Ossessioni.
Era meglio l'ossessione di Berlusconi per il sesso
o quella di Monti per l'art. 18?
Jena su lastampa del 4. 2. 2012
P.S. Visto che ogni giorno il Governo Monti, con i suoi straordinari ministri, esibisce numeri mai visti siamo costretti ad aggiornare l'analisi:
Cambiare
tutto perché nulla cambi. Ora c'è il governo dei professori e ai politici non
resta che votare. Monti è educato, non fa le corna e sa stare nella buona
società, mica come prima. E' sobrio, a tal punto che per non sembrare troppo
noioso si è messo a fare le battute. Anche lui. Allora siamo sempre al punto di
partenza. Neanche l'autodifesa, dopo averne sparata una che ha fa perdere la
pazienza a intere generazioni, è molto diversa rispetto ai fasti e nefasti
berlusconiani.
Ha detto sì che il posto fisso è monotono, ma se la prende con un uso di questa «battuta» «fuori contesto» che avrebbe dato origine a un equivoco. È un modo di esprimersi da professore che però ricorda le accuse del suo predecessore ai giornalisti di avere frainteso o, peggio, strumentalizzato le sue parole.
Ma le continuità - sempre, sia chiaro, all'interno di una grande discontinuità di stile - non si fermano alla forma. Questo governo concepisce il lavoro come una variabile dipendente del profitto, cioè del mercato in chiave odierna, liberista. A differenza di quel che capitava al governo precedente, fortemente osteggiato da Repubblica, questo riceve i complimenti di Eugenio Scalfari anche quando esprime gli stessi concetti del trio Berlusconi-Tremonti-Sacconi. Non esistono più variabili indipendenti, così come non devono esserci tabù. Se vi ho offeso scusatemi, ma volevo dire che fa bene cambiare e andare all'estero è formativo. Anche gli altri volevano cambiare e costringevano i giovani talenti o semplicemente laureati a emigrare, essendo preclusa ogni possibilità di trovare lavoro in un paese in cui la cultura non si mangia. In era Monti se ne devono andare lo stesso, ma con gioia perché così cresceranno, matureranno, miglioreranno. Se Monti ha cambiato un sacco di lavori nella sua vita, perché non dovrebbe fare lo stesso un dottore in chimica impiegato come precario in un call center, o un'operaia della Fiom di Pomigliano che in fabbrica non la prendono e resta aggrappata alla cassa integrazione invece di darsi da fare e imitare il suo presidente cambiando lavoro? Consigli importanti, tutt'altra cosa da quelli berlusconiani di trovarsi un marito ricco.
Monti è un tecnico e, non dovendo prendere voti alle prossime elezioni, può finalmente realizzare il sogno di chi è venuto prima di lui: liberarsi del padre di tutti i tabù, l'art. 18. Magari entro marzo perché ai sindacati bisogna pur consentire di fare un po' di ginnastica «democratica». Il concetto è semplice, e non dite che l'avete già sentito: c'è chi ha troppi benefici, leggi privilegi, leggi tutele, e chi non ne ha alcuno. Siccome il governo Monti è il governo dell'equità, si toglie da una parte e si mette dall'altra. Prima si toglie, poi si trovano i soldi per mettere. Anche questa l'avete giù sentita?
Ieri il presidente del consiglio si è lasciato interrogare dai lettori di Repubblica.it e queste cose ha detto. Vi abbiamo proposto un sunto a parole nostre, tanto anche se avessimo messo il virgolettato sarebbero state frasi «fuori contesto».
Ps. Monti ha detto che, essendo il suo un governo tecnico, ha meno bisogno di comunicare di un governo politico, perché «non ci presenteremo alle prossime elezioni» (qui le virgolette le mettiamo). Però, aggiunge, comunicare è più necessario perché «non essendo stati eletti dobbiamo conquistare la fiducia dei cittadini». Ecco spiegato perché non c'è trasmissione televisiva, radiofonica, giornale, sito in cui ogni giorno non compaiano un paio di sottosegretari e almeno un ministro. Chissà quanto consenso sta portando al governo dei professori loquaci questa grande esposizione mediatica.
Ha detto sì che il posto fisso è monotono, ma se la prende con un uso di questa «battuta» «fuori contesto» che avrebbe dato origine a un equivoco. È un modo di esprimersi da professore che però ricorda le accuse del suo predecessore ai giornalisti di avere frainteso o, peggio, strumentalizzato le sue parole.
