha messo all’Inferno. Non seguirei però Widmann nel pensare che Dante dissenta dalla decisione divina. Dante, credo, vuole mostrare quanto questa la pena di Dio sia inflessibile anche di fronte alle azioni e ai pensieri umani più attraenti, e per questo presta a Ulisse le parole non solo più persuasive, ma più nobili e alte. La rivalità tra Dante e Dio è una conclusione eccessiva e errata di Widmann.
Beati noi in Italia, prosegue Widmann, che reagiamo ancora a un preteso attacco culturale! In generale potremmo dire che Widmann, nel suo scritto e poi anche nell’intervista, mostra uno spirito dispettoso e amaro. Di ciò che gli piace non vuole parlare (che ami Dante e lo abbia letto e studiato tutta la vista Saviano ha dovuto tirarglielo fuori con le tenaglie), preferisce dire quello che, dopo tanto pensarci su, non gli va. Non direi, con Lucia Conti, che Widmann riconosca la grandezza di Dante, ma che gli sia antipatico[4]. Piuttosto mi pare che abbia nascosto bene il suo amore per Dante, come fanno certi con le persone amate, e che ha fatto ogni sforzo per trovargli dei difetti, umani e letterari (qui le cose sono un po’ mescolate), e ne ha trovati. Ma non si tratta solo di Dante, ma anche degli italiani (in questo quelli che hanno reagito, magari malamente, non si sono sbagliati). Dante, dice, è una figura in cui gli italiani si identificano, e lo fanno per mettersi al riparo dalle accuse altrui e anche, e forse soprattutto, dalle proprie insicurezze. Non si tratta certo di un complimento per noi. Tuttavia Widmannin un certo modo lo capisce e ci invidia per tanta innocenza, visto che in Germana, dice, “non si darebbe tanta importanza a un articolo culturale, anzi”. Quanto alla Germania, sollecitato da Saviano, dice che “nella scuole tedesche non si conosce più nessuno”, cioè nessun autore, e conclude, da vecchio ribelle diventato conservatore, rimpiangendo il buon tempo antico rappresentato nella figura del suo grande maestro Theodor Adorno.
Provo a discutere a questo punto anch’io il contenuto dell’articolo di Widmann, in vista di una conclusione meno positiva di quella di Saviano, ma più sfumata … di quella di Salvini!
Il 29 marzo su Facebook, il prof. Bernhard Huss della Freie Universität di Berlino, scrive (in italiano): “Roberto Saviano difende energicamente l’articolo di Widmann… Sarei più critico nei confronti di Widmann, ma ringrazio Saviano per aver detto chiaramente che un “attacco tedesco” non c’è”.
Do you understand Old Italian?
Nella prima parte del suo saggio, Widmann illustra il ruolo che ha avuto Dante per la lingua italiana. Abbandonando il latino, Dante avrebbe forgiato la forma letteraria della lingua nativa sostanzialmente per le proprie opere. Da lui l’hanno ricevuta secoli dopo l’Italia e gli Italiani, o almeno, precisa Widmann, attenzione: questo era quello che si raccontava ai ragazzini sessant’anni fa. Peccato, aggiunge, che il ragazzino italiano, chino sul suo Dante non lo capisse, tanto da postillare il suo Dante con note e noterelle. Qui Widmann sembra riferirsi a una sua esperienza personale: prendendolo alla lettera, sessant’anni fa Widmann aveva quindici anni e probabilmente doveva aver fatto un soggiorno in Italia e osservato allora questo bambino italiano che postillava il suo libro. Può darsi anche che Widmann abbia studiato per un periodo in una scuola italiana, e che la sua esperienza di queste cose, che gli è rimasta ben viva nella memoria, sia stata più profonda e più prolungata. (Strano che questo genere di rimando implicito a una propria esperienza personale, abbia un sapore dantesco; l’opera di Dante è tutta costellata di ricordi personali, qualche volta di valore generale e qualche solo strettamente personale). Comunque sia, Widmann solleva qui in poche righe una grossa questione: qual è il grado di intellegibilità della lingua della Commedia, e quella dell’italiano antico in generale, per il parlante dell’italiano moderno? È una questione che un tempo non veniva nemmeno posta. Ma da venti o trent’anni si sono formati due partiti, quello di chi evidenzia la continuità della