Le parolacce di Dante e quelle di Marx
Intervista. Federico Sanguineti, docente di filologia dantesca autore della prima lettura autenticamente marxista della Commedia.
Intervista a cura di Beatrice Andreose
È un testo filologicamente ineccepibile ma soprattutto è la prima lettura sociologica integralmente marxista quella che Federico Sanguineti, docente di Filologia italiana e Filologia dantesca all’Università di Salerno, ci regala nel suo ultimo volume Le parolacce di Dante (Tempesta editore, prefazione di Moni Ovadia). Una lettura della Divina Commedia che affronta a chiare lettere, nei quattordici brevi capitoli, l’uso da parte del poeta di parolacce come «merda», «puttana», «bordello» in continuità con quelle vergate nella Bibbia dove si incontrano di frequente termini come «stercora sua» o «puttana». È inevitabile poi che alle parolacce del poeta si aggiungano nei secoli successivi quelle dei copisti tantoché per il filologo il vertice poetico della nostra letteratura consiste in «un mix di parole e parolacce». Nell’inferno, a cui è destinata la società corrotta e borghese, le parolacce sono dominanti. Non così in Paradiso dove la proprietà privata è abolita e dove Beatrice, donna in carne e ossa, assegna a Dante un’altra voce. L’unico dantista citato nel volumetto è Karl Marx che ama e conosce Dante e, a sua volta, in una lettera indirizzata ad Engels il 2 aprile 1851 etichetta col termine «merda» l’intera economia politica.
Marx
dantista e Dante «materialista storico» antelitteram, in che
senso?
Marx
cita Dante a ogni piè sospinto, e lo pone in epigrafe anche nel
primo libro del Capitale.
A lui non sfugge che il poeta fiorentino manda all’inferno la
nascente società borghese, denunciandone il carattere diabolico,
infernale, patologico. Il viaggio dantesco, attraverso la società
corrotta dell’inferno, la società in transizione del purgatorio e
l’arrivo in paradiso (la società giusta dove la proprietà privata
è abolita), prefigura il percorso indicato da Marx, il passaggio dal
modo di produzione capitalistico, attraverso il socialismo (dittatura
del proletariato), fino al comunismo. Come non vedere che Beatrice,
che sulla cima del Purgatorio si presenta in modo dittatoriale, come
«ammiraglio», e impone a Dante di vergognarsi, lo prepara così,
rovesciando gli stereotipi di genere, al comunismo del
paradiso?
Merda
e bordello, parolacce in discreta quantità nella Divina Commedia.
Una appartenenza postuma alla classe sociale più povera o uno
sberleffo iconoclasta del poeta? Certo che dal tuo libro chi ne esce
un po’ maluccio è il Petrarca avvezzo a frequentare il Francesco
carrarese e che, come il suo signore, detesta qualsiasi
contaminazione con i proletari.
Dunque,
con ordine. Merda è
parola che Marx usa per definire l’economia politica borghese. La
stessa parola che ricorre più volte nella Bibbia e in Dante. Dante
si rifà al salmo 113, ‘In exitu Israel de Aegypto’ (che è il
paradigma ebraico della liberazione) e ai vangeli e agli atti degli
apostoli, che sono libri di regole economiche e di amore (secondo la
definizione di Alex Zanotelli). Gli apostoli, Dante e Marx hanno
comunque un solo obiettivo: l’abolizione della proprietà privata,
ossia la realizzazione di un paradiso in terra, un mondo dove le
parolacce sono un ricordo del passato. Quanto a bordello,
questa è semplicemente l’Italia, un paese storicamente occupato da
forze militari straniere, già prima di Dante (Longobardi e Carlo
Magno), dopo Dante (Francia o Spagna), fino ad oggi (le basi
americane). Quanto a Petrarca, di fronte a Dante, poveretto, è
patetico: lui, intellettuale aristocratico, ama una Laura borghese
(che non parla mai). Dante ha un altro modello di donna: una Beatrice
loquacissima, che dà a Dante diritto di cittadinanza («e sarai meco
sanza fine cive») e infrange l’obbligo imposto da San Paolo alle
donne, quello di non aver voce in capitolo, di non poter insegnare.