Ma le continuità - sempre, sia chiaro, all'interno di una grande discontinuità di stile - non si fermano alla forma. Questo governo concepisce il lavoro come una variabile dipendente del profitto, cioè del mercato in chiave odierna, liberista. A differenza di quel che capitava al governo precedente, fortemente osteggiato da Repubblica, questo riceve i complimenti di Eugenio Scalfari anche quando esprime gli stessi concetti del trio Berlusconi-Tremonti-Sacconi. Non esistono più variabili indipendenti, così come non devono esserci tabù. Se vi ho offeso scusatemi, ma volevo dire che fa bene cambiare e andare all'estero è formativo. Anche gli altri volevano cambiare e costringevano i giovani talenti o semplicemente laureati a emigrare, essendo preclusa ogni possibilità di trovare lavoro in un paese in cui la cultura non si mangia. In era Monti se ne devono andare lo stesso, ma con gioia perché così cresceranno, matureranno, miglioreranno. Se Monti ha cambiato un sacco di lavori nella sua vita, perché non dovrebbe fare lo stesso un dottore in chimica impiegato come precario in un call center, o un'operaia della Fiom di Pomigliano che in fabbrica non la prendono e resta aggrappata alla cassa integrazione invece di darsi da fare e imitare il suo presidente cambiando lavoro? Consigli importanti, tutt'altra cosa da quelli berlusconiani di trovarsi un marito ricco.
Monti è un tecnico e, non dovendo prendere voti alle prossime elezioni, può finalmente realizzare il sogno di chi è venuto prima di lui: liberarsi del padre di tutti i tabù, l'art. 18. Magari entro marzo perché ai sindacati bisogna pur consentire di fare un po' di ginnastica «democratica». Il concetto è semplice, e non dite che l'avete già sentito: c'è chi ha troppi benefici, leggi privilegi, leggi tutele, e chi non ne ha alcuno. Siccome il governo Monti è il governo dell'equità, si toglie da una parte e si mette dall'altra. Prima si toglie, poi si trovano i soldi per mettere. Anche questa l'avete giù sentita?
Ieri il presidente del consiglio si è lasciato interrogare dai lettori di Repubblica.it e queste cose ha detto. Vi abbiamo proposto un sunto a parole nostre, tanto anche se avessimo messo il virgolettato sarebbero state frasi «fuori contesto».
Ps. Monti ha detto che, essendo il suo un governo tecnico, ha meno bisogno di comunicare di un governo politico, perché «non ci presenteremo alle prossime elezioni» (qui le virgolette le mettiamo). Però, aggiunge, comunicare è più necessario perché «non essendo stati eletti dobbiamo conquistare la fiducia dei cittadini». Ecco spiegato perché non c'è trasmissione televisiva, radiofonica, giornale, sito in cui ogni giorno non compaiano un paio di sottosegretari e almeno un ministro. Chissà quanto consenso sta portando al governo dei professori loquaci questa grande esposizione mediatica.
Loris Campetti, su Il Manifesto del 4.2.2012
Certo, questo governo dei tecnici dovrebbe essere più misurato nel linguaggio. Va bene che i sottosegretari sono stati indicati da quei partiti i cui dirigenti – maschi e femmine – spesso parlano (nel senso di straparlare) “fuori dal vaso”. Per questo, uno/una potrebbe anche scusare il sottosegretario Polillo che vede il ministro Fornero come “icona della fontana che piange” e il sottosegretario Martone che considera “sfigati” gli studenti non laureati a 28 anni. Ma se ci si mette pure il sobrio, contenuto, controllato Mario Monti, allora non c’è speranza. Significa che le derive del linguaggio sono inarrestabili.
Per il premier “i giovani devono abituarsi a non avere un posto fisso nella vita”. Turbocapitalismo e flessibilità: do you remember? Con un modello del lavoro scivolato dalla fabbrica al postindustriale; dalle vecchie “classi”, direbbe André Gorz, ovvero dalle antiche aggregazioni sociali alle nuove élites iperattive (basta pensare al ministro Passera) e alla massa del “lavoro servile”.
Certo, starebbe ai giovani essere autonomi e dimostrarsi responsabili del proprio destino. Solo che il destino non cammina sulle gambe del creativo o del manager bensì di chi staziona in un call-center a un migliaio di euro (se va bene) al mese. La banconista, il commesso, l’addetta al confezionamento, il contabile, centralinista, sportellista, receptionist (tutti magari con laurea e master) non ci provano nemmeno a trovare nobili motivazioni (tipo “il far bene”) per ciò che fanno in cambio di modestissima paga.
Quanto al posto fisso “diciamo anche, che monotonia averlo per tutta la vita. E’ bello cambiare…” suggerisce ancora il premier. Meglio spostarsi di qua e di là, scegliere una dimora piccola ma accogliente, incontrare nuovi amici. Ma lo sa Monti che se il parasubordinato deve firmare per l’affitto di una casa, senza busta paga nemmeno lo prendono in considerazione? E sa che se vuole acquistare un frigorifero a rate, accendere un mutuo per la macchina, senza la garanzia di uno stipendio fisso, serve l’avallo del padre o della madre?