lingua, e quello di chi sottolinea soprattutto le differenze, l’evoluzione Tra gli studiosi, la convinzione a cui allude Widmann, che esista un italiano eterno, sistemato una volta per sempre da Dante e che proseguirebbe fino ad oggi, non esiste più, è un mero pregiudizio. L’italiano è cambiato nel tempo, anche se forse meno di altre lingue. Secondo Tullio De Mauro, quasi il 90% del lessico fondamentale dell’italiano modero si trovava già in Dante. Relativamente poco è cambiato l’italiano nella morfologia, poco nella fonologia. Molto più nella sintassi. Questo bilancio, con i dovuti dettagli, è proposto da Giampaolo Salvi e Lorenzo Renzi (sono io stesso che scrivo qui, scusate!) alla fine del lungo lavoro di preparazione di una Grammatica dell’italiano antico (2010), opera di trenta collaboratori linguisti e filologi. Un altro aspetto di questa questione è la polemica, nata parecchio tempo fa, nel 1999, sull’idea di pubblicare traduzioni in italiano moderno delle opere in italiano antico o di quelle di forte stampo classicistico, più difficili, spesso, non solo per i ragazzi, di quelle antiche. Il dilemma era se tradurre un’opera, mettiamo proprio la Commedia, o inserire lunghe note linguistiche nel mare magnum delle note a piede di pagina,come aveva mostrato un noto linguista, Michele Cortelazzo, facendo vedere che nei commenti correnti il testo veniva tradotto, parola per parola o a pezzettini, fino al 90 %. L’idea di passare alla traduzione completa, da affiancare naturalmente all’originale, che io stesso avevo sostenuto in una polemica a più voci sul “Corriere della sera” appunto nel 1999, è rimasta minoritaria, ma ogni tanto l’idea salta fuori di nuovo. E in realtà qualche edizione fatta così esiste, e esisteva già nel 1999. Il proposito di due tra i maggiori dantisti italiani, Mirko Tavoni e il compianto Marco Santagata di dare alle stampe una traduzione della Commedia in italiano moderno, è rimasto purtroppo irrealizzata. Io credo quindi che l’osservazione di Widmann, almeno se così interpretata, sia legittima e non sorprenda certo il dantista italiano, che peraltro non è l’interlocutore del suo scritto, ma che è naturale che se ne trovi coinvolto. Certo, quando in un paese la lingua è cambiata di più, come nelle chansons de geste francesi o nelle opere in medio-alto-tedesco, le traduzioni si sono già imposte da tempo, accanto naturalmente agli originali destinati allo studio a un livello superiore e specialistico. Se anche per l’italiano si sia arrivati a questo punto, è una cosa che si può discutere, e non sarebbe male sentire il parere degli insegnanti che, assieme ai ragazzi, sono i più direttamente interessati.
. . . e il Provenzale?
Nella parte che segue, Widmann parla della diffusione della lingua provenzale in Italia prima di Dante. Come vedremo, sarà difficile seguirlo non nelle singole affermazioni, ma nelle implicazioni che Widmann sembra suggerire. Dopo il latino, Il provenzale è stata la prima lingua letteraria d’Italia, a causa della diaspora seguita alla tragica crociata degli Albigesi (1209-29). Molti Trovatori hanno lasciato allora la loro terra, oggetto di occupazione e di strage, per rifugiarsi presso i signori d’Italia. Sono loro che hanno scritto e cantato versi in non in latino, prima di Dante, e hanno creato un nuovo pubblico fuori dalle mura della chiesa. Hanno fornito anche il primo modello linguistico, metrico e retorico prima alla scuola poetica siciliana. Dopo di loro la poesia in volgare fiorisce nelle città della Toscana e in particolare a Firenze, patria di Dante, ma anche, aggiungo io, la città più ricca e potente del tempo, non solo in Italia. Firenze con i suoi poeti, ma anche con i suoi ordinamenti repubblicani, col suo comune, con i suoi notai, mercanti e banchieri. Dunque, certamente il provenzale scritto e cantato è stata la prima lingua letteraria dell’Italia medievale, come scrive Widmann e come si trova in qualunque manuale di letteratura italiana, ma questo non limita affatto, come sembra suggerire Widmann, il ruolo innovatore di Dante, a partire già dalla Vita