A
proposito di genere, tu scrivi anche e soprattutto di donne il cui
ruolo nella letteratura viene finalmente disvelato. A partire da
quella straordinaria Cristina da Pizzano, emigrata in Francia da
piccola, intellettuale che vive del suo lavoro ed autrice, a soli
cento anni dalla morte di Dante, di un’opera che rovescia al
femminile la cornice dantesca. Beatrice, inoltre, non risulta più
essere la donna «gentile» che ci hanno insegnato a scuola ma una
donna in carne ed ossa. Un ribaltamento radicale.
Le
undici sillabe più straordinarie di Dante sono «Guardaci ben, se
ben sè ‘n Beatrice». Qui il poeta è invitato a rendersi conto di
trovarsi in Paradiso, cioè di essere, alla lettera, «in Beatrice»,
compenetrato in lei. In nuce è già presente l’idea
dell’”«inleiarsi» che sarà con formidabili parasintetici
neologismi, ripresa nella terza cantica. Queste undici sillabe sono
insopportabili al gusto borghese e quindi manomesse dai copisti e
filologi i quali le leggono «Guardati ben! Ben sembri Beatrice
(errore congiuntivo di una famiglia di codici). Per fortuna la
lezione genuina è conservata dal ramo beta della tradizione:
Urbinate 366, Urbinate 365, Florio ed Estense. Nel paradiso terrestre
Dante è in Beatrice. Al funereo colpo di fulmine , di un amore «
che ratto s’apprende», perché irresistibile(«a nullo amato amar
perdona»), ovvero il top per l’estetica borghese, urge
contrapporre il punto di vista opposto, quello vitale di Dante che
celebra il piacere.
C’è
un punto specifico nella Commedia o in altre sue opere in cui Dante
pre «figura» una società comunista?
Tutto
il Paradiso è
una società giusta, dove non c’è più proprietà privata. Lo
spiega molto bene una studiosa americana, Joan Ferrante (Columbia
University), in un suo libro, The
Political Vision of the Divine Comedy,
mai tradotto in italiano.
Poiché
le anime brillano di più man mano che si avvicinano a dio, che ruolo
gioca questo ultimo nella società giusta?
In
paradiso ognuna e ognuno si avvicina a realizzare se stesso
umanamente, secondo i propri bisogni. Nella misura in cui ciò
accade, si intensifica il piacere, si gode di più, Beatrice brilla
di più: è la «dolce vita», un piacere indescrivibile. E in
paradiso la gerarchia è apparente. In realtà, spiega Beatrice a
Dante, non c’è gerarchia. E non c’è patriarcato: Dio non è
padre, neppure nella preghiera conclusiva a Maria: «Vergine madre,
figlia del tuo figlio». In Petrarca, nella poesia che chiude
il Canzoniere,
Dio padre ritorna invece in piena regola.
Ritorniamo
alle parolacce, i copisti nel corso dei secoli hanno spesso
modificato il testo originario. Lo chiedeva la controriforma ma anche
prima il testo di Dante viene spesso disatteso. Ora è conosciuto
come il sommo poeta. Strano destino il suo.
Immediatamente
dopo la morte di Dante, il suo Poema è diventato un bestseller. I
borghesi fiorentini hanno fiutato l’affare e hanno prodotto
centinaia di copie manoscritte per un pubblico borghese.
Quest’ultimo, ancora oggi, si identifica coi personaggi
dell’inferno censurando tutto il resto (salvo questa o quella
terzina «poetica») come «non poesia» o «struttura», cioè come
elementi secondari liquidabili come «teologici» e «medievali».
Ma, a parte il fatto che il medioevo non è mai esistito (è una
categoria ideologica eurocentrica), ed è esistito invece il modo di
produzione feudale, occorre dire che Dante non è un teologo della
conservazione, ma un teologo della liberazione al pari di Gioacchino
da Fiore, dunque un teologo (come Tommaso Campanella) che anticipa
Marx.
Articolo ripreso da IL MANIFESTO ALIAS del 17 aprile 2021
Nessun commento:
Posta un commento