20 aprile 2021

CONTRO IL MITO DELLA PUREZZA. Sulle traduzioni, da W. Benjamin a Borges

 



E’ uscito il numero 2 di “Filigrane. Culture letterarie”,  rivista semestrale, suddivisa in cinque sezioni (Testimonianze, Saggi e scritture, Testi, Recensioni e rassegne, Notizie bio-bibliografiche), che si ispira al concetto di pluralità, intendendo per essa l’apertura alle culture nazionali e internazionali, all’intersezione tra le discipline, all’indagine sulle stratificazioni che i testi e i documenti letterari recano in sé, in un arco temporale che va dall’antichità all’età contemporanea. Dal numero attuale, dedicato al tema “Traduzioni e tradimenti”. riprendiamo dal sito  http://www.leparoleelecose.it/?p=41391 il saggio di Luca Illetterati


WHO IS AFRAID OF TRANSLATION? CONTRO IL MITO DELLA PUREZZA

di Luca Illetterati

 

[E’ uscito il numero 2 di “Filigrane. Culture letterarie”,  rivista semestrale, suddivisa in cinque sezioni (Testimonianze, Saggi e scritture, Testi, Recensioni e rassegne, Notizie bio-bibliografiche), che si ispira al concetto di pluralità, intendendo per essa l’apertura alle culture nazionali e internazionali, all’intersezione tra le discipline, all’indagine sulle stratificazioni che i testi e i documenti letterari recano in sé, in un arco temporale che va dall’antichità all’età contemporanea. Dal numero attuale, dedicato al tema “Traduzioni e tradimenti”. riprendiamo qui il saggio di Luca Illetterati]

 

1. Lingua

 

La traduzione, si dice, è tradimento.

In realtà, a seguire Walter Benjamin, non ogni traduzione lo è. È un tradimento – la traduzione – solo se ciò che viene tradotto è un testo che non può essere ridotto al suo contenuto comunicativo. La traduzione è un tradimento, detto diversamente, solo se nel testo che viene tradotto la lingua non è semplicemente uno strumento chiamato a veicolare un contenuto che, in una tale prospettiva, è e rimane altro da essa; ovvero, detto diversamente, solo se nel testo tradotto la lingua conta. La traduzione è dunque tradimento, secondo Benjamin, solo se è davvero una traduzione, vale a dire solo se la lingua del testo tradotto è davvero una lingua e non un mero codice e veicolo di comunicazione.

 

La lingua, peraltro, secondo Benjamin, non è mai solo uno strumento di comunicazione di un contenuto esterno alla lingua stessa, in quanto ciò che essa comunica è, in effetti, «l’essenza spirituale che le corrisponde»[1]. Questo non significa che ci sia da una parte un’essenza spirituale e dall’altra una lingua che se ne fa carico: «è fondamentale sapere – scrive Benjamin – che questa essenza spirituale si comunica nella lingua, e non attraverso la lingua»[2]. In questo senso, «ogni lingua comunica se stessa»[3], ogni lingua, cioè, insieme plasma ed è plasmata dall’essenza spirituale che essa incarna e allo stesso tempo costituisce. Ritenere che la lingua sia un mezzo attraverso cui, appunto, si porta ad espressione un’essenza spirituale, o comunque un contenuto che sta al di là di essa, significa muoversi dentro quella che Benjamin chiama la concezione borghese della lingua. Tale concezione dice «che il mezzo della comunicazione è la parola, il suo oggetto la cosa, il suo destinatario un uomo»[4]. Nella concezione borghese, dunque, la lingua è un mezzo a disposizione dell’umano, qualcosa che l’umano utilizza per comunicare qualcosa che sta al di là della lingua e che è in certo modo indifferente rispetto ad essa. In tale concezione la lingua è, appunto, un mezzo di trasporto, il quale, come accade perlopiù ai mezzi, è di fatto indifferente alla natura del materiale che trasporta.

 

