21 aprile 2021

L' ULTIMO ROMANZO DI GIORGIO VASTA

 



TRE ORFANI”, I FANTASMI LETTERARI DI GIORGIO VASTA

di Gianni Montieri 


C’è una casa, la casa è a Palermo. Un uomo entra nella cucina di questa casa una mattina molto presto, è il giorno del suo cinquantesimo compleanno, è il 12 marzo del 2020. La casa è quella in cui vive da due mesi e mezzo, come dichiara egli stesso in qualità di narratore della storia. In cucina trova, seduti a tavola, Achab e Bartleby, tranquilli e silenziosi come in attesa di qualcosa oppure di niente, li percepiamo così durante i primi istanti di lettura, quasi come dei coinquilini, personaggi letterari, seduti un po’ comodamente e un po’ rigidamente, fantasmi, compagni di giornata pronti a condividere un caffè, un incubo, la loro attitudine, il giorno del compleanno del narratore.

Ci fermiamo un attimo sulla scena che apre Tre orfani di Giorgio Vasta (Casagrande, 2021) per fare una prima riflessione: siamo stupefatti, sì, ma perché lo siamo? Non ci stupisce la presenza dei due personaggi di Melville, non ci stranisce il fatto che sono accomodati nella cucina del narratore, ci meraviglia invece, una volta di più, la straordinaria resa della scrittura di Vasta. Una volta registrata la presenza dei nuovi abitanti della casa, l’uomo (cioè il narratore, cioè Vasta) avanza e prepara il caffè, poi si volta e vede nelle posture dei due abitanti una parvenza di consuetudine, una ritualità che permea le loro forme, i loro primi gesti, intanto che la luce della città comincia lentamente a insinuarsi nell’appartamento.


Achab mi aveva indicato una sedia, avevo preso posto. Per una ventina di minuti c’era stato solo il crepitare leggero dei biscotti spezzati dalle dita, le croste nude del formaggio che sporadicamente battevano sul tavolo, gli scricchiolii della masticazione. Mangiando, Achab strofinava il polpastrello del pollice sulle striature del marmo, levigando quell’oceano rettangolare, Bartleby recuperava ogni briciola tra indice e pollice, la portava alle labbra, deglutiva metodico.

Qualche anno fa, Manifesta 12 ha commissionato un volume su Palermo, una sorta di analisi della città attraverso l’architettura, l’antropologia, la storia, il tessuto umano e urbano, all’interno del libro che si intitola Palermo Atlas si legge uno scritto luminoso e illuminante di Vasta che riduce la città siciliana dalla sua estensione di chilometri quadrati, quartieri, gente e storie a un punto preciso, un appartamento nel quale ha vissuto dalla nascita fino alla metà degli anni Novanta, e, tra le altre cose, scrive: «Palermo è una carta da parati quadrettata blu e bianca anni Ottanta a mezza altezza (gli strappi minuti, calibrati a comporre figure animali, dagli undici anni in poi le figure animali evolvono in piccoli spettri del sesso, i margini frastagliati, dovrebbe essere carta ma taglia come lamierino), un tavolino marrone basso e tondo in soggiorno disseminato di circoletti (il fondo umido dei bicchieri di vetro, le tazze di latte della domenica sera, il calore che si imprime sul legno: alcuni cerchi, i primi, accidentali, e poi in successione, negli anni, le circonferenze intenzionali, una costellazione di dischetti vuoti stampati sulla materia vegetale) […]».

