IL GIOVANE PAVESE LETTORE ATTENTO DI W. WHITMAN
Pavese era giovane e avventuroso
Un Pavese sorprendente, sicuro di sé, anche troppo, che a vent’anni sfida la critica americana e europea su Walt Whitman. Di cui si arroga la chiave di lettura giusta – “Walt Whitman canta la gioia di scoprire pensieri”, così la sintetizzerà tre anni dopo in un articolo per “La Cultura” di luglio-settembre 1933. Nella tesi di laurea, passata a ventun anni, che il relatore si rifiuterà di presentare.
Pavese andava di fretta - è morto di poco più di quarantuno anni, anche se sembrava fosse lì da sempre. Da ragazzo anche di corsa. Si laurea a 21 anni, superando ben quattro esami di fila, biennali, nelle poche settimane intercorse tra la chiusura dell’anno accademico e la sessione di laurea. Tratta la materia dall’alto, e come con sufficienza – la materia essendo le letture precedenti di Whitman, la bibliografia e le biografie, di critici americani, italiani, inglesi e francesi. Compreso Stevenson, a cui Whitman non piaceva (“Familiar Studies”: gli “preferiva” Milton…)
Whitman l’aveva scoperto l’estate dell’iscrizione all’università, scrivendone – con opposti pareri a distanza di poche settimane – all’amico Tullio Pinelli. “Io, in questi boschi, mi esalto con Whitman”, scriveva da Santo Stefano Belbo l’1 agosto 1926, diciottenne, in vacanza dopo la maturità. E un mese e mezzo dopo, il 19 settembre: “Ora io, non so se sia l’influenza di Walt Whitman, ma darei 27 campagne per una città come Torino”.
Lettore dunque da sempre già avventuroso in inglese. Anche se ne sarà dopo la laurea insegnante mancato: al concorso del 1932 passò scritto e lezione, ma la cattiva pronuncia ne pregiudicò l’orale. Il suo Whitman è presto detto. “Una letteratura fuori dalla letteratura”? No, letteratura al quadrato. Anzi, “un Walt Whitman arcade!”. Non per scherzo: “C’è da far rabbrividire molte ombre di suoi apostoli. Pure, dopo tutti i Whitman che ci ha dato la critica, questo non è forse il più paradossale”. Come tutti i poeti, creò un suo libro dove il sogno pratico si risolve nella poesia di questo sogno, nella lirica del mondo veduto attraverso questo sogno”. Whitman “non creò affatto un libro diverso dai libri «europei», un nuovo modello letterario”, come si proponeva: “Non fece il poema primitivo che sognava, ma il poema di questo suo sogno”.
Di più. La poesia “democratica” di Whitman era un assurdo, e non gli riuscì: “Non riuscì negli assurdi di creare una poesia adatta al mondo democratico e ai caratteri della nuova terra scoperta”. Cosa fece allora? “Fece poesia di far poesia”: “Fece la poesia di questo disegno, la poesia di scoprire un mondo nuovo e di cantarlo”. Questo punto, precisa concludendo il primo capitolo, “Il mito della scoperta”, che serve da sommario, è “l’essenza del mio studio”.
Esclude “la critica della critica”, e “il problema storico di Walt Whitman – derivazione e influssi”. Ma poi procede in parallelo, quasi sempre in antitesi, sia della critica che delle anamnesi già in essere del “problema storico”. Iperdisinvolto, tratta anche “L’amore virile”, al terzo capitolo, sotto questo titolo.
Appiattito – spremuto, stinto – dal paradiso-inferno Einaudi, dall’universo concentrazionario del politicamente corretto ante litteram, emerge con la liberazione dai “diritti” un Pavese più che robusto, una sorta di campione, vincente se non altro per spavalderia – non il suicida per mancanza, semmai sarà stato per eccesso di vitalità, compressa. Uno che a vent’anni sapeva di Whitman cose che nessuno in Italia sapeva, e nemmeno in America, e a ventuno le aveva scritte.
La sua tesi non fu presentata dal relatore, con cui l’aveva concordata, l’anglista Federico Olivero. Che anzi non si presentò alla seduta di laurea. Gli subentrò, giusto per la forma, il titolare di francese, Ferdinando Neri, per non far perdere la sessione al giovane laureando. Su insistenza di Leone Ginzburg, l’amico giovane di Pavese, minore di un anno, ma già influente slavista.
Il rifiuto di Olivero non è stato spiegato – si potrebbe ipotizzare la difficoltà di accettare lezioni da uno studente, il tono professorale. Il voto di laurea si decise corrispondente alla media degli esami, di 28 più tre lodi: 108 punti su 110. La discussione fu limitata, ai tantissimi errori di battitura, e all’uso di termini desueti (“spallata”, alla Papini, per “sbagliata”, “migliarola” per “quantità”).
Il Pavese giovane che ancora oggi si trascura: precoce, onnivoro, di ottime compagnie e migliori insegnanti, perspicace, deciso, scrittore “naturale”, in prosa, in poesia, nella corrispondenza, magistrale a ventun anni. “Veemente”, lo dice Magrelli nella breve, succosissima, presentazione, anche supponente. Ma di formidabile perspicacia, come ancora dice Magrelli e si rileva alla lettura.
Subito apprezza di Whitman - in omaggio alle “masse” all’ordine dei suoi anni, degli anni di Pavese, a sinistra come a destra - “la protesta di fede nella massa del popolo piena di grandezza e di capacità di sacrificio e da nessuno mai introdotta in poesia in modo degno”. Senza dimenticare “l’accenno al molto di rotten e di canker’d che vi è nell’America”, che anch’esso rientrava in Europa nel politicamente corretto dell’epoca, la democrazia essendo in sospetto. Ma ne ricorda anche il programma di creazione “dell’Individuo Democratico”. Che comunque ricerca e sa far parlare, anche se a suo modo, manierato (il suo pioniere è “uno che sa di essere tale”), sia nella prima immersione nell’America profonda, dal suo Illinois viaggiando per tutto il Sud, lungo il Mississippi, nel 1848-1849, sia nella scoperta del West, nel 1879.
Cesare Pavese, Interpretazione della poesia di Walt Whitman, Mimesis, pp. 152 € 13
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