In una tale prospettiva – nella prospettiva della concezione borghese, che implica che il contenuto sia separato dalla forma, dalla materia e dal corpo in cui esso si esprime ed esiste – la traduzione non è in fondo un problema. O per meglio dire, è solo un problema tecnico, un problema, cioè, che ha a che fare con la difficoltà e la conseguente abilità di trovare i segni adeguati a un certo contenuto che è espresso in un’altra lingua con segni diversi. Una tale traduzione – quella che cambia i segni di una lingua con i segni di un’altra per dire un contenuto che rimane in questo passaggio identico – non si espone al pericolo del tradimento. Si tratta solo di trovare il segno corrispondente, il corretto sostituto, la funzione equivalente[5]. Questo tipo di traduzione non è un tradimento perché essa nemmeno è, a ben vedere, una traduzione. Là dove è possibile senza difficoltà alcuna passare dai segni di una lingua ai segni di un’altra lingua la traduzione è di fatto semplicemente un’opera di sostituzione. Se in ciò che traduciamo però la lingua conta, per cui ciò che viene detto non abita fuori della lingua, ma è ad essa impastato, la traduzione non può che apparire come strutturalmente impossibile. Se ciò che viene detto, viene detto nella lingua, e non semplicemente attraverso essa o per suo mezzo, dirlo diversamente significa giocoforza tradirlo. Ed è solo qui, a ben vedere, che si ha traduzione.

 

La traduzione trova la sua più intima condizione di possibilità proprio nella sua impossibilità[6]. È la consapevolezza che ciò che viene detto all’interno di un sistema linguistico non è mai del tutto dicibile all’interno di un altro sistema linguistico ciò che rende necessario il lavoro della traduzione, ciò che fa della traduzione un’attività mai riducibile alla meccanicità data una volta per tutte di una sostituzione tra segni equivalenti. Solo se si pensa la parola fuori dalla concezione borghese della lingua, ovvero solo se si pensa che ciò che la lingua dice si costituisce nella lingua stessa, assume corpo insieme alla lingua ed è dunque inseparabile da essa, la traduzione, nella sua impossibilità e nel suo esporsi necessariamente al tradimento, è davvero una traduzione.

 

Ciò è evidente nella traduzione di un’opera d’arte. Seguiamo ancora per un attimo Benjamin. Nel saggio dedicato a Il compito del traduttore Benjamin si chiede e ci chiede: «che cosa “dice” un’opera poetica? Che cosa comunica?». La risposta di Benjamin è molto netta e per molti versi anche sconcertante: «assai poco, a chi la comprende»[7]. Come a dire che l’opera comunica un contenuto solo se non la si comprende. Ovvero, ancora, che cercare di isolare il contenuto comunicativo in un testo poetico (e in generale in qualsiasi opera d’arte) separandolo dalla struttura in cui esso si costituisce significa leggerlo al di fuori della sua poeticità, ovvero al di fuori del suo essere ciò che è. Pensare al contenuto comunicativo di un’opera poetica significa cioè non leggerla in quanto testo poetico, ma rivolgersi al testo poetico in quanto contenitore di informazioni. Il che significa, che, leggendo ad esempio L’infinito di Leopardi, colui che è interessato al contenuto comunicativo del testo penserà che il componimento gli dica che c’è una collina che all’autore sta molto a cuore, così come gli sta a cuore la siepe che pure gli impedisce di vedere chiaramente ciò che sta al di là di essa; che proprio a causa di questo ostacolo l’autore può immaginarsi degli spazi straordinariamente estesi al di là della siepe e che questo pare procurargli un senso di quiete e smarrimento; non appena però il soggetto che parla sente il vento frusciare tra le foglie delle piante, egli si trova a confrontare quel silenzio al rumore del vento e in questo gli viene in mente l’eternità, il tempo passato e la stagione presente; in questa situazione, infine, l’autore avverte il suo pensiero sprofondare e annegare nell’immensità immaginata avvertendo tuttavia, in questo, un sentimento di dolcezza. Questo “dice” L’inifinito di Leopardi, questo è il suo contenuto comunicativo. E tradurre ciò che dice non è affatto impossibile.

 

Il problema è che nella prospettiva benjaminiana il contenuto comunicativo è l’inessenziale di un’opera poetica, la quale dice sé stessa nella lingua e non attraverso la lingua. Come a dire che ciò che dice la poesia è nel suono, nel ritmo, nella capacità di un fonema di rinviare al di là di ciò che esso dice e allo stesso tempo, in questo rinvio, di rivelare il senso di ciò che viene detto.

Ovviamente, la poesia, si dice, è un caso eccezionale. In realtà, secondo Benjamin, solo qui la lingua è davvero se stessa. Anzi la poesia è il luogo nel quale la lingua, rivelandosi come irriducibile alla funzione che ad essa viene imposta dalla concezione borghese, si mostra per ciò che essa è. Per Benjamin – come ha evidenziato Saša Hrnjez – nella lingua l’inteso, ciò a cui la parola rimanda, non è mai autonomo, non lo si può mai incontrare da solo, ma è sempre mediato da un certo modo di intendere. Per questa ragione sarebbe sbagliato dire che qui l’inteso sta per qualche oggetto extralinguistico, per un denotato che rimane sempre uguale a se stesso; l’inteso risiede semmai nella totalità delle differenze date nei modi di intendere[8].