Vasta, in quel testo, riconduce Palermo all’infanzia, agli inizi, facendo archeologia, antropologia, memoria. Palermo non la si può capire provando a contenerla, ma forse la si può intuire tentando di osservarla a ritroso e in minuscolo. Palermo brucia e riduce, e in quelle azioni che preludono alla scomparsa, invece, compare e rimane. In Tre orfani la città è esterna e fluttua, ondeggia, si manifesta inafferrabile, sgusciante, dominante, imprendibile, proprio come Moby Dick. Stavolta è dalla casa, dalla situazione di chiusura che, nostro malgrado, abbiamo imparato a conoscere, che si osserva il luogo e non si può più ridurlo.

ecco cos’è la realtà, mi ero allora ritrovato a pensare contemplandolo: la realtà è una cosa ossea-

In questo racconto breve e fulminante, capiamo (anzi, sentiamo) subito un’altra verità, la casa è ampia ed è spoglia, ci sono pochi mobili, non perché siano descritti, ma perché ascoltiamo il silenzio, scopriamo Bartleby dietro una porta, non sappiamo come ci sia arrivato, oppure Achab seduto che segue l’andamento della pandemia, guardando la conferenza stampa quotidiana di Borrelli, il capo della Protezione civile. Bartleby, imperturbabile, cancella con la perizia da scrivano e con la sua modalità di sottrarsi a ciò che avviene, che lo riguardi o meno, impone al narratore la sua visione e le sue scelte, e cancella gli appuntamenti dall’agenda, uno per uno, i numeri dalla rubrica del telefono, le e-mail, le importanti e le altre, quelle lette e le altre, ogni fotografia. Non parla, non chiede niente, non lo sfiora nemmeno l’idea di domandare scusa, e, mentre leggiamo, siamo certi che non lo farà, perché sta facendo la sua parte.

Bartleby procede rimuovendo, così assesta un colpo al tempo stato e al tempo a venire, detta le priorità, le nuove, le sue. Achab, seppur spostandosi nella casa, con modi altrettanto tranquilli, reca con sé la sua irrequietezza, i suoi tormenti. Il mondo di Achab, qui nella casa di Palermo, è la sintesi del suo destino, tra coraggio e paura, tra desiderio e incapacità di rinunciarvi. Bartleby, Achab e il festeggiato, o colui che dovrebbe festeggiare, si agitano sulla scena, tra una stanza e l’altra, come se uscissero o entrassero da un palcoscenico, come se ogni gesto potesse influenzare (o  far accettare) un destino segnato.

C’è un mare che non può essere attraversato fuori dal balcone della casa, e il mare è la città, ma i palazzi che si intravedono tra il chiaroscuro del giorno che s’è fatto sera non stanno fermi, non possono. Palermo è Moby Dick, e non lo è solo per Achab, lo è e basta, lo è per tutti e tre. E la casa che suona vuota è un ventre cavo di cetaceo dentro il quale vanno questi tre attori e toccano l’interno, le viscere e non temono la sorte, non la conoscono. Vanno sul balcone, due cose occorrono a questo compleanno: una torta improvvisata e un arpione ricavato da lanciare mentre Moby Dick, o chi ci pare, attraversa e salta fuori dai muri di Palermo.

[…] chiarendomi che lo spazio davanti a noi non era il prospetto posteriore del condominio dove abitavo da due mesi e mezzo, non aveva nulla a che fare con le quisquilie della vita urbana, al limite qualcosa con la natura cetacea di Palermo: perché quello spazio era l’Atlantico magnifico […]

Tre orfani, al momento in cui scrivo, sono le 12 e 50 del 18 aprile 2021, è il miglior testo che ho letto quest’anno, lo sento vicino più di ogni altra parola, non credo c’entri solo il fatto che tra poco più di un mese compirò cinquant’anni anche io, e che sono pronto a convocare non so ancora chi in salotto, da Diego Maradona a Giovanni Raboni, c’entra, soprattutto, il modo in cui Giorgio Vasta affronta temi profondi e complicatissimi. Il libro consta di trenta pagine e ne ha la densità di mille, Vasta, convoca i suoi fantasmi letterari, perché solo così può mostrarci aspetti sempre nuovi e quasi impossibili da dire: la solitudine, il rapporto con le origini e i luoghi, una città meravigliosa e incomprensibile, la novità della chiusura in casa, singola ma di tutti, il cambio di registro, il passaggio, che segna un compleanno come quello del narratore. Vasta fa letteratura, tutto qui. Io trovo conforto in tutto questo.

 

Pezzo ripreso da  https://www.minimaetmoralia.it/


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