"Se c'è una cosa positiva di questo strano articolo di Alberto Asor Rosa è il fatto che per la prima volta cita Il Gattopardo di Tomasi con una qualche positività in relazione ai famosi Plebisciti la cui legittimità è molto discutibile. Ci sono però alcune cose che andrebbero chiarite e che personalmente contesto di questo articolo. In primo luogo, la descrizione del garibaldinismo come di un fenomeno puro in grado di esaltare la popolazione è una visione deficitaria di alcuni elementi. Il bandito Garibaldi, si autoproclamò dittatore in Sicilia in nome e per conto di Vittorio Emanuele II fin da Salemi: ben Prima della battaglia di Calatafimi. Non c'è come vorrebbe far credere Asor Rosa una lungimiranza di Garibaldi dopo la sua impresa meridionale nell'attribuire al Re di Sardegna il possesso dell'Italia meridionale: c'è una continuità di azione che parte prima ancora dello sbarco in Sicilia e che viene costantemente ribadita. Garibaldi non fa azione per sé la fa a servizio di Torino. Quindi l'Unità d'Italia Non nasce colla congiunzione come scrive Asor rosa del garibaldinismo con l'ala moderata savoiarda. Nasce con la sottomissione del garibaldinismo in funzione strumentale dell'ala savoiarda. Anzi, peggio ancora: la popolarità di cui Garibaldi godeva servì a illudere le masse che qualcosa di nuovo potesse accadere, per esempio per la questione agraria in Sicilia. Cosa che non poteva accadere, e difatti non accadde, sapendo bene il demagogo in camicia rossa, che Vittorio Emanuele mai avrebbe concesso la spartizione delle terre demaniali, una proposta praticamente socialista, a vantaggio dei contadini. Con quella promessa Il traditore bandito Garibaldi si attirò la simpatia delle masse popolari, sapendo benissimo che le avrebbe tradito e abbandonato a ben altro destino, a Teano punto cioè a ciò che Teano rappresentò . Tra le altre cose che l'articolo dimentica c'è da ricordare che Garibaldi riuscì perché godeva di finanziamenti e di appoggi, non solo della massoneria, non citata, ma anche delle forze mafiose, non citate. Da Calatafimi in poi non ci fu la purezza di un ideale unitario come retoricamente il professore della Sapienza indica: ci furono appoggi trasversali, accetta tromba erano stati anche precedenti e furono successivamente sempre più rilevante. Inoltre non è esattamente vero che i garibaldini sfidarono forze soverchianti: le cosiddette forze soverchianti furono comprate con i soldi rapinati dalle avide mani dei Garibaldini dalle banche borboniche. Ultima e non secondaria cosa: non è vero che il mezzogiorno era la Borboneide. C'erano stati Moti antiborbonici nel 1848 e la Sicilia si era liberata per un anno dalla morsa della tirannide borbonica. E aggiungiamoci anche, perché pure questo è dimenticato da Asor rosa, che non fu la prima volta il 1860 il momento in cui da altre regioni, in questo caso regioni settentrionali, ci si spostò per fare propria una causa nazionale. Era già accaduto nel 1848 quando Tanti giovani e studenti dalla Sicilia e da Napoli erano andati al nord in Lombardia per combattere la causa, quella sì Democratica e Popolare di liberazione di indipendenza. Poi intervenne la la savoiarda che fece fallire Le istanze popolari. Teano non è una cosa diversa da Calatafimi. Calatafimi e Salemi furono preparate per raggiungere lo scopo siglato a Teano. Garibaldi fu il servo, lo strumento servile adoperato da Cavour e Vittorio Emanuele. Il Garibaldi che emana un decreto dittatoriale a Salemi, a parole elargendo la terra demaniale ai contadini è il peggiore politico, non un uomo puro d'azione, che la Storia d'Italia potesse avere in quel momento. Perché Cavour non sarebbe arrivato a tanto cinico sbilanciamento estremista contrario ai suoi principi politici liberali moderati: non avrebbe promesso ciò che sulla sua bocca sarebbe apparso assolutamente privo di credibilità. Garibaldi vendette la Sicilia al Giogo sabaudo con una promessa di libertà che sapeva che non poteva essere mantenuta." (B. Puleio)
LA REPUBBLICA
L'Italia nata a Calatafimi e morta a Teano
13 APRILE 2021
La battaglia in Sicilia e l’incontro con Vittorio Emanuele nel casertano sono i due punti cardine del completamento del processo unitario. Ecco perché avremmo ancora bisogno dell’ideale garibaldino
ALBERTO ASOR ROSA
Ma insomma: chi l’ha fatta questa Italia? Il numero di Robinson che era stato dedicato a questo tema (uscito il 13 marzo scorso), insinuava correttamente che si trattò di un corredo di forze diverse, e anche contrastanti fra loro. Le stesse che, ad un certo punto, quando si trattava di raccogliere i frutti di quel lavoro faticoso e molteplice, preferirono un incontro – magari faticoso e difficoltoso – alla continuazione, e magari all’approfondimento, dei rispettivi caratteri, talvolta molto differenziati.
Anni or sono, durante uno dei miei molti viaggi in Sicilia, mi spinsi verso l’estrema costa occidentale dell’isola e così m’imbattei nel paese di Calatafimi, nodo imprescindibile per chi voglia arrivare da Marsala, dove i Mille di Garibaldi erano sbarcati e Palermo, dove i Mille erano diretti, come tappa imprescindibile del loro viaggio.