 

Solo all’interno di questo orizzonte la lingua comunica l’essenza spirituale che le corrisponde, perché è solo dentro questo modo di intendere la lingua che si viene a costituire qualcosa come un’essenza spirituale. Fuori da questa idea ci sono solo contenuti che si pretendono del tutto indipendenti dalla lingua e dunque ad essa indifferenti: una lingua intesa come mezzo di trasporto di qualcosa che le è strutturalmente estraneo. Fuori cioè dalla visione “vera” della lingua, c’è, secondo Benjamin, l’ideologia che pensa che i contenuti siano del tutto altri rispetto alle forme che li manifestano e che queste forme siano in realtà niente più che uncini che servono ad arpionare contenuti già dati e costituiti al di fuori della loro elaborazione linguistica.

 

2. Impossibilità

 

La traduzione è dunque davvero tale solo se è impossibile. Solo in questa sua impossibilità essa trova, come si è detto, la sua necessità. Se la traduzione non fosse di principio impossibile non si darebbe la necessità della traduzione, o per meglio dire, la traduzione sarebbe semplicemente la soluzione ad un problema; soluzione che una volta trovata sarebbe data una volta per tutte. E invece la traduzione – se di traduzione si tratta – non è mai data una volta per tutte. Se il testo è un testo in cui la lingua conta, non solo ogni traduttore tenderà a tradurre diversamente, ma anche ogni epoca leggerà diversamente il testo e lo tradurrà perciò diversamente. Se un testo non si espone ad una effettiva pluralità traduttiva è evidentemente un testo che è riducibile al suo contenuto comunicativo, ovvero, radicalizzando, non è di fatto un testo. Il testo, se è un testo dove la lingua conta, ovvero se è un testo, può e deve essere tradotto sempre diversamente. Anzi esso sopravvive come testo – e qui è ancora Benjamin che ci fa da guida, con la sua idea della traduzione come sopravvivenza (Überleben e Fortleben) dell’originale[9] – proprio grazie al suo sempre differente risuonare.

 

Si pensi, in questo senso, al mito dei Settanta, ovvero al racconto relativo alla genesi di quel testo fondamentale per tutto l’occidente che è la traduzione greca della Bibbia ebraica[10]. Un racconto che è evidentemente tutto teso a negare il carattere, per l’appunto, traduttivo di questa traduzione. E, in questa direzione, si pensi soprattutto al particolare decisivo che Filone di Alessandria, raccogliendo narrazioni che si erano diffuse in ambienti ebraici, aggiunge rispetto a quanto narrato nella Lettera di Aristea. Se nella Lettera il carattere divino della traduzione è sostenuto su un dato essenzialmente quantitativo – settantadue diversi esperti (ovvero sei per ciascuna delle dodici tribù di Israele) furono chiamati a tradurre dall’ebraico al greco il testo biblico e lo fecero attraverso un lavoro di mediazione collettivo in settantadue giorni, quasi ci fosse un disegno, ovvero in uno spazio di tempo quasi impossibile per l’epoca, implicando la traduzione di più di mille parole ebraiche al giorno – nel testo di Filone tale carattere è sostenuto da una impossibilità molto più radicale: malgrado ognuno dei traduttori abbia agito autonomamente e separatamente da ogni altro, ciascuno di essi, ciascun traduttore, produsse lo stesso identico risultato, e cioè settantadue testi tra loro perfettamente identici: «come se fossero posseduti dalla divinità profetarono non chi una cosa chi l’altra, ma tutti usarono le stesse parole e le stesse frasi, come se un suggeritore invisibile facesse risuonare la sua voce alle orecchie di ciascuno di loro»[11]. È evidente che ciò che la leggenda vuole esorcizzare è dunque nient’altro che l’evento traduttivo stesso[12]. Se i Settanta hanno infatti tradotto tutti nello stesso modo, usando tutti le stesse parole e le stesse forme sintattiche, questo significa che il testo che essi hanno prodotto non era propriamente una traduzione, ma era parola di Dio allo stesso modo in cui lo era il testo ebraico che erano stati chiamati a tradurre. L’omogeneità traduttiva, che annulla la pluralità delle sensibilità, la molteplicità degli stili, l’idea stessa che fosse possibile una scelta e una decisione all’interno di opzioni differenti, intende negare la strutturale finitezza che è connessa al tradurre, il suo essere sempre situata, sempre immersa nel tempo e nella storia, sempre esposta alle contingenze di un mondo che non è mai identico a se stesso.