Nova. Quanto alla Commedia, il metro, l’architettura interna, l’ispirazione teologica non hanno nessun precedente nei Provenzali. Per la poesia lirica, la trafila: dai Trovatori, alla scuola poetica toscana, ai cosiddetti siculo-toscani, a Dante e agli amici suoi (Guido Cavalcanti e Cino), stabilita dallo stesso Dante, è quella che si trova nei manuali, che si studia a scuola, e che, come ha scritto Dante con la sua tipica perentorietà, “nessuno potrà cambiare”. Notando che Dante mette se stesso al culmine di questo processo letterario, Widmann parla per la prima volta dell’“ego smisurato di Dante”. E così è, Dante aveva un ego smisurato. Ma non è una novità: quella dell’egocentrismo di Dante, o detto più delicatamente, alla Stendhal, del suo “egotismo”, è un’osservazione che hanno fatto da molto tempo i dantisti italiani, che hanno perduto le vecchie remore in materia. Parallelamente uno studioso della statura di Guglielmo Gorni, ora scomparso, esaminando il pensiero politico di Dante, non ha esitato a definirlo “reazionario”. Voglio aggiungere che questa presenza di Dante, la sua passione e partigianeria, le sue invettive a paesi (l’Italia!), città (Firenze, Pisa …) e infine anche alle autorità costituite (re e principi vili, papi) sono forse il tratto della poesia di Dante che piace di più ai ragazzi quando lo leggono nelle scuole. Per tornare alla lingua, parallelamente al provenzale, circolava in Italia anche il francese (antico), e anche questa volta non mancano gli italiani che scrivono in francese, come ricorda di nuovo Widmann. Non mi risulta che nel nostro paese, in cui non sono certo mancati gli eccessi di nazionalismo, qualcuno abbia storto il naso per questo fatto. Questo multi- o plurilinguismo ha fatto anzi la gioia dei filologi italiani per più di cinquant’anni, ed è l’alveo naturale in cui scorre il fiume del dantismo italiano. Se però interpreto bene la ragione per cui Widmann ha dato tanto rilievo alla diffusione del provenzale e del francese in Italia, mi sembra che sia stato con lo scopo di porre dei limiti al ruolo di Dante come “padre della lingua italiana”.
Non condividerei la definizione, del resto non coerente con il proprio assunto, di “cantanti pop” per i Trovatori. Molti, anche se non tutti, erano poeti molto raffinati. Widmann, certo, vuole solo ricordare che la loro poesia era accompagnata con la musica, mentre questo in Italia, a quanto pare, non è mai successo. Ma perché notare questo? anche in questo caso sembra che Widmann voglia sottolineare che Dante ha preteso di superare i Provenzali con il solo testo poetico, gareggiando con dei rivali armati anche dell’attrazione della musica. L’dea è che in Dante ci sia un forte atteggiamento agonistico (“Dante si metteva sempre in competizione”, scrive Widmann) non è certo sbagliata, ma in questo caso ci sembra fuori luogo. Non c’è nessun luogo nella sua opera che dia adito a questa affermazione, e può darsi addirittura che Dante non sapesse che le canzoni dei Trovatori erano sempre musicate. In Italia si musicavano solo occasionalmente e a posteriori.
Altri punti critici
Un caso simile è quello dell’islamico Libro della Scala, che racconta la salita di Maometto al cielo e che Dante avrebbe conosciuto e che sarebbe tra le fonti della Commedia. Preciso: Dante, che non sapeva l’arabo potrebbe aver letto in una traduzione latina. Nel 2000 una grande filologa, Maria Corti, aveva proposto con entusiasmo di accettare questa tesi, e aveva dato lei stessa dei nuovi argomenti per sostenerla. Mi pare però che, per es. nelle più recenti edizioni commentate della Commedia, quest’opera non sia citata né che lo sia quella del primo autore, spagnolo, Miguel Asín Palacios, che ne ha proposto un’influenza sulla Commedia. In ogni caso attribuire a Dante, come fa ancora Widmann, il proposito di sfidare con la sua Commedia l’opera islamica, mi pare però un grosso azzardo. Valorizzare anche questa fonte, se si può, mi pare invece un’ottima idea, e forse un’occasione per gli storici per fare di nuovo il punto sui rapporti tra Cristianesimo e Islam ai tempi di Dante.