Calatafimi è collocata su di una sella fra due colli, a occidente del bacino del fiume Freddo. La visita è utile per capire meglio, molto meglio, quello di cui tutti i libri parlano, ma un po’, com’è ovvio, astrattamente: per andare dalla costa verso il paese bisogna risalire un erto pendio, difficile da scalare anche in condizioni normali.
I Mille (poco più di mille, in realtà: forse 1047, forse ancora fra 1100 e 1200) lo fecero sotto il fuoco battente di una truppa borbonica, il doppio di loro, attestata su di una collina, denominata il Pianto di Romana, molto meglio armata, anche con artiglieria. E, dopo furiosi attacchi e contrattacchi, la costrinsero ad abbandonare la posizione e a lasciar loro libera la strada verso Palermo. Dopo qualche giorno, le truppe garibaldine entrarono in città, non senza altri furiosi combattimenti contro truppe soverchianti.
Nel cimitero di Calatafimi, a poca distanza dal paese, sorge una cripta dove sono raccolte le salme dei garibaldini morti durante quella battaglia. Mi soffermai a lungo di fronte alle file di quelle piccole lapidi. Sono 32 (pochi? beh, questo era il frutto, allora, di quel limitato volume di fuoco), cui vanno aggiunti (così dicono anche in questo caso i libri) sei-sette scomparsi nelle settimane successive per le ferite riportate in battaglia.
Inviterei il lettore a leggere con me i sintetici dati anagrafici riportati su quelle lapidi. Si tratta pressoché esclusivamente di soggetti settentrionali. Colpisce il numero dei caduti provenienti da Bergamo e da Brescia. Poi genovesi, altri lombardi, veneti, qualche torinese, piemontese, emiliano. Un solo siciliano. Considerazioni analoghe – non ho ombra di dubbio – si potrebbero fare per il resto del corpo dei Mille.
Età: venti-trenta anni (abbastanza, ovviamente). Ma anche veri e propri ragazzi. Un solo anziano (guarda caso: l’unico siciliano del gruppo, sarebbe interessante scoprire se c’è una relazione fra le due cose). Estrazione sociale: dalle lapidi non risulta, ma qualsiasi informazione relativa porta a rispondere: classi basse, operai, commessi, studenti (anche in questo caso considerazioni analoghe si potrebbero fare per il resto dei Mille).
Insomma: una marcata caratterizzazione settentrionale, classi basse, giovane età. Ovvero: l’impresa dei Mille poggia interamente sulla sollecitazione radicale rappresentata da Garibaldi e dal garibaldinismo, senza la quale questo volontariato, ristretto all’origine, ma molto, molto contagioso, non sarebbe neanche nato, e la Sicilia e l’Italia meridionale, ossia la “Borboneide”, non sarebbero neanche state messe a rischio.
Ora, quello che voglio dire è che per portare questa truppa di giovani settentrionali a mettere a rischio la loro vita in Sicilia, in nome dell’unità d’Italia – in nome dell’Italia! – ci volevano gli ideali e il garibaldinismo, altrimenti il meccanismo non avrebbe preso neanche a funzionare. Si poteva del resto pensare all’unità d’Italia, anzi – più esattamente – a un soggetto politico-statuale fino a quel momento sconosciuto ai più senza travalicare i confini del già noto e del già detto? Evidentemente non si poteva. Il compimento dell’opera fu la congiunzione fra le due spinte unitarie, quella moderata, piemontese e savoiarda, e quella radicale e garibaldina.
Nell’ottobre del 1860, Garibaldi indì i plebisciti per chiedere alle popolazioni meridionali se fossero disposte a riconoscere l’unità d’Italia sotto la sovranità del re Vittorio Emanuele II di Savoia. Le risposte furono pressoché universalmente positive. Il che indusse, molti anni più tardi, un insolito, alto scrittore aristocratico siciliano, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ad avanzare dubbi nel suo Gattopardo sulla regolarità della consultazione: altro aspetto della questione, che andrebbe sempre tenuto presente.
La sanzione definitiva del processo si ebbe quando il 26 ottobre (dunque, erano passati meno di sei mesi dallo sbarco di Marsala) Vittorio Emanuele II di Savoia e Giuseppe Garibaldi s’incontrarono (non casualmente, com’è ovvio) nei pressi di Teano, comune del casertano (ai confini settentrionali, dunque, di quella vasta terra liberata).
A quanto raccontano i testimoni (e gli storici), Garibaldi si sarebbe girato sul suo cavallo e avrebbe gridato: «Ecco il re d’Italia!». E i presenti (in gran parte accompagnatori del re) gli avrebbero fatto eco.
Così si potrebbe un po’ settariamente dire che l’Italia nasce tra Calatafimi – solo un esercito del tutto irregolare e “votato alla morte” avrebbe potuto affrontare e vincere quella battaglia – e Teano – solo una lungimiranza fuori del comune avrebbe potuto indurre il capopopolo fuori dagli schemi e altamente irregolare a riversare nelle mani di un sovrano il frutto della sua coraggiosa e fortunata impresa di liberazione.
Da queste due scelte deriva sostanzialmente ciò che siamo. Tutto bene. Peccato che (insinuo il dubbio) nella storia successiva d’Italia fino ai nostri giorni (sì, fino ai nostri giorni) ci siano state poche Calatafimi e una miriade di Teano.
ALBERTO ASOR ROSA
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