 

Il mito dei Settanta, e con esso l’ideale della traduzione perfetta, è la negazione del concetto stesso di traduzione, ovvero la negazione della storicità e della finitezza, ovvero di una condizione che è necessariamente connessa alla traduzione e al modo d’essere di quegli animali parlanti che sono gli umani[13].

 

3. Pericolo

 

Ogni traduzione – se è davvero una traduzione – disloca il senso, lo ridetermina, lo de-forma. Rilocalizzandolo, la traduzione conduce il testo altrove, lo pianta dentro un terreno nuovo e diverso, dove assume declinazioni cromatiche nuove e inedite, perlopiù inattese e talvolta persino perturbanti. È questo che rende secondo Heidegger terribilmente pericolose le traduzioni. Egli sostiene infatti che, per quanto la si pretenda letterale – e quindi per quanto la si pretenda garantita attraverso tutte le possibili tecniche e cautele filologiche e attraverso tutte le indagini etimologiche e lessicali –, la traduzione da una lingua a un’altra implica sempre un salto, ovvero un attraversamento necessariamente privo di garanzie di mondi vitali che rischiano, in questo passaggio, di rimanere per sempre segnati e violati in quella che era la loro originaria integrità: «Si tratta di una peregrinazione (Irrfahrt), che perlopiù si conclude con un naufragio (Schiffbruch). In questo ambito del tradurre tutte le traduzioni risultano più o meno cattive, ma comunque sempre cattive»[14]. La traduzione conduce infatti la parola fuori dell’orizzonte di senso all’interno del quale essa assume significato e si accompagna perciò sempre a una violenza, la quale è evidentemente insita alla sua stessa natura. La traduzione non è mai, per Heidegger, semplicemente un mero cambio di codice, un’operazione di pura sostituzione di un apparato linguistico, come se tale apparato fosse del tutto indifferente rispetto a ciò che esso è chiamato ad esprimere.

 

Che la pratica traduttiva sia una pratica essenzialmente ed intimamente pericolosa è tema costante della riflessione heideggeriana. E la cosa è tanto più significativa quanto più si è consci che la filosofia di Heidegger è segnata dall’inizio – dai primi lavori su Duns Scoto e soprattutto su Aristotele – alla fine – si pensi al pensiero rammemorante che si rivolge al primo inizio del pensiero presso i Greci – da un incessante esercizio traduttivo. L’essere ‘pericolosa’ della traduzione emerge in prima istanza ogni qualvolta ci si confronta con le parole decisive della Grecità. In cosa consiste il pericolo? Consentendo «di dire nella lingua che ci è familiare (…) la parola greca»[15] la traduzione ci illude di aver compreso quella parola, di averne afferrato il significato e dunque, attraverso questa appropriazione, di averla pensata. In realtà, sostiene Heidegger, la traduzione non garantisce proprio nulla. Dire le parole greche con la nostra lingua, e dunque attraverso la base semantica che sorregge l’uso odierno di quelle parole, rischia semmai di portare al più radicale dei fraintendimenti. Pensare le parole di una lingua attraverso le parole di un’altra lingua tende infatti a eliminare la peculiarità delle esperienze che si depositano nelle lingue, a diluire la dimensione culturale specifica di cui le parole sono l’espressione, ad appiattire dentro il modo di pensare della lingua di arrivo il mondo vitale di cui la lingua d’origine è la testimonianza[16].

 

4. Differenza

 

Prendere sul serio la radicale impossibilità della traduzione e pensare tale impossibilità come ciò che rende di fatto possibile la traduzione, significa prendere sul serio l’idea secondo la quale ogni traduzione, se è davvero una traduzione, è sempre anche un necessario tradimento. Non esiste traduzione, infatti, che non lasci dietro di sé un residuo, un non tradotto. Ma questo tradimento appare come una ‘sconfitta’ solo se si assume come ‘vittoria’ la possibilità della perfetta adeguazione di una lingua a un’altra, ovvero se si nega il carattere spirituale della lingua, il suo essere sempre l’espressione di un’esperienza che la storia ha depositato in essa[17]. Prendere sul serio l’impossibilità della traduzione significa invece pensare quella sconfitta come l’unica via d’accesso a quel residuo e a quel resto intraducibile, i quali vengono esperiti come tali, come residuo e come resto, proprio nella loro impossibilità ad essere tradotti. Secondo Benjamin la traduzione – che è qui da intendersi come l’attività del tradurre – è l’unico ‘luogo’, l’unica ‘dimensione’ nella quale abbiamo la possibilità di fare esperienza della lingua pura, ovvero di quella «affinità metastorica delle lingue», per cui «in ciascuna di esse, presa come un tutto, è intesa una sola e medesima cosa, che tuttavia non è accessibile a nessuna di esse singolarmente, ma solo alla totalità delle loro intenzioni reciprocamente complementari»[18]. Nella traduzione, infatti, ogni lingua riconosce il proprio limite e riconoscendolo e facendone esperienza anche lo trascende. Accennando nel suo stesso essere a ciò che sta al di là di essa, ovvero a quell’intraducibile che in essa viene esperito proprio nella sua inafferrabilità e indomabilità, la traduzione è, secondo Benjamin, esperienza della lingua pura, ovvero della possibilità, mai data in concreto, ma sempre presente, dell’appartenenza delle lingue a un medesimo che ciascuna esprime però diversamente. Una lingua, la lingua pura, che non può essere a sua volta una lingua determinata, perché se fosse una lingua determinata si porrebbe sullo stesso livello su cui si pongono tutte le lingue storiche e sarebbe perciò espressione di un’esperienza e di una differenza specifiche e particolari.