Dante non parla mai della moglie e dei figli, scrive Widmann. Ma dagli argomenti e silentio si sa che è bene non tirare deduzioni. Per difendere Dante potremmo comunque dire che è nella sua opera che documentiamo per la prima volta in italiano le parole infantili della nostra lingua, come mamma, pappo (babbo, papà), dindi (monete). Dico “difendere Dante” perché effettivamente nel procedere rapido delle osservazioni di Widmann, noto che diventa sempre più chiaro il proposito di segnalare i limiti di Dante. Qui Widmann osserva che per leggere della santità del matrimonio bisognerà aspettare Lutero e la Riforma. Qui è sembrato a qualcuno dei detrattori che Widmann voglia contrapporre Dante e con lui i valori del Sud dell’Europa, a quelli del Nord, partecipando così, dalla parte a noi avversa, alla polemica in atto all’interno della UE. Ma no, non penso proprio, è solo un altro suo argomento per segnalare i limiti di Dante.
Quanto all’assenza di natura, di vegetazione, di ambiente nei tre regni dell’Aldilà, con una delle sue espressioni vigorose perché anacronistiche rispetto all’oggetto in questione, Widmann parla di un “design di interno infernale” per tutti e tre i regni, non solo per l’Inferno. Prima è selva selvaggia, poi pietraia, palude, ripide salite senza ristoro, poi solo luce. Ma se l’itinerario è desolato, ci compensano, dico io, le grandi similitudini naturalistiche, spesso di origine virgiliana: ecco l’uccello che aspetta tra i rami di un alberi il sole per cibare i suoi piccoli (Par. XXIII, vv.1-9), ecco il contadino che ripara con una manciata di spine il buco di una siepe (Purg. IV, vv.19-21), ecco il riposo estivo di un villano infastidito prima dalle mosche e poi, la sera, dalle zanzare, mentre giù per la valle, dove sono i suoi campi, appaiono le lucciole (Purg. XXVI, vv.25-30), ecco infine la neve che si scioglie al sole e le foglie leggere nel vento (Par.XXXIII, 64-65), come sarà poi in Verlaine. Quanta natura in Dante!
Confrontando Dante con il contemporaneo Marco Polo, Widmann nota che l’attenzione di Dante, “la cui curiosità immensa” si concentra sugli oggetti, ed è incapace di divagazione, e Widmann gliene fa un merito (ed è l’unica volta, mi pare). Il confronto con Marco Polo gli permette però anche di dire che l’ossessione religiosa di Dante appartiene a lui, e non a tutto il suo tempo, come dimostrerebbe, appunto, il Milione, così indifferente alla materia religiosa, e addirittura nullo in teologia. Il fatto di essere mercante, dico io, comportava una solida ignoranza in materia, cosa che ha permesso a Marco di scrivere il suo capolavoro, che peraltro non è proprio un’opera letteraria. Marco ha avuto comunque bisogno prima della collaborazione di un mestierante della penna come Rustichello, e poi, perché l’opera fosse legittimata dall’autorità religiosa e il Milione non fosse messo al bando come poco cristiano, dell’opera mediatrice dei Domenicani. Quest’ultima cosa è stata confermata dalla recente scoperta di una carta che ci fa vedere Marco, reduce non solo dall’Oriente ma ormai anche dal carcere di Genova, come testimonio nella chiesa veneziana dei Domenicani ai Ss. Giovanni e Paolo a Venezia nel 1323.
Per finire, saltando qualche altro punto, l’osservazione che irrita di più il lettore italiano è certamente quella sulla superiorità di Shakespeare su Dante, appoggiata all’apprezzamento di Widmann per la sua franca “amoralità” contro la smania di Dante di giudicare tutto e tutti, operazione in cui Dante si sostituisce volentieri a Dio. A me sembra che questa sete di giustizia di Dante, tinta di superbo soggettivismo, sia piuttosto un punto a sua favore, e sia l’argomento di Widmann a essere troppo soggettivo e troppo perentorio (perentorio: una parola che abbiamo già usato per Dante!). Vorremmo piuttosto ricordare che Dante e Shakespeare sono stati sollevati assieme sul proscenio della Weltliteratur dalla stessa grande ondata del Romanticismo, e che non è certo il caso di opporli oggi uno all’altro. Alcuni personaggi di Dante, come Francesca, Ugolino, Manfredi, sembrano proprio personaggi di Shakespeare scritti tre secoli prima. Cade qui a proposito un’osservazione di Eike Schmitt, ricordato prima, che accusa Widmann di avere smisurato culto di sé… perfino più di quanto ne aveva Dante.
