Un nuovo libro su Gramsci di Franco
Lo Piparo non può che destare interesse. Lo Piparo è noto fra gli studiosi
gramsciani per un volume del 1979 che
fece comprendere l'importanza che avevano avuto i giovanili studi di
linguistica per il comunista sardo. Un contributo di grande rilievo, anche se
non fu accolta dai più la tesi dell'autore secondo cui questi studi erano alla
base dell'originalità di Gramsci non accanto ad altre fonti (in primis il
dibattito nell'Internazionale comunista), ma al posto delle stesse: Gramsci
senza Lenin, insomma.
Il dietrofront di Croce
In anni recenti Lo Piparo si è occupato degli influssi che Gramsci avrebbe esercitato, con la mediazione di Sraffa, sul secondo Wittgenstein, ipotesi affascinante su cui si annuncia un più ampio lavoro. Esce per il momento di Lo Piparo, però, un volumetto intitolato I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista (Donzelli, pp. 144, euro 16), destinato a far discutere su un versante diverso: quello della ipotesi, che in alcuni autori è divenuta affermazione polemica (e a volte bassamente propagandistica), secondo cui l'originalità del suo pensiero avrebbe portato Gramsci alla fuoriuscita dal Pci e dalla teoria e dalla prassi marxiste e comuniste. Fu Croce per primo a tentare l'operazione di contrapporre Gramsci ai comunisti, scrivendo nel 1947, di fronte alle Lettere: «Come uomo di pensiero egli fu dei nostri», ovvero un liberale. Molti però - non solo Lo Piparo - dimenticano di aggiungere che l'anno dopo, all'uscita dei Quaderni, don Benedetto ammise di essersi sbagliato, scrivendo che Gramsci era - purtroppo, dal suo punto di vista - proprio un comunista e un marxista. Ovviamente il taglio di Lo Piparo è quello dell'esegeta che analizza gli scritti. Eppure anch'egli si lascia prendere da quelle «ansie ideologiche» che rimprovera agli interpreti che (come Croce, verrebbe da dire) sono convinti che il pensiero gramsciano si situi, pur in modo originale, nell'ambito del marxismo e del comunismo. Vediamo alcuni esempi.
La tesi da cui parte il libro è «che nella lettera del 27 febbraio 1933 Gramsci dichiari e renda ufficiale, anche se in maniera criptica, la propria estraneità, filosofica anzitutto, al comunismo come si andava realizzando». Ora, nella citata lettera alla cognata Tania non vi è alcuna questione di «estraneità filosofica». Vi è in primo luogo il rapporto difficile e drammatico con la moglie russa, Giulia, che secondo Lo Piparo sarebbe una «metafora» dell'Urss. Da qui si deduce che Gramsci voglia manifestare la sua decisione di separarsi dal movimento comunista. Che i rapporti tra Gramsci e il Pcd'I siano stati per due o tre anni burrascosi è cosa nota. Che nella lettera in questione anche di questo si tratti è evidente. Sul fatto però che sia Togliatti il vero carceriere di Gramsci non si può che dissentire (come d'altra parte su un'altra e più paradossale affermazione di Lo Piparo, secondo cui «Mussolini ha protetto Gramsci in carcere»).
In merito alla famosa lettera di Grieco del '28 a partire da cui il giudice Macis insinuò nel prigioniero il sospetto del tradimento subìto, si è scritto molto. È inutile ricordare come Terracini e Scoccimarro, che ricevettero lettere analoghe, non se ne risentissero; come Fiori abbia dimostrato che Macis faceva il suo mestiere di provocatore; come Sraffa abbia fatto notare che il sospetto fosse montato in Gramsci solo anni e anni dopo la famosa lettera, in una situazione psicofisica logora oltre ogni dire; come Canfora abbia addirittura sostenuto che la missiva fosse un falso dell'Ovra; come la stessa nulla aggiungesse a quanto era a tutti noto, che Gramsci era un dirigente comunista: affermazione tale da non rafforzare l'accusa e infatti al processo contro Gramsci la lettera di Grieco non fu esibita. Al di là delle buone o delle cattive ragioni di Gramsci, resta il fatto che nella lettera a Tania egli, dopo aver scritto di aver preso un «dirizzone» (una cantonata), aggiunge: «Mi persuade ancora che ciò non è perfettamente vero l'atteggiamento tuo e specialmente dell'avvocato». Ovvero di Sraffa, tramite dei rapporti di Gramsci con Togliatti e con il Comintern. Tradotto: nonostante dubbi e sospetti, il comunista sardo sapeva che i compagni non l'avevano abbandonato.