 

La traduzione è questo duplice carattere: da una parte inevitabile tradimento, ovvero allontanamento o addirittura perdita; dall’altro, proprio attraverso il medesimo differimento – e cioè non malgrado il tradimento, ma attraverso il tradimento[19] – anche produzione di senso, accrescimento continuo dei significati; e dunque tradizione. Ovvero, leggendo ancora diversamente questa duplicità: se da un lato la traduzione può apparire come il folle tentativo di fare l’altro proprio o viceversa di alienare totalmente il sé nell’altro, essa si rivela in realtà sempre, nella sua pratica, come il luogo nel quale è possibile fare un’esperienza dell’alterità che è sempre, allo stesso tempo, un’esperienza mai risolta di incontro e di separazione. Pur perseguendo quello che è stato chiamato «il disegno perverso» di sopprimere la differenza con l’altro[20], l’attività del tradurre, si mostra infatti, a un tempo, come il luogo per eccellenza nel quale si ha la possibilità di fare esperienza della differenza e di renderla in certo modo presente, nella sua inafferrabilità, proprio come differenza. L’atto della traduzione, dunque, proprio in quanto è caratterizzato da una sorta di impossibilità di principio, proprio in quanto non può mai annullare in sé la peculiarità dell’altro, è l’atto nel quale l’altro si rivela nella sua irriducibilità. La traduzione non è in questo senso solo l’esperienza che manifesta al soggetto le limitazioni del proprio mondo linguistico, ma è anche l’esperienza che lo pone sul limite di questo suo mondo e dunque in uno spazio di apertura nei confronti di un’alterità che tuttavia non può mai essere assorbita e ridotta al proprio mondo. Il limite, infatti, per la sua stessa struttura è quel principio in cui ciò che esso determina, viene trasceso e viene esposto così alla possibilità dell’incontro con l’altro[21].

 

Proprio in quanto vive nella differenza dei linguaggi, la differenza è ciò che fonda la traduzione, il luogo dal quale la traduzione assume vita e riceve senso. Ma contemporaneamente essa è il luogo nel quale questa differenza – ovvero l’alterità dell’altro – si fa esperienza.

Questo duplice carattere della traduzione, il suo essere insieme perdita e guadagno, non è mai risolvibile a favore di uno dei lati nella cui tensione la traduzione vive, perché l’oscuramento di un elemento o dell’altro costituirebbe comunque una forma di oblio di quella finitezza che fonda la possibilità stessa della traduzione e che la traduzione, nella sua struttura, svela e porta a manifestazione.

 

5. Vita

 

Il tradimento è un pericolo, ma è un pericolo vitale; un pericolo, cioè, che è connesso al fatto che ciò che è vivo è sempre esposto, sempre aggrovigliato all’esperienza minacciosa – come lo è sempre l’esperienza – del mondo e del tempo. Certo, la traduzione, quando è una vera traduzione, necessariamente tradisce. Senza tradimenti, però, non c’è storia, non c’è tradizione, non c’è cultura, non c’è vita.

traditores erano, nel II secolo dopo Cristo, quei cristiani che consegnavano i testi sacri alle autorità romane come segno di resa e dunque di allontanamento dalla fede. Con quel tradimento, perciò, i testi sacri uscivano dai circoli ristretti e segreti delle piccole comunità e si insinuavano dentro una cultura altra, inoculandola e innervandola di una differenza intrinsecamente trasformativa. L’ambiguità del tradimento, la sua duplicità, è già nella parola che lo dice: il verbo latino trādĕre rimanda infatti tanto alla consegna delle armi da parte del nemico sconfitto o alla consegna di qualcuno nelle mani della giustizia, quanto anche al dare in eredità un bene o al tramandare qualcosa come una tradizione.

