UN FUTURO SENZA STORIA
La vocazione del nostro tempo è di spiare nel futuro. Dimenticando che “origine è la meta”,
Antonio Merlino 2 aprile 2019
Nelle sue tesi sul «concetto di storia» Walter Benjamin scriveva di «un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra». In Italia, Antonio Gramsci menzionava un dovere di conformare le generazioni che verranno a quelle che sono state. Nella sua «Apologie pour l’histoire ou métier d’historien», Marc Bloch affermava che il presente non è auto-intelligibile e che - per intendere il presente - occorre comprendere il passato. Similmente, in uno dei suoi scritti più fecondi, Benedetto Croce aveva dichiarato che la vita e la realtà sono «storia e nient’altro che storia». E, ancora, che ogni giudizio è necessariamente «giudizio storico», legato alla vita, ossia al «pensiero» e all’«azione».
Questi autori scrivevano negli anni della catastrofe. Benjamin, Bloch e Gramsci ne sono stati distrutti. Questi autori scorgevano nella storia un valore resistenziale alla barbarie. Non solo i regimi totalitari avevano stravolto il passato forgiando miti e disseminando odiose contraffazioni di ciò che è stato. Anche molti spiriti liberali avevano riposto ingenua fiducia in una apparentemente innocua idea di progresso e di «tempo omogeneo e vuoto».
Dalla Rivoluzione francese in poi troppi hanno prestato cieca e ottusa fede al mito di una linearità del tempo, capace di condurre, tappa per tappa, gradino per gradino, a un fine della storia. Fuoruscito dall’”oscurità” del Medioevo, lo spirito del mondo si sarebbe evoluto lungo tutto il Rinascimento prima e nell’epoca dei lumi poi, fino a sbocciare nel tempo presente, seguendo un solco nitidamente riconoscibile. La storiografia ottocentesca ha seriamente creduto in queste periodizzazioni. Come se il fluire del tempo potesse essere suddiviso in compartimenti stagni. L’idea di un incedere progressivo della storia non era neutrale e non era nemmeno un trastullo da eruditi: essa conteneva una precisa ideologia, poiché giustificava di fatto lo status quo del presente. Il presente era considerato migliore del passato, poiché, succedendogli cronologicamente, si collocava su un punto più avanzato della linea del tempo. Su questi presupposti si spiava indebitamente nel futuro.
Benjamin criticava veementemente questa fasulla idea di progresso («Fortschrittsbegriff»). Dove altri vedevano progresso, egli scorgeva «catastrofe».
Citando il grande Karl Kraus, egli pensava che «Origine è la meta» («Ursprung ist das Ziel»). Kraus era polemicamente convinto che «chi ha trovato la meta ancor prima della via/non venne dall’origine». In altre parole, chi postula una filosofia della storia o una sua meta senza aver sguardo retrospettivo, è destinato ad essere sviato dall’«incantesimo del futuro». Fatica da indovini.
Ed eccoci a noi.
La vocazione del nostro tempo è di pronosticare. Guardiamo al futuro, allestiamo sondaggi, prevediamo sviluppi economici, evoluzioni politiche, sociali e ambientali. Ma trascuriamo il passato. La peggiore classe dirigente che ci tocca di avere è volgarmente devota al presente e la sua capacità di pensiero si può misurare nel baleno di poche righe lanciate sui social. Così breve è la memoria collettiva che quel che un politico afferma al mattino può essere dimenticato (o rimangiato) alla sera.
L’imbarbarimento della classe dirigente prospera in un gigantesco vuoto di memoria, in una bolla d’aria fuori dal tempo: il nuovo corso populista diffusosi in mezza Europa si fonda soprattutto su una negazione della storia in favore di miti identitari e nazionalisti, quando non scopertamente razzisti.
Per gli autori che ho citato sopra storicità significava resistenza. Resistenza al gruppo dominante in nome del giudizio storico. Resistenza alla tirannide di maggioranze che pretendono di cambiare il bianco in nero, il giorno con la notte e il giusto con l’ingiusto. Nel passato - e non nel futuro - essi cercavano di risvegliare quella scintilla che può cambiare il mondo.
La crisi di questa idea di storia come pensiero e come azione non è purtroppo circoscritta ai nuovi arruffapopoli, ma lambisce anche gli ambienti più orgogliosamente colti e liberali. Da questo altro punto di vista si considera il passato come un tempo buio e tenebroso, mentre si affidano al presente e al futuro luminose speranze. Molti illustri intelletti non sono neppure sfiorati dal sospetto che quelle stesse speranze possano essere riposte all’intendimento del passato. Molti illustri intelletti si accontentano di parlare di «memoria» storica e magari di nobilitare le esigenze politiche dell’oggi con un po’di “cenni” storici o con il “depotenziamento” dei segni più visibili del recente passato.
Ma non basta. Poiché serbare memoria dei fatti storici serve a poco se non si è poi capaci di intenderli rettamente. Benjamin pensava che «articolare storicamente il passato non significa conoscerlo proprio come è stato». Significa invece «impossessarsi di un ricordo così come balena in un attimo di pericolo». Significa strappare la «trasmissione del passato al conformismo». Significa giudicare.
Un grande giurista – che scrisse anch’egli nel tempo della catastrofe novecentesca - diceva che c’è una vocazione del nostro tempo a vivere senza diritto. Hannah Arendt pensava la stessa cosa.
Pare che Benjamin non si separasse mai da un dipinto di Paul Klee, raffigurante un angelo («Angelus novus»). L’«angelo della storia» era sospinto verso il futuro da una bufera. Ma aveva lo sguardo rivolto verso il passato.
Guardava indietro.
Articolo ripreso da https://www.salto.bz/de/article/02042019/un-futuro-senza-storia
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