Chi è Widmann?
Ma, possiamo chiederci, chi è Widmann? Qualcuno di importante nella stampa tedesca. In campo dantesco per niente un incompetente, e nemmeno uno che viva su ricordi di letture di passate. Lo abbiamo già visto dal fatto che almeno alcuni dei suoi passi trattano una materia tutt’altro che ovvia. Per esempio, quanti tra gli italiani colti conoscono il Libro della Scala e il preteso rapporto con la Commedia, a parte i dantisti di professione? Aggiungo che Widman cita due volte la Commeda in traduzione tedesca e lo fa dalle due versioni di Kurt Flasch e di Hartmut Köhler, le più recenti tra le 52 traduzioni complete della Commedia in tedesco fatte dal 1767 in qua. Questo semplice fatto, assieme ad altri, mostra che Widmann non è improvvisatore in materia, ma, salvo qualche piccola falla, qualcuno che se ne intende. Dagli scarsi dati biografici che si trovano in Internet, si legge che ha studiato Filosofia a Francoforte con Adorno (gli fa dire qualcosa a questo proposito anche Saviano), ma è facile pensare che abbia studiato anche e forse soprattutto romanistica, cioè lingue e letterature romanze. Nato nel 1946, Widmann, nel corso dei suoi studi, deve avere incontrato il Sessantotto, e si può immaginare che abbia partecipato attivamente a quel movimento (l’ho fatto anch’io, anche se sono un po’ più anziano di lui, e di carattere meno bellicoso), forse anche che sia stato uno dei capi. Scommetto su questa che è una pura ipotesi, e se sbaglio pazienza, me ne assumo la colpa. Ma noto in lui una certa carica eversiva e un anticonformismo che si riconoscono in molti di quelli che hanno fatto in seguito una carriera intellettuale. In Widmann è chiaro il contrasto permanente ai luoghi comuni, alle idées reçues. Lo dice lui stesso nell’intervista, quando ricorda di aver fondato a Berlino da giovane un giornale (e importante, la Tageszeitung) in cui lui e i suoi compagni “volevano scrivere articoli culturali pericolosi e divisivi”. Come fa anche adesso, a settantacinque anni suonati, su Dante che aveva cominciato a studiare da giovane!
Chissà che questo incidente non spinga qualche editore italiano a tradurre qualcuna delle sue opere, critiche o narrative, che ci faccia conoscere meglio questo autore che ha parlato male di Dante che ama, e che forse ama di amore scontroso anche noi, che non ce lo meritiamo.
C’è anche però qualcosa da dire che non riguarda solo Widmann, ma più in generale il modo di scrivere di argomenti letterari nei giornali e qualche volta anche nei saggi e nei libri. C’è un cambio di stile che si sta diffondendo, provenendo probabilmente dal mondo anglosassone, che ammette nel genere, prima serioso e patinato, come dicevo, espressioni irriverenti e rotture della linea argomentativa, scherzi verbali e ironie. Tratti che si trovano abbondantemente in Widmann, ma non solo in lui. Se non vogliamo perderci alcune delle cose migliori in materia, è bene che ci abituiamo. Non ci resta che cambiare le nostre attese di lettori. Anche Huss, su Facebook, rileva questo aspetto: “l’articolo di Widmann è stato scritto in uno stile retorico-giornalistico”, con “molti manierismi” (26 marzo). Questo tipo di cambiamento di stile non è ignoto in Italia, e ne cito un esempio recentissimo da uno scritto di Stefano Dal Bianco, docente e poeta, facendo i ritratti di Petrarca e proprio anche di Dante. Amandoli tutti e due moltissimo, comincia dal dire che il primo è “un maniaco ossessivo e non parla di niente, o sempre delle stesse quattro cose; è fissato”, mentre Dante, il nostro Dante che dovremmo difendere dagli attacchi tedeschi, è “antipatico”. Ma se andate avanti nella lettura troverete come si rovesciano le cose, e i due grandi poeti, se potessero, arrossirebbero dai complimenti (vedete che anch’io sto cominciando a adottare il nuovo stile?)[5].