 

Traduzioni e tradimenti sono atti nei quali si rivela dunque tutta la complessità del modo d’essere degli umani, la loro inaggirabile duplicità, la struttura sempre in fieri delle relazioni dentro cui si inscrivono le loro vite, il loro non essere mai – quelle vite – decise una volta per tutte. Il tradimento, ovvero quel gesto che viene avvertito come il più vile ed odioso da chi è tradito, può infatti rovesciarsi, se letto con gli occhi del futuro o magari anche solo da una prospettiva laterale, in gesto eroico, in sacrificio, in atto di coraggio che può produrre conseguenze del tutto inattese, come l’epifania di un nuovo che avanza sullo sgretolamento del vecchio. Dietro la paura dei processi traduttivi c’è evidentemente una mitologia dell’origine e della purezza che è di fatto la negazione dei processi trasformativi che costituiscono tutto ciò che è storico, tutto ciò che è vitale, tutto ciò che è culturale. Non è un caso, da questo punto di vista, che colui che è entrato nella cultura e nell’immaginario occidentale come il simbolo stesso del tradimento – Giuda – sia uno dei personaggi che proprio per la sua straordinaria e umanissima ambiguità ha attirato da sempre l’attenzione della letteratura e di quella novecentesca in particolare. Si pensi all’incipit del romanzo di Lanza del Vasto pubblicato da Laterza nel 1938:

 

Perché colui che vedeva nel petto della gente i pensieri nuotare come pesci in un boccale, volle tenerselo accanto fino all’ultimo? Non aveva Gesù nemici a sufficienza? Perché Giuda era uno di noi[22].

 

Giuda, il traditore, è uno di noi perché è l’uomo colpevole che si dispera e si dà alla morte per avere cercato una libertà che lo sciogliesse dalla dipendenza dal maestro.

Jorge Luis Borges in Tre versioni di Giuda – racconto del 1944 contenuto in Finzioni e nel quale si discute di un testo immaginario di un altrettanto immaginario teologo svedese denominato Nils Runeberg – fa addirittura del traditore il vero figlio di Dio. Per salvare gli umani Dio si sarebbe infatti abbassato fino all’infamia, alla dannazione e all’abisso, ovvero fino a fare l’esperienza estrema del male e del tradimento di sé[23].

 

Nel romanzo che scrive poco prima di morire nel 1978, La gloria, Giuseppe Berto fa di Giuda un uomo che deve tradire per una necessità superiore, ovvero, anche qui, perché il disegno si compia: Gesù deve morire per salvare gli uomini e Giuda è la vittima sacrificale che deve portare a realizzazione ciò che ha da essere[24].

La prospettiva radicalmente esistenziale di Berto viene in parte ripresa nel Giuda di Amos Oz, pubblicato nel 2014[25]. Romanzo che non ha tanto in Giuda Iscariota il suo protagonista, quanto piuttosto – nel nome di Giuda – l’ambiguità stessa del tradimento. Certo, uno dei protagonisti del romanzo impegnato nella scrittura di una dissertazione sulla visione ebraica della figura di Gesù parla di Giuda come del primo e ultimo – e forse a ben vedere dell’unico – cristiano. Giuda infatti, avrebbe avuto fede nella divinità di Gesù più di quanto non ne avesse Gesù stesso e aveva perciò provocato la morte di Gesù come l’evento nel quale il Cristo avrebbe rivelato al mondo, con un gesto impossibile, la sua divinità.  Il Giuda di Oz può in certo modo perciò essere letto anche come una sorta di elogio del tradimento. Perché solo chi tradisce, ha detto una volta Oz in una conversazione con Wlodek Goldkorn, è capace di cambiare se stesso e il mondo[26].

 

6. Esistenza

 

Nel 2015, Jonathan Franzen ha pubblicato un romanzo che ha un titolo particolare: Purity[27].

Purity Tyler, detta Pip, è il nome della protagonista, la quale non conosce la sua vera identità: sua madre non vuole rivelarle chi è suo padre, l’uomo dal quale è fuggita prima che Pip nascesse. Pip, che ha un debito studentesco da ripagare e vive in una casa occupata a Oakland, frequentata da un gruppo di anarchici, vuole però far luce su questa sorta di fondo oscuro che la costituisce. In questo senso è decisivo l’incontro con Andreas Wolf, un rivale di Julian Assange, perché Pip spera attraverso tecniche di hackeraggio di giungere a svelare il segreto. Ma anche lo stesso Andreas vive dentro un segreto terribile. Solo che, mentre Purity vuole svelare il segreto a lei sconosciuto, Andreas non vuole affatto svelare il suo.