Un altro esempio: ricoverato nelle cliniche di Formia e poi di Roma, Gramsci non scrisse molto, solo poche nuove note, ricopiando con enorme fatica scritti precedenti. Perché non ricordare che dopo Turi Gramsci è sempre più gravemente malato e con pochissime energie? Invece Lo Piparo - facendo leva su alcune affermazioni di vari protagonisti della vicenda in cui si parla di «30 quaderni» o di «una trentina di quaderni» - arriva a ipotizzare che un quaderno sia stato fatto sparire da Togliatti perché troppo eterodosso. Ora, a parte che i quaderni sono 29 di note e appunti, 4 di sole traduzioni, 2 non utilizzati, più uno usato da Tania per un indice provvisorio; a parte che è improbabile che Giulia o Tania o altri distinguessero senza adeguato studio tra i vari tipi di quaderni (alcuni dei quali contengono sia traduzioni che note); a parte che essi son di vario formato e uno è quasi del tutto non scritto; a parte tutto questo, che può essere causa di approssimazione o errore, perché - come sostiene Lo Piparo - Togliatti avrebbe distrutto questo trentesimo e pericolosissimo quaderno in Italia, e non più prudentemente in Russia, quando durante la guerra ne fece lettura? In questa sua ansia di restituirci un Gramsci liberaldemocratico, Lo Piparo trae persino dai Quaderni una definizione dell'egemonia tagliando male la citazione: «L'egemonia presuppone... un regime liberal-democratico», affermerebbe Gramsci secondo Lo Piparo. Gramsci in effetti lo scrive(p. 691 dell'edizione Gerratana), ma non è la sua posizione, è quella di Croce, riassunta e contrapposta a quella di Gentile, come risulta palese a chiunque legga interamente la nota.
La custodia dei Quaderni
Ancora: secondo l'autore, la minuta che in accordo con Gramsci Sraffa stende negli ultimi giorni di vita del prigioniero, con la quale egli voleva chiedere il permesso di espatriare nella Russia sovietica - richiesta che per molti aspetti definisce la posizione di Gramsci, il suo ritenersi comunista fino all'ultimo -, sarebbe l'estremo tentativo di «Togliatti-Stalin» (e Sraffa) «di tenere il pensatore sardo nel secondo carcere», quello comunista. Ma come era possibile che costoro si illudessero che un Gramsci non più comunista - secondo Lo Piparo - ormai da quattro anni obbedisse, visto che l'istanza doveva essere firmata di suo pugno? Mai nessuno, neanche Lo Piparo, ha parlato di ricatti, di minacce per la famiglia di Gramsci in Urss: una ipotesi senza fondamento. Anche se si pensa che, morto Gramsci, le sorelle Schucht si appelleranno, in polemica coi comunisti italiani, proprio a Stalin, per ottenere la gestione degli scritti dello scomparso. Per fortuna Togliatti riuscì a ottenere le carte e a gestirle in modo da evitare che Gramsci apparisse come un eretico antistalinista, cosa che avrebbe significato che nulla ci sarebbe arrivato di lui fino agli anni '90. Quando Togliatti scriveva a Dimitrov che i Quaderni dovevano essere in alcuni passaggi «elaborati» prima di essere pubblicati, di questo si mostrava consapevole. Come alla fine lo stesso Lo Piparo ammette, scrivendo che è solo grazie a Togliatti che conosciamo i Quaderni. Non avrebbe potuto il luciferino Ercoli bruciarli subito tutti?
Scrive Lo Piparo: «In mancanza di documenti persi o distrutti o non ancora trovati, l'immaginazione è autorizzata a prendere le più disparate direzioni». No, lo studioso, lo storico non può procedere in questo modo. Gramsci non è il personaggio di un romanzo. «Di ciò di cui non si può dire, si deve tacere», ha scritto Wittgenstein. Credo che - in mancanza di nuove carte e ritrovamenti d'archivio - sulle questioni affrontate dal libro gli studiosi di Gramsci a questa norma dovrebbero attenersi.