Per chiudere con Widmann possiamo infine domandarci: le obiezioni, i dubbi, le idiosincrasie di Widmann riflettono quelle dei suoi compatrioti? Riflettono in qualche modo il sentire dei tedeschi in generale, oppure almeno dei tedeschi colti, eredi di quelli che due secoli fa hanno contribuito grandemente al revival di Dante in Europa nel mondo? Rispondo: no di certo, così come quelle di Saviano o di Odifreddi, di cui parleremo adesso, non rispecchiano la sensibilità generale degli italiani. Anzi semmai il contrario. Un giornalismo di punta, come è quello di questi tre, contiene quasi sempre un attacco alle opinioni correnti. Se no, non avrebbe ragion d’essere. Se l’articolo di Widmann contiene davvero almeno qualche grano di polemica contro Dante e contro noi italiani che ci identifichiamo troppo spesso con un Dante che è solo nella nostra immaginazione, dovremmo rallegrarci perché vorrebbe dire che i tedeschi a cui si indirizza amano ancora Dante, come fanno da più di due secoli, onorandolo la lettura e la scrittura, e amano almeno un po’ anche noi, nonostante i nostri difetti.
Infine, venne Odifreddi
In teoria a difesa di Widmann, ma in realtà senza riportare niente del suo articolo e esponendo solo le proprie idee, ha scritto a breve distanza anche Piergiorgio Odifreddi, con lo spirito manicheo che gli conosciamo[6]. Ma lo scontro non è tra Germania e Italia, ma tra scienza e letteratura.
Nel suo articolo Odifreddi ci offre prima di tutto alcune riflessioni amare sulla superficialità indotta dai social in tutti noi, ma soprattutto in Salvini e compagni, eccitati facilmente non dalla lettura di Widmann, che non hanno certo fatto, ma da riassunti di seconda mano, e poi sugli inizi veramente miseri delle celebrazioni di Dante nel DanteDì, in Quirinale e sulla televisione nazionale TG 1 (osservazioni sulle quali devo ammettere purtroppo di essere d’accordo). Disegna poi una storia irriverente della fortuna e soprattutto della sfortuna della Commedia attraverso i secoli (ed è vero che nel Rinascimento e nel Classicismo, poi nell’Illuminismo, Dante si è letto poco in Italia e per niente fuori, e se si è letto è stato per dire che era “di cattivo gusto”), ma la Rivoluzione romantica, che ne crea lo studio e il culto moderno, è ignorata da Odifreddi. Il cristianesimo di Dante, che considera astoricamente, gli è sgradito, e così l’aristotelismo e il tomismo, che Odifreddi parifica direttamente a quelli con cui si è scontrato Galileo. Odifreddi rischia così di condannare con Dante teologo interi secoli di storia che si sono svolti con quei referenti culturali. O meglio, è probabilmente proprio quello che vuol fare: cancel history! Quanto al presente, scrive che in Italia “la lettura di Dante è imposta surrettiziamente nelle scuole superiori di ogni ordine e grado … perché essa costituisce un surrettizio complemento dell’ora di religione”. Affermazione enorme, tanto più in quanto la accompagna lui stesso da riferimenti storici che ricordano che Dante fu “canonizzato” da Francesco De Sanctis, che la lettura della Commedia venne inserita nei programmi scolastici dal Ministro Mamiani (nel 1860-61, ancora nel regno di Sardegna? Qui ci deve essere qualcosa che non va). Forse Odifreddi vuole ricordare con questo, come succede spesso nelle vulgate anticlericali, che i laici fanno per debolezza il gioco dei più potenti avversari. Io vorrei ricordare invece che i quattro pilastri delle letteratura italiana, a centocinquant’anni dell’unità d’Italia, sono sempre quelli della Storia della letteratura italiana di De Sanctis: Dante, Machiavelli, Leopardi e Manzoni. Due cattolici, molti diversi tra di loro, e due laici (diciamo pure miscredenti). Nella scuola impariamo a non a opporli uno all’altro, ma a immetterli nella storia e nel pensiero del tempo, a capire le loro diverse concezioni. È la lezione che dobbiamo allo storicismo, il cui lascito sopravvive alla fine di questo movimento filosofico come scuola e tendenza. Ma Odifreddi non ci sta.