 

È evidente che il nome della protagonista che dà il titolo al romanzo non è affatto casuale. Purity è infatti anche il nome di un’ossessione che caratterizza il mondo contemporaneo; un’ossessione onnipervasiva e profonda sorretta da una retorica del bene che può in ogni momento rovesciarsi nel suo contrario. Un’ossessione che il Novecento sembra aver lasciato in eredità a questo nuovo secolo per molti versi illeggibile e diafano: l’ossessione per la purezza, per la trasparenza, per la cancellazione della macchia. Un’ossessione che si porta dietro l’idea che si debba tendere verso una dimensione intonsa e incontaminata dell’esistenza; che una vita candida esposta alla luce sia il valore verso cui tendere, e che anzi purezza e candore rappresentino l’abito etico che dobbiamo indossare per essere adeguati alle nuove forme della società contemporanea, a questo mondo che fa della trasparenza, appunto, il suo riderimento supremo, il dio da tutti invocato e adorato e a cui, come in effetti si deve a un dio, tutti si prostrano. Ciò che Franzen sembra mettere in scena in Purity sono i modi attraverso i quali le più diverse esistenze che abitano l’universo per molti aspetti idealtipico dentro cui si svolge la vicenda, pretendono di crearsi una sorta di innocenza, una forma di immacolatezza e illibatezza che li liberi dalle colpe che pure sono all’origine dei loro modi d’essere. Se c’è in effetti un’espressione che ricorre quasi compulsivamente dentro quel romanzo, essa è proprio ‘senso di colpa’. Tutti i personaggi sono intimamente segnati dal senso di colpa e tutti rispondono, con le loro vite, a una colpa che in effetti li costituisce per ciò che concretamente sono. Anzi: ciascuno di loro è una traiettoria specifica determinata dalle modalità di reazione alla colpa: c’è chi la nasconde a se stesso prima ancora che agli altri, c’è chi la dissimula, chi la sublima, chi la nega, chi la irride, chi proprio non la sopporta e non la sostiene. Ma nessuno ne è immune. E non può esserlo, perché nessuna esistenza, nemmeno la più banale, è pura.

 

L’esistenza, per essere, è già da sempre macchiata del fango del mondo, dei detriti della storia, degli umori e delle spinte degli altri con cui siamo, fin dal nostro primo respiro, in relazione. Purezza, innocenza, trasparenza, sono alcune delle forme più invasive della hybris contemporanea. La pretesa degli umani di questo tempo di cancellare le ombre, di mettere tutto sotto la luce chiara e calda del sole o quella gelida del neon è, infatti, una forma di radicale disconoscimento dell’umano stesso, il tentativo blasfemo di liberarsi di ciò che costituisce l’esistenza finita che siamo, di cancellare il nostro provenire da una storia non scelta e non decisa.

Nella società trasparente, nella società che fa della trasparenza assoluta il proprio ideale, non c’è spazio per il tradimento. E non c’è dunque spazio nemmeno per le traduzioni, per quell’esercizio che deve assumersi il peso del tradimento e perciò della violenza che è sempre connessa al tradimento per far sopravvivere la parola dentro un altrove nel quale essa può dar luogo a una vita nuova, inattesa, inaudita. Le traduzioni, nel mondo della trasparenza – e dunque della vergogna della macchia – vengono affidate a un algoritmo fuori di noi che è chiamato a gestirle, a farsene carico, a cancellare l’esperienza della differenza che la traduzione impone e la necessaria ibridazione che essa implica.

 

Niente traduzioni e niente tradimenti, dunque; ma il mondo che si costruisce sulla negazione della possibilità del tradimento è anche, al contempo, come ha ben mostrato Avishai Margalit[28], l’annullamento stesso dell’umano, lo sfaldamento del tessuto etico dentro il quale si svolgono e assumono senso le nostre vite. Un mondo puro, senza tradimento, senza traduzioni, o per meglio dire in cui le traduzioni sono sradicate dall’umano e affidate fuori di lui, è un mondo che tende alla cancellazione della sua stessa storicità. Un mondo privato della possibilità che un passato venga tradito per un orizzonte di senso nuovo, però, è necessariamente un mondo nel quale viene meno l’idea stessa di un futuro che non sia già deciso.

 

Note

 

 

[1] W. Benjamin, Sulla lingua, in Id. Angelus Novus. Saggi e frammenti., ed. it. a cura di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1962, pp. 53-70: p. 54.