Il dietrofront di Croce
In anni recenti Lo Piparo si è occupato degli influssi che Gramsci avrebbe esercitato, con la mediazione di Sraffa, sul secondo Wittgenstein, ipotesi affascinante su cui si annuncia un più ampio lavoro. Esce per il momento di Lo Piparo, però, un volumetto intitolato I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista (Donzelli, pp. 144, euro 16), destinato a far discutere su un versante diverso: quello della ipotesi, che in alcuni autori è divenuta affermazione polemica (e a volte bassamente propagandistica), secondo cui l'originalità del suo pensiero avrebbe portato Gramsci alla fuoriuscita dal Pci e dalla teoria e dalla prassi marxiste e comuniste. Fu Croce per primo a tentare l'operazione di contrapporre Gramsci ai comunisti, scrivendo nel 1947, di fronte alle Lettere: «Come uomo di pensiero egli fu dei nostri», ovvero un liberale. Molti però - non solo Lo Piparo - dimenticano di aggiungere che l'anno dopo, all'uscita dei Quaderni, don Benedetto ammise di essersi sbagliato, scrivendo che Gramsci era - purtroppo, dal suo punto di vista - proprio un comunista e un marxista. Ovviamente il taglio di Lo Piparo è quello dell'esegeta che analizza gli scritti. Eppure anch'egli si lascia prendere da quelle «ansie ideologiche» che rimprovera agli interpreti che (come Croce, verrebbe da dire) sono convinti che il pensiero gramsciano si situi, pur in modo originale, nell'ambito del marxismo e del comunismo. Vediamo alcuni esempi.
La tesi da cui parte il libro è «che nella lettera del 27 febbraio 1933 Gramsci dichiari e renda ufficiale, anche se in maniera criptica, la propria estraneità, filosofica anzitutto, al comunismo come si andava realizzando». Ora, nella citata lettera alla cognata Tania non vi è alcuna questione di «estraneità filosofica». Vi è in primo luogo il rapporto difficile e drammatico con la moglie russa, Giulia, che secondo Lo Piparo sarebbe una «metafora» dell'Urss. Da qui si deduce che Gramsci voglia manifestare la sua decisione di separarsi dal movimento comunista. Che i rapporti tra Gramsci e il Pcd'I siano stati per due o tre anni burrascosi è cosa nota. Che nella lettera in questione anche di questo si tratti è evidente. Sul fatto però che sia Togliatti il vero carceriere di Gramsci non si può che dissentire (come d'altra parte su un'altra e più paradossale affermazione di Lo Piparo, secondo cui «Mussolini ha protetto Gramsci in carcere»).
In merito alla famosa lettera di Grieco del '28 a partire da cui il giudice Macis insinuò nel prigioniero il sospetto del tradimento subìto, si è scritto molto. È inutile ricordare come Terracini e Scoccimarro, che ricevettero lettere analoghe, non se ne risentissero; come Fiori abbia dimostrato che Macis faceva il suo mestiere di provocatore; come Sraffa abbia fatto notare che il sospetto fosse montato in Gramsci solo anni e anni dopo la famosa lettera, in una situazione psicofisica logora oltre ogni dire; come Canfora abbia addirittura sostenuto che la missiva fosse un falso dell'Ovra; come la stessa nulla aggiungesse a quanto era a tutti noto, che Gramsci era un dirigente comunista: affermazione tale da non rafforzare l'accusa e infatti al processo contro Gramsci la lettera di Grieco non fu esibita. Al di là delle buone o delle cattive ragioni di Gramsci, resta il fatto che nella lettera a Tania egli, dopo aver scritto di aver preso un «dirizzone» (una cantonata), aggiunge: «Mi persuade ancora che ciò non è perfettamente vero l'atteggiamento tuo e specialmente dell'avvocato». Ovvero di Sraffa, tramite dei rapporti di Gramsci con Togliatti e con il Comintern. Tradotto: nonostante dubbi e sospetti, il comunista sardo sapeva che i compagni non l'avevano abbandonato.