Nella conclusione del suo pezzo, inaspettatamente scrive: “leggiamo … ovviamente le parole di Dante, alcune delle quali sono indimenticabili, ma non dimentichiamo neppure che le sue idee sono figlie del suo tempo che non è più il nostro: dall’estero si vede facilmente, dall’interno forse no”.
Ma se “alcune delle parole di Dante sono indimenticabili” allora cosa vale quello che aveva scritto fino adesso? Siamo in piena palinodia, un genere medievale dal quale credevamo Odifreddi del tutto immune. Certo “le sue idee sono figlie del suo tempo”, scrive Odifreddi, ma allora non dobbiamo ascoltare i dantisti che non fanno altro che questo, ricollegare Dante alle idee e ai fatti del suo tempo? È da un pezzo che hanno cessato di essere “sacerdoti del culto di Dante”. Dante era un autore tutto medievale, e per capirlo dobbiamo diventare un po’ medievali anche noi, non modernizzare lui. È quello che hanno fatto i migliori dantisti, e tra questi agli inizi del Romanticismo proprio i tedeschi e gli inglesi. Anche queste sono storie vecchie, ma degne di essere lette.
Note
[1] Arno Widmann, “Göttliche Komödie“, Dante: Die Guten ins Töpfchen, die Schlechten ins Kröpfchen, [‘i buoni nel gozzo, i cattivi in padella’], in rete il 26 marzo:
https://www.fr.de/kultur/literatur/dante-die-guten-ins-toepfchen-die-schlechten-ins-kroepfchen-90259881.html.
[2] Il direttore degli Uffizi Eike Schmidt: “L’attacco a Dante è frutto di ignoranza”, “Il Giornale”, 26 marzo 2021: https://larno.ilgiornale.it/2021/03/26/il-direttore-degli-uffizi-eike-schmidt-lattacco-a-dante-e-frutto-di-ignoranza/
[3] Roberto Saviano, Dante Alighieri, la Germania non lo infanga: storia (e bugie) di un attacco inventato, in Il Corriere della sera, 29 marzo 2021: https://www.corriere.it/esteri/21_marzo_29/dante-tedeschi-non-infangano-storia-bugie-un-blitz-inventato-e1b2d902-8fea-11eb-bb16-68ed0eb2a8f6.shtml
[4] Lucia Conti, L’editoriale tedesco su Dante Alighieri: l’autore lancia frecciate e gli italiani rispondono a cannonate, in “Il Mitte”, 27 Marzo 2021: https://ilmitte.com/2021/03/leditoriale-tedesco-su-dante-alighieri-lautore-lancia-frecciate-e-gli-italiani-rispondono-a-cannonate/. Lucia Conti, che riassume in italiano e commenta l’articolo di Widmann, è la giovane direttrice della prima rivista elettronica in italiano a Berlino.
[5] Stefano Dal Bianco, Che cosa ci fa Petrarca, in Le parole e le cose, 3 aprile 2021: http://www.leparoleelecose.it/?p=41234. In coda al suo articolo, molti commenti osannanti di lettori, alcuni dei quali di suoi colleghi universitari.
[6] Piergiorgio Odifreddi, Dante non è poi così sommo, ma non ditelo ai dantisti, in “Domani”, 30 marzo 2021, p.13. Su Odifreddi “dantista” vedi Marco Grimaldi Il Paradiso taroccato. Piergiorgio Odifreddi, dantista, in “Le parole e le cose. Letteratura e realtà”, 19 ottobre 2015, e, proprio in risposta all’articolo recente su Dante, Alberto Casadei, Risposta a Piergiorgio Odifreddi. La forza dello stile di Dante non può essere contraffatta, in “Domani”, 8 aprile 2021 (il titolo riflette solo un aspetto dell’articolo, non il più importante per noi, e sembra riflettere quell’imperativo dell’elogio obbligatorio di Dante che ci augureremmo che abbia presto fine).
Articolo ripreso da http://www.leparoleelecose.it/?p=41351
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