[2] Ivi, pp. 54-55.

[3] Ivi, p. 55.

[4] Ivi, p. 57

[5] Su questo cfr. F. Ervas, Uguale ma diverso. Il mito dell’equivalenza nella traduzione, Quodlibet, Macerata, 2008.

[6] Sul tema dell’impossibilità come carattere proprio della traduzione ha insistito fra tutti Jacques Derrida. Cfr. J. Derrida, Des tours de Babel, trad. it. di S. Rosso, «aut aut», 189-190, 1982, pp. 67- 97; Id., Il monolinguismo dell’altro o la protesi d’origine, trad. it. di G. Berto, Cortina, Milano 2004; Id., Che cos’è una traduzione «rilevante»?,  trad. it. di J. Ponzio, «Athanor», 2, 1999-2000, pp. 25-45.

[7] W. Benjamin, Il compito del traduttore, in Id. Angelus Novus, cit, pp. 39-52: p. 39.

[8] Cfr. S. Hrnjez, Traduzione, negazione, riflessione: sulla natura negativo-contradditoria della traduzione, «Teoria», 2 (2020), in corso di stampa.

[9] Cfr. W. Benjamin, Il compito del traduttore, cit., p. 41.

[10] Cfr. Lettera di Aristea a Filocrate, ed. it. a cura di F. Calabi, Bur, Milano, 2019.

[11] Phil. Alex. Mos. II 37.

[12] Tant’è che i suoi autori non sono chiamati «con il nome di traduttori, ma di ierofanti e profeti» (F. Calabi, Lingua di Dio, lingua degli uomini. Filone alessandrino e la traduzione della Bibbia, I Castelli di Yale, 1997, II (2). pp. 95-113).

[13] Sul mito della traduzione perfetta connesso alla traduzione dei Settanta, cfr. M. Bettini, VertereUn’antropologia della traduzione nella cultura antica, Torino, Einaudi, 2012, in part. pp. 189-251.

[14] M. Heidegger, Eraclito, trad. it. di F. Camera, Mursia, Milano 1993, p. 34.), traduzione modificata.

[15] M. Heidegger, Parmenide, trad. it. di G. Gurisatti, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1999, p. 42.

[16] Sul problema della traduzione in Heidegger, mi sia consentito rinviare a: L. Illetterati, L’origine e la sua traduzione (o della traduzione come origine), in G. Gurisatti, A. Gnoli, Franco Volpi. Il pudore del pensiero, Morecelliana, Brescia, 2019, pp. 228-271.

[17] Cfr. su questo: P. Ricoeur, La traduzione: una sfida etica, a cura di D. Jervolino, Morcelliana, Brescia 2001; Id. Tradurre l’intraducibile. Sulla traduzione, a cura di M. Oliva, Urbaniana University Press, Roma 2008.

[18] W. Benjamin, Il compito del traduttore, cit., p. 44

[19] Per una analisi complessiva del tema del tradimento che incrocia anche il suo nesso con gli elementi trasformativi che costituiscono una tradizione, cfr. A. Margalit, Sul tradimento, trad. it. di B. Del Mercato e D. Ferrari, Einaudi, Torino 2017.

[20] Cfr. M. Blanchot, Sulla traduzione, trad. it. di R. Prezzo, «aut-aut», 189-190 (1982), pp. 98-101: 101.

[21] Mi permetto, su questo punto, di rimandare al mio Figure del limite. Esperienze e forme della finitezza, Verifiche, Trento 1996.

[22] Lanza del Vasto, Giuda Iscariota, Laterza, Bari 1938.

[23] J.L. Borges, Tre versioni di Giuda, in Id., Opere, vol. II, pp. 747-752.

[24] Sul Giuda di Berto, cfr. P. Culicelli, Eresia e tradimento ne ‘La Gloria’ di Giuseppe Berto, «Studi Novecenteschi», vol. 37, no. 80, 2010, pp. 389–411.

[25] A. Oz, Giuda, trad. it. di E. Loewenthal, Feltrinelli, Milano 2014.

[26] Cfr. W. Goldkorn, Intervista ad Amos Oz pubblicata su «La Repubblica» il 20.10.2014. Contro una lettura del Giuda di Oz quale elogio del tradimento, cfr. la recensione P. Bettiolo sul supplemento Alias de Il Manifesto del 30.11.2014.

[27] Cfr. J. Franzen, Purity, trad. it. di S. Pareschi, Einaudi, Torino 2016.

[28] A. Margalit, Sul tradimento, cit.

 

Nessun commento:

Posta un commento