Un altro esempio: ricoverato nelle cliniche di Formia e poi di Roma, Gramsci non scrisse molto, solo poche nuove note, ricopiando con enorme fatica scritti precedenti. Perché non ricordare che dopo Turi Gramsci è sempre più gravemente malato e con pochissime energie? Invece Lo Piparo - facendo leva su alcune affermazioni di vari protagonisti della vicenda in cui si parla di «30 quaderni» o di «una trentina di quaderni» - arriva a ipotizzare che un quaderno sia stato fatto sparire da Togliatti perché troppo eterodosso. Ora, a parte che i quaderni sono 29 di note e appunti, 4 di sole traduzioni, 2 non utilizzati, più uno usato da Tania per un indice provvisorio; a parte che è improbabile che Giulia o Tania o altri distinguessero senza adeguato studio tra i vari tipi di quaderni (alcuni dei quali contengono sia traduzioni che note); a parte che essi son di vario formato e uno è quasi del tutto non scritto; a parte tutto questo, che può essere causa di approssimazione o errore, perché - come sostiene Lo Piparo - Togliatti avrebbe distrutto questo trentesimo e pericolosissimo quaderno in Italia, e non più prudentemente in Russia, quando durante la guerra ne fece lettura? In questa sua ansia di restituirci un Gramsci liberaldemocratico, Lo Piparo trae persino dai Quaderni una definizione dell'egemonia tagliando male la citazione: «L'egemonia presuppone... un regime liberal-democratico», affermerebbe Gramsci secondo Lo Piparo. Gramsci in effetti lo scrive(p. 691 dell'edizione Gerratana), ma non è la sua posizione, è quella di Croce, riassunta e contrapposta a quella di Gentile, come risulta palese a chiunque legga interamente la nota.
La custodia dei Quaderni
Ancora: secondo l'autore, la minuta che in accordo con Gramsci Sraffa stende negli ultimi giorni di vita del prigioniero, con la quale egli voleva chiedere il permesso di espatriare nella Russia sovietica - richiesta che per molti aspetti definisce la posizione di Gramsci, il suo ritenersi comunista fino all'ultimo -, sarebbe l'estremo tentativo di «Togliatti-Stalin» (e Sraffa) «di tenere il pensatore sardo nel secondo carcere», quello comunista. Ma come era possibile che costoro si illudessero che un Gramsci non più comunista - secondo Lo Piparo - ormai da quattro anni obbedisse, visto che l'istanza doveva essere firmata di suo pugno? Mai nessuno, neanche Lo Piparo, ha parlato di ricatti, di minacce per la famiglia di Gramsci in Urss: una ipotesi senza fondamento. Anche se si pensa che, morto Gramsci, le sorelle Schucht si appelleranno, in polemica coi comunisti italiani, proprio a Stalin, per ottenere la gestione degli scritti dello scomparso. Per fortuna Togliatti riuscì a ottenere le carte e a gestirle in modo da evitare che Gramsci apparisse come un eretico antistalinista, cosa che avrebbe significato che nulla ci sarebbe arrivato di lui fino agli anni '90. Quando Togliatti scriveva a Dimitrov che i Quaderni dovevano essere in alcuni passaggi «elaborati» prima di essere pubblicati, di questo si mostrava consapevole. Come alla fine lo stesso Lo Piparo ammette, scrivendo che è solo grazie a Togliatti che conosciamo i Quaderni. Non avrebbe potuto il luciferino Ercoli bruciarli subito tutti?
Scrive Lo Piparo: «In mancanza di documenti persi o distrutti o non ancora trovati, l'immaginazione è autorizzata a prendere le più disparate direzioni». No, lo studioso, lo storico non può procedere in questo modo. Gramsci non è il personaggio di un romanzo. «Di ciò di cui non si può dire, si deve tacere», ha scritto Wittgenstein. Credo che - in mancanza di nuove carte e ritrovamenti d'archivio - sulle questioni affrontate dal libro gli studiosi di Gramsci a questa norma dovrebbero attenersi.
Guido Liguori, L'invenzione
di un teorico liberale, su Il Manifesto del 2 febbraio 2012 pag. 11.
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