Il meraviglioso appello a una rivoluzione mentale dei giovani avrebbe bisogno di un po’ più di umiltà. Credere in se stessi è possibile però bisogna che qualcuno cominci con il dare il buon esempio. Fin tanto che i ricchi non saranno tassati, il capitalismo continuerà a mostrare la sua faccia più irresponsabile. Fin tanto che i potenti non avranno uno sguardo meno strabico su ciò che avviene intorno a loro, fallirà il tentativo di disegnare delle alternative. E non sarà facile convincere le ragazze “indignate” bolognesi e quella romana del centro sociale Esc – invitate all’“Infedele” di Gad Lerner (lunedì 30) per valutare il governo Monti – che la fine del posto fisso è una vera fortuna.
Letizia Paolozzi 3.2. 2012 da DomaniDeA mailing list, DomaniDeA@www.women.it, http://www.women.it/mailman/listinfo/domanidea
Non ci aspettavamo di leggere su La Repubblica d'oggi l'affondo critico di Luciano Gallino sul Governo Monti che di seguito ristampiamo:
RispondiElimina"L´occupazione, in Italia, sta assumendo il profilo di una catastrofe sociale. I disoccupati sono almeno 3,5 milioni. Altri 250.000 posti sono a rischio nel corso del 2012, cui vanno aggiunti un miliardo di ore di cassa integrazione. I precari, molti vicini alla mezza età, sono almeno 3 milioni. Tanti disoccupati e precari comportano decine di miliardi sottratti al reddito familiare e alla domanda interna. Comportano pure costi umani inauditi, e tensioni sociali crescenti.
Dinanzi a tali segnali di allarme rosso, governo e parti sociali si sono messi a discutere anzitutto su come modificare i contratti di lavoro. Il presidente del Consiglio decanta la bellezza del cambiare ripetutamente posto e accettare nuove sfide. La ministra del Lavoro annuncia che la riforma si farà con o senza il dialogo. I sindacati si irritano perché vedono in tali annunci l´intento di rendere più facili i licenziamenti. Per lo stesso motivo la Confindustria plaude alle dichiarazioni governative.
Nessuno dubita che siano tutti in buona fede. In base alla dottrina che professano, si può star certi che i membri del governo credono davvero che le "nuove regole sui licenziamenti per ragioni economiche relative ai contratti permanenti di lavoro", richieste da una lettera del commissario europeo Olli Rehn del novembre scorso, servano ad aumentare l´occupazione e ridurre la precarietà. E di certo i sindacati hanno ragione nel temere un peggioramento delle condizioni di lavoro se si comincia con il modificare i contratti.
Il problema è che appaiono anche tutti sulla strada sbagliata. In quanto è stato finora detto e ridetto da membri del governo (oltre ad asserire che ce lo chiede l´Europa), dai sindacati (salvo affermare, e si può essere d´accordo, che l´articolo 18 non si tocca) o dalla Confindustria (per la quale l´articolo 18 è il maggior ostacolo allo sviluppo), non c´è una sola indicazione che riguardi da vicino il problema di quanto, entro quale data, con quali mezzi si voglia ridurre il numero dei disoccupati e dei precari.
Si prenda il caso della "flessibilità buona", un ossimoro (difficile dire se geniale o perfido) coniato da poco. Se ha un senso, essa significa che le imprese dei settori in crisi perché obsoleti o superati dalla competività cinese, possono sì licenziare i dipendenti invece che metterli in Cig per due o tre anni; però esistono meccanismi che provvedono in modo sollecito a ricollocare i medesimi, magari dopo un periodo di riqualificazione, in imprese con sicure prospettive. Si dirà che questo è appunto l´intento del governo. Ma è proprio qui che sta l´errore. Le imprese in crisi hanno nome, indirizzo e un dato numero di dipendenti. Le imprese ed i settori in sviluppo pure. Il numero dei lavoratori da ricollocare può e deve essere determinato: sono tutti quelli delle imprese in crisi, o solo una data fascia di età di essi, o altro? Infine i percorsi di ricollocazione hanno un costo, anch´esso determinabile in base al numero di lavoratori che si vogliono coinvolgere e alla durata dei relativi programmi. Un ragionamento analogo si potrebbe fare circa il numero dei precari che si vuol togliere dalla loro condizione, riducendo il numero dei 46 tipi di contratti esistenti. La strategia è sempre la stessa: prima si provvede a stabilire quante persone si vogliono coinvolgere in un piano di riduzione della precarietà, quali sarebbero i costi, da dove verrebbero le risorse, e quali sarebbero i tempi. Poi si passa a esaminare quale tipo di contratto potrebbe risultare efficace, oltre che equo e decente, per perseguire lo scopo di ridurre di una data quantità il